RED CANZIAN POOH

Federico Fellini nacque a Rimini, allora in provincia di Forlì, il 20 gennaio 1920 e mori a Roma il 31 ottobre 1993.

E’ considerato uno dei maggiori registi della “storia del cinema” dove ha presenziato per quarant’anni, dal 1950 al 1990, realizzando 19 Film in cui ha “ritratto” una piccola folla di personaggi memorabili. Definiva sé stesso “un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo”. Ha lasciato opere ricche di satira e velate di una sottile malinconia, caratterizzate da uno stile onirico e visionario.

I titoli dei suoi più celebri film: I Vitelloni – La Starda – Le notti di Cabiria, La Dolce vita – 8½ – Giulietta degli spirti e Amarcord – sono diventati dei “topoi” citati, in lingua originale in tutto il mondo.
I suoi film: la strada – Le notti di Cabiria – 8½ – Amarcord – hanno vinto l’Oscar al miglior film in lingua straniera. Candidato 12 volte al Premio Osca, nel 1993 gli è stato conferito l’Oscar alla carriera. Ha vinto inoltre due volte il Festival di Mosca (1963 e 1987), la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1960 e il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1985.

La sua storia
Federico Fellini nacque in una famiglia d’estrazione piccolo-borghese. Il padre, Urbano Fellini (1894-1956), era un rappresentante di liquori, dolciumi e generi alimentari originario di Gambettola, una cittadina sita a poco più di 20 km a ovest di Rimini, mentre la madre, Ida Barbiani (1896-1984), era una casalinga originaria di Roma, del rione Esquilino. Segue studi regolari, frequentando il Ginnasio-Liceo classico “Giulio Cesare” di Rimini dal 1930 al 1938. Da adolescente rivela già il proprio talento nel disegno, che manifesta sotto forma di “vignette e caricature di compagni e professori.

Attentissimo a chi gli stava intorno, spesso ne imitava i gesti.
Il suo disegnatore preferito era lo statunitense Winsor McCay, inventore del personaggio “Little Nemo”. Ispirandosi al celebre personaggio, nella sua camera da letto aveva costruito con la fantasia un mondo inventato, nel quale immaginava di ambientare le storie che voleva vivere, raccontare e vedere al cinema. Ai quattro montanti del letto aveva dato i nomi dei quattro cinema di Rimini: da lì, prima di addormentarsi, prendevano forma le sue storie immaginifiche. Fellini, fin dall’età di sedici anni, mostrava una grande attrazione per il cinema: infatti, nel suo libro Quattro film, descrive che, tra gli anni 1936 e 1939, usciva di casa senza permesso dei genitori ed entrava nei cinema nella sua città. A quell’età non pensava ancora di fare il regista, ma qualcosa a metà tra lo scrittore e l’illustratore.
Già prima di terminare la scuola, nel 1938, invia le proprie creazioni ai giornali. La prestigiosa “Domenica de Corriere” gli pubblica una quindicina di vignette nella rubrica “Cartoline del pubblico” (la prima appare sul numero del 6 febbraio 1938). Il settimanale politico-satirico fiorentino Il 420″, edito da Nerbini, gli pubblica numerose vignette e rubrichette umoristiche sino alla fine del 1939. Agli inizi dello stesso anno (4 gennaio 1939) si è trasferito a Roma con la scusa di frequentare l’Università, in realtà per realizzare il desiderio di dedicarsi alla professione giornalistica.

Giunge nella capitale seguito dalla madre Ida, che nella città ha i suoi parenti, e dai due fratelli Riccardo e la piccola Maddalena; prende alloggio in via Albalonga 13, fuori porta San Giovanni nel quartiere Appio-Latino. Si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza ma non sosterrà mai un esame. Il suo vero obiettivo professionale è intraprendere il lavoro di “Giornalista”. Esordisce infatti, appena tre mesi dopo il suo arrivo a Roma, nell’aprile 1939, sul “Marc’Aurelio”, la principale rivista satirica italiana, nata nel 1931 e diretta da Vito De Bellis. Collabora come vignettista, è autore di numerose rubriche (tra le quali È permesso…?, Il riflettore è acceso), vignettista e autore delle celebri “Storielle di Federico”, divenendo una firma di punta del quindicinale. Il suo principale referente in questa fase è il disegnatore satirico e illustratore cinematografico Enrico De Seta. Nello stesso anno si reca a Cinecittà per la prima volta per intervistare l’attore Osvaldo Valenti (pubblicata su «Cine Magazzino»); sempre per un’intervista ha il primo incontro con Aldo Fabrizi, con il quale instaurerà una solida e duratura amicizia.

Il successo nel Marc’Aurelio si traduce in buoni guadagni e inaspettate offerte di lavoro. Comincia a scrivere copioni e gag di sua mano. Collabora ad alcuni film di Erminio Macari: “Imputato, alzatevi! – Lo vedi come sei” – del 1939; “Non me lo dire” – Il pirata sono io” del 1940; scrive le battute per gli spettacoli dal vivo di Aldo Fabrizi. Nel 1940 viene chiamato a collaborare con l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR), avviando una breve stagione come autore radiofonico. Per quanto meno nota rispetto all’opera cinematografica, l’attività radiofonica di Fellini è importante poiché segna il suo esordio nel mondo dello spettacolo, nonché l’inizio del sodalizio artistico e affettivo con Giulietta Masina.

In questi anni Fellini firma una novantina di copioni, tra presentazioni di programmi musicali, riviste radiofoniche, fino alla celebre serie di ventiquattro radio-scene Cico e Pallina. Trasmessa saltuariamente all’interno del programma di varietà Il terziglio fra il 1942 e il 1943, la serie si incentra sulle avventure di due giovani sposi dall’animo semplice e puro.
Il ruolo di Cico è di Angelo Zanobini, mentre Pallina è interpretata da una giovane attrice di rivista, Giulietta Masina, che Fellini conosce nel 1942 e che diventerà sua compagna inseparabile e interprete nei suoi film. Tra l’ampia produzione radiofonica di questi anni, anche le riviste scritte con Ruggero Maccari (tra le quali Vuoi sognare con me, in anni successivi interpretata da Paolo Poli, Riccardo Garrone, Gisella Sofio e Sandra Milo) la toccante Una lettera d’amore (1942), incentrata su due giovani fidanzati analfabeti che si scambiano lettere d’amore fatte di fogli bianchi e che lascia presagire la poesia di successivi personaggi cinematografici come Gelsomina e Cabiria.
Nel luglio 1943 Giulietta presenta Federico ai propri genitori. Dopo l’8 settembre 1943, quando il “proclama di Badoglio” rese pubblico l’armistizio con gli Alleati invece di rispondere alla “chiamata alla leva”, convola a nozze con lei il 30 ottobre. Nei primi mesi di matrimonio vivono insieme nella casa della zia di Giulietta, Giulia, di famiglia benestante (i suoi congiunti possedevano a Milan il calzaturificio «Di Varese» e Giulia era vedova di Eugenio Pasqualin, preside del Liceo Tasso della capitale). Giulietta e Federico hanno di lì a poco un figlio, Pier Federico detto Federichino, nato il 22 marzo 1945 e morto appena un mese dopo la nascita, il 24 aprile.

Le sue prime esperienze da sceneggiatore.
Tra il 1942 e il 1943 Fellini collabora alla sceneggiatura del film “Quarta pagina” (regia di Nicola Manzari) e di “Avanti c’è posto” e “Campo dei Fiori” di Mario Bonnard. Subito dopo l’arrivo delle forze alleate, apre nel 1944 a Roma con Enrico De Seta una bottega dal nome “The funny face shop”, nella quale si dipingono “caricature” per i militari alleati in un locale di via Nazionale, insieme con il giornalista Guglielmo Guasta e i pittori Carlo Ludovico Bompiani e Fernando Della Rocca. Il progetto si espande e grazie a ciò ha il suo primo incontro con Roberto Rossellini nel 1945.

Grazie a Rossellini, collabora alle “sceneggiature di “Roma città aperta” e “Paisà” film che aprono, assieme alle opere di altri autori, soprattutto Vittorio De Sica e Luchino Visconti, la stagione che verrà definita del “Neorealismo cinematografico italiano”. In Paisà Fellini ricopre anche il ruolo di assistente sul set. Sembra, inoltre, che abbia girato, in assenza di Rossellini, alcune scene di raccordo (di certo dirige una lunga inquadratura della sequenza ambientata sul Po). È il suo battesimo dietro la “macchina da presa”. Nel 1946 conosce Tullio Pinelli, torinese, scrittore per il teatro. In breve nasce un sodalizio professionale: elabora idee e schemi, mentre Pinelli li dispone dentro una struttura testuale.
Negli anni successivi, Federico Fellini firma nuove sceneggiature. Nel 1948 un soggetto realizzato con Pinelli viene messo in scena: Il miracolo, uno dei due episodi de “L’amore”, film diretto da Roberto Rossellini. Nell’episodio Fellini è anche attore: interpreta un vagabondo che incontra e seduce un’ingenua pastorella, interpretata da Anna Magnani.
Seguono sceneggiature per diversi film di Pietro Germi: “In nome della legge” – “Il Cammino della speranza” – “La città si difende”. Con Alberto Lattuada scrive la sceneggiatura de “Il delitto di Giovanni Episcopo” – “Senza pietà” e “Il mulino del Po”.

Le sue prime esperienze di regia.
Nel 1950 Fellini esordisce alla regia con “Luci del varietà”, che dirige con Alberto Lattuada. Oltre alla regia, i due cineasti si cimentano anche come produttori grazie a un accordo basato su una formula di cooperativa. Il soggetto della pellicola è un tema che diventerà un “topos” narrativo di Fellini: il mondo dell’avanspettacolo e la sua decadenza. Sul set si respira aria ilare e distesa con Lattuada che dirige principalmente i lavori ma con un Fellini sempre presente e attivo.
Nonostante il film riceva giudizi positivi da parte della critica, non riscuote gli sperati successi commerciali, piazzandosi come incasso al sessantacinquesimo posto tra i film italiani durante la stagione 1950-51. Il pessimo esito finanziario della pellicola lascia un segno pesante sui patrimoni personali di Fellini e Lattuada e ciò contribuisce a raffreddare definitivamente i rapporti tra i due.
L’esordio assoluto come regista: Lo sceicco bianco – “… Si erano imbarcati tutti in un barcone che era a un chilometro di distanza su un mare immenso. Mi parevano lontanissimi, irraggiungibili. Mentre un motoscafo mi portava verso di loro, il barbaglio del sole mi confondeva gli occhi. Non solo erano irraggiungibili, non li vedevo più. Mi domandavo “E ora cosa faccio?…” Non ricordavo la trama del film, non ricordavo nulla, desideravo tagliare la corda e basta. Dimenticare. Poi, però, di colpo tutti i dubbi mi svanirono quando posai il piede sulla scala di corda. Mi issai sul barcone. Mi intrufolai tra la troupe. Ero curioso di vedere come sarebbe andata a finire”.
Due anni dopo Luci del varietà, Fellini giunge all’esordio assoluto come regista, con “Lo sceicco bianco”, con Antonioni coautore del soggetto, Flaiano coautore della sceneggiatura e una grande interpretazione di Alberto Sordi, esempio della sua capacità di valorizzare gli attori più amati dal pubblico. È il momento cruciale nella carriera felliniana: il momento nel quale l’attività di regista prende il sopravvento su quella di sceneggiatore. La gestione delle riprese da parte di Fellini si realizza in una continua rivisitazione della sceneggiatura con l’arricchimento di situazioni e la dilatazione dei tempi. Questo suo modo di operare lo porterà ad alcuni contrasti con il direttore di produzione Enzo Provenzale.
Con questo film, inaugura – grazie anche alla collaborazione con Ennio Flaiano – uno stile nuovo, estroso, umoristico, una sorta di “realismo magico e onirico” che però non viene subito apprezzato. Inoltre, più in generale e facendo riferimento anche alla filmografia successiva a “Lo sceicco bianco” si definisce lo stile di Fellini come fanta-realismo.
Gli incassi al botteghino si rivelano un completo insuccesso, un duro colpo per la “Casa di produzione di Luigi Rovere. Anche se vi sono alcuni giudizi positivi – Callisto Cosulich lo definisce “il primo film anarchico italiano” – la maggioranza della critica lo stronca fino a definirlo “…un film talmente scadente per grossolanità di gusto, per deficienze narrative e per convenzionalità di costruzione da rendere legittimo il dubbio se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello”.
Gli anni ’50 sono caratterizzati da profondi cambiamenti nella società e in particolare nell’Italia che si avvia verso l’industrializzazione e i suoi film girati in questo periodo nascono proprio da questo contesto. Dopo Lo sceicco bianco il regista gira “I vitelloni” che racconta la vita di provincia di un gruppo di amici a Rimini. Questa volta il film ha un’accoglienza entusiastica. Alla Mostra del Cinema di Venezia, dove viene presentato il 26 agosto 1953, l’opera conquista il Leone d’Argento. La sua fama così si espande per la prima volta all’estero, il film è infatti campione di incassi in Argentina e riscuote un buon successo anche in Francia, Stati Uniti e Inghilterra.

È il 1953 e il regista riminese, poco più che trentenne, fa ricorso a episodi e ricordi dell’adolescenza, ricchi di personaggi destinati a restare nella memoria. L’articolazione della trama del film in grandi blocchi episodici, qui per la prima volta sperimentata, sarà una consuetudine di molti suoi film successivi.
Il periodo di preparazione e lavorazione del film si svolge senza intoppi, nonostante il budget preventivato dalla produzione sia alquanto modesto. Sebbene molte parti della sceneggiatura abbiano un carattere “autobiografico, descrivendo situazioni e personaggi della sua infanzia, il regista riminese preferisce distaccarsi dalla realtà inventando una cittadina fittizia mischiando ricordi e fantasia, come farà vent’anni più tardi con la Rimini di “Amarcord”.
Allo stesso anno risale la collaborazione di Fellini al film a episodi progettato da Cesare Zavattini, Riccardo Ghione e Marco Ferreri “L’amore in città”: l’episodio diretto dal regista riminese – Agenzia matrimoniale – è, secondo molti critici, il più riuscito. Durante la lavorazione di questo cortometraggio si avvale per la prima volta della collaborazione di Gianni Di Venanzo come direttore della fotografia che poi vorrà avere per 8½ e Giulietta degli Spiriti.
Il grande successo internazionale gli arriva grazie al film “La strada”, girato nel 1954. L’idea del film si ha intorno al 1952 quando Fellini è alle prese con il montaggio de Lo sceicco bianco. Per motivi strettamente legati alla produzione è però costretto a ritardare il progetto e a girare prima I vitelloni e l’episodio Agenzia matrimoniale, ma in testa ha già chiaramente l’idea che lo porterà alla realizzazione della successiva opera.
La scrittura de “La strada” avviene a partire da alcune discussioni con Tullio Pinelli sulle avventure di un “cavaliere errante” per poi focalizzarsi sull’ambiente del circo e degli zingari.
Il film, ricco di poesia, racconta il violento e turbolento rapporto fra Gelsomina, interpretata da Giulietta Masina, e Zampanò, interpretato da Anthony Quinn, due strampalati artisti di strada che percorrono l’Italia dell’immediato dopoguerra. La realizzazione del film fu lunga e difficoltosa. Il budget era assai limitato, tanto da costringere Anthony Quinn, abituato ai fasti delle produzioni hollywoodiane ad adattarsi a un trattamento più “di fortuna”. L’attore, comunque, comprese lo spessore artistico della pellicola tanto che in una lettera del 1990 scriverà a Federico e Giulietta: “Per me tutti e due rimanete il punto più alto della mia vita”.

Tra i vari imprevisti e incidenti che rallentano la realizzazione del film si aggiunge il manifestarsi in Fellini dei primi sintomi della depressione che lo porterà ad avere un malumore incontrollabile.
La prima de La strada avviene il 6 settembre 1954 a Venezia. I primi giudizi del film si inseriscono in un contesto di scontro culturale con i “neorealisti” sostenitori del regista Luchino Visconti che presenta nello stesso periodo il film Senso. Ben altra accoglienza ha il film fuori dai confini italiani e nel 1957 arriva l’Oscar al miglior film in lingua straniera, istituito per la prima volta in quell’edizione, per “La strada”.

Molti “critici” hanno provato ad analizzare il film per cercare elementi autobiografici di Fellini, identificandolo principalmente con Zampanò e vedendo nel suo rapporto con Gelsomina una metafora del matrimonio nell’epoca pre-femminista. Una diversa chiave di lettura la dà la stessa Masina, che identifica il marito in tutti e tre protagonisti: Gelsomina è il Federico da bambino che contempla la natura e parla con i fanciulli, il vagabondaggio di Zampanò rappresenta alcune delle sue più peculiari caratteristiche mentre il Matto è il Fellini regista che dichiara “vorrei sempre far ridere”.

Dopo il successo de La strada sono molti i produttori che si contendono il successivo film del regista, ma dopo aver letto il soggetto de “Il bidone” molti si tirano indietro. L’unico che accetta di produrlo è Goffredo Lombardo della Titanus.
L’idea per questa sceneggiatura gli viene dai racconti di un gabbamondo incontrato in una trattoria di Ovindoli durante la lavorazione de La strada. Dopo averne discusso con i collaboratori Pinelli e Flaiano, si cerca l’attore protagonista. Dopo aver scartato molti nomi viene scelto lo statunitense Broderick Crawford, affiancato dal connazionale Richard Baehart (il “Matto” de La strada), Franco Fabrizi e Giulietta Masina. In questo film si avvarrà della collaborazione di Augusto Tretti, il regista “più folle del cinema italiano”, come lo definirono Fellini stesso ed Ennio Flaiano.
Durante la lavorazione, appare però distaccato dal film, non sente più né il divertimento de I vitelloni, né il sapore della sfida de La strada. Il risultato finale appare alla critica e al pubblico modesto. La “prima” avviene il 9 settembre 1955 a Venezia dopo essere stati costretti a un lavoro di montaggio a tempi di record. La gelida accoglienza avuta alla mostra di Venezia porterà il regista a decidere di non mandare più al Lido nessuno dei suoi lavori, fino a quando presenterà, fuori concorso, “Fellini Satyricon” nel 1969. Gli incassi de Il bidone sono piuttosto deludenti e anche la distribuzione all’estero non porta i risultati sperati. Alcune delle critiche più ostili parlano di “Un passo falso” o “Non funziona, ma non è trascurabile”.

Il successo torna con il film successivo, “Le notti di Cabiria”, che vince il Premio Oscar. Anche in questo caso, protagonista è Giulietta Masina, sempre molto presente nei suoi primi film. Con questo film si conclude la “trologia” ambientata nel mondo degli umili e degli emarginati.
Arrivano gli anni ’60, anni in cui la sua vena creativa si esprime con tutte le sue energie, rivoluzionando i canoni estetici del cinema.
Esce “La dolce vita” da lui stesso definito un film “picassiano” (comporre una statua per romperla a martellate”, aveva dichiarato). La pellicola – che abbandonava gli schemi narrativi tradizionali – destò scalpore e polemiche perché, oltre a illustrare situazioni fortemente erotiche, descriveva con piglio graffiante una certa decadenza morale che strideva con il “benessere economico” ormai acquisito dalla società italiana.
Il produttore iniziale de La dolce vita fu Dino De Lauretiis, che aveva anticipato 70 milioni di lire. Tra lui e il produttore avvenne però una rottura e dovette cercare un altro produttore che ripagasse anche l’anticipo di De Laurentiis. Dopo varie trattative con diversi produttori, il duo Angelo Rizzoli e Giuseppe Amato divenne il nuovo produttore della pellicola.
Il rapporto tra lui e Rizzoli è tranquillo e gli incontri cordiali. Il budget viene sforato, anche se di poco: Kezich riporta che secondo fonti ufficiali il film non costò più di 540 milioni, che non era una cifra eccessiva per una produzione impegnativa come quella de La dolce vita.
Interprete del film, insieme con Marcello Mastroianni la svedese Anita Ekberg, che sarebbe rimasta – con la scena del bagno nella Fontana di Trevi – nella memoria collettiv: la Ekberg sarà ancora con Fellini nel 1962 in un episodio di Boccaccio ’70, Le tentazioni del dottor Antonio, assieme a un esilarante Peppino De Filippo. Il film fu premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes.

Terminati i lavori per le tentazioni del dott. Antonio, vive un periodo di scarsa ispirazione. Nella sua mente comincia a girare l’idea di un nuovo film, ma non con un soggetto preciso. Conosce Chianciano Terme per caso perché aveva terminato il carburante per la sua auto e dovette fermarsi in questo paese toscano. Dopo aver trascorso un periodo di riposo presso le famose Terme, fa ritorno a Roma con uno spunto per una sceneggiatura: un uomo di mezza età interrompe la sua vita per una cura termale e qui, immerso in un limbo, affronta visite e ricordi. La scelta del protagonista cade quasi subito sull’amico Marcello Mastroianni. Tra i due l’amicizia è intensa tanto che finirà per identificare nell’attore il suo “alter ego” cinematografico.

Invitato a Cinecittà, tra i festeggiamenti gli arrivano gli auguri per il nuovo film, che ormai non ricorda, ma una volta seduto su una panchina arriva il lampo di genio: il film parlerà proprio di questo, di un regista che voleva fare un film ma non si ricorda più quale!
Il film, girato nel 1963, prende il titolo di 8½, poiché questa pellicola viene dopo sei film interamente da lui diretti, più tre “mezzi” film, costituiti dalla somma “ideale” di tre opere codirette con altri registi (cioè Luci del varietà, diretto con Lattuada, l’episodio Agenzia Matrimoniale ne L’amore in città e l’episodio Le tentazioni del dottor Antonio in Boccaccio ’70), e in seguito si rivelerà uno dei capolavori del regista. Premiato con un Premio Oscar il film è considerato uno dei più grandi della “storia del cinema”, tanto da essere stato inserito dalla rivista inglese Sight & Sound al 9º posto nella graduatoria delle più belle pellicole mai realizzate e al 3º nella classifica stilata dai registi.
In “Giulietta degli spiriti”, ancora con la Masina (1965), Fellini adotta per la prima volta il colore in un lungometraggio, in funzione espressionistica (il suo primo lavoro a colori è comunque l’episodio Le tentazioni del dottor Antonio del 1962).
Il periodo di lavorazione del film è caratterizzato anche da un aumento di interesse, da parte sua, verso il “soprannaturale”. Frequenta molti maghi e veggenti e in particolare Gustavo Adolfo Rol, pittore, dirigente bancario e sensitivo di fama. È di questo periodo anche l’esperimento con l’LSD a scopo terapeutico, come proposto dal suo psicoanalista Emilio Servadio.
L’accoglienza della critica per Giulietta degli spiriti è piuttosto tiepida. I commenti più negativi si espressero con i termini di velleitario, fasullo, ipertrofico, inadeguato. Non mancano alcuni elogi e una piccola minoranza, seppur marginale, parla anche di capolavoro. Il giudizio più severo proviene dal Centro Cattolico Cinematografico che lo accusa di uno “sgradevole impasto che si fa del sacro e del profano”. L’insoddisfazione per i risultati, non certo adeguati alle aspettative, creerà, anche, un’incrinatura del rapporto tra il regista ed Ennio Flaiano.
Il film successivo, “Il viaggio di G. Mastorna”, già in cantiere, non viene realizzato. Fellini, quarantacinquenne, deve pagare pesanti penali. Si riprende al termine del decennio. La fine degli anni ’60 e l’inizio dei’70 sono anni di intenso lavoro creativo.

Tornato sul set, dopo aver rinnovato completamente la squadra tecnica e artistica intorno a sé, gira nel 1968 un episodio del film “Tre passi nel delirio”, l’anno seguente realizza un documentario per la televisione (Bolck-notes di un regista), cui segue il film “Fellini Satyricon” (1969), una libera trasposizione dell’omonima opera della letteratura latina del 1° secolo per il quale venne anche candidato – non vincendolo – all’Oscar al miglior regista. È di nuovo grande successo, i problemi degli anni precedenti sono definitivamente alle spalle.
La sua dichiarazione: “Mi sembra che i personaggi di Amarcord, i personaggi di questo piccolo borgo, proprio perché sono così, limitati a quel borgo, e quel borgo è un borgo che io ho conosciuto molto bene, e quei personaggi, inventati o conosciuti, in ogni caso li ho conosciuti o inventati molto bene, diventano improvvisamente non più tuoi, ma anche degli altri”.
La produzione successiva segue ancora un ritmo ternario: “I clowns” (girato per la TV, 1970), “Roma” (1972) e “Amarcord” (1973) sono tutti incentrati sul tema della memoria, dove cerca le origini della propria poetica esplorando le tre città dell’anima: il Circo, la Capitale e Rimini.
Il film conclusivo della terna, Amarcord («mi ricordo» in dialetto romagnolo) vince l’Oscar. La notizia della vittoria gli arriva nelle prime ore del 9 aprile 1975, mentre è impegnato sul set di “Casanova” e così decide di non andare a ritirare il riconoscimento che verrà consegnato al produttore.
In particolare in Amarcord si trovano molti spunti autobiografici: infatti possiamo riconoscere in Titta, un giovane Fellini che ricorda la sua adolescenza, interpretato dall’esordiente Bruno Zanin. Malgrado ciò, il regista rifiuta di riconoscere nella pellicola qualsiasi riferimento alla propria vita, asserendo che tutto è frutto della sua immaginazione. Come già nei Vitelloni, non c’è una sola scena che sia girata nei pressi della città romagnola.
Dopo “Casanova” del 1976 è il turno di “Prova d’orchestra”(1979), considerato il suo film più “politico” e maturato durante i cosiddetti “anni di piombo” e “La città delle donne” (1980). Quest’ultimo viene accolto dalla critica con rispetto, venendo descritto come “tipicamente felliniano”, “catalogo di evoluzioni registiche”, “gioco con alcuni vuoti”. Presentato fuori concorso al XXXIII Festival di Cannes, riceve invece una critica alquanto negativa.
Negli anni ottanta dilagano in Italia le tv private. Queste emittenti non chiedono un canone al pubblico, in compenso trasmettono programmi infarciti di pubblicità. Anche i film vengono interrotti dagli spot, suscitando la riprovazione del regista romagnolo.
L’ultimo decennio di attività di Fellini è arricchito dai suoi ultimi lavori: “E la nave va” (1983), “Ginger e Fred” (1986), “Intervista” (destinato alla TV, 1987), e il lavoro dell’addio al cinema, “La voce della luna” (1990), liberamente tratto da “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni. Durante la lavorazione del film tutta l’attenzione della stampa è rivolta alla curiosa scelta dei due protagonisti: Roberto Benigni e Paolo Villaggio. La critica inizialmente stupita delle relative scritturazioni, interrogherà più volte il regista sul perché di tale scelta, accogliendo il film in maniera piuttosto tiepida. La risposta di Fellini non si fa attendere: “Benigni e Villaggio sono due ricchezze ignorate e trascurate. Ignorarne il potenziale mi sembra una delle tante colpe che si possono imputare ai nostri produttori”.
La pellicola, riconsiderata nel tempo per il suo valore, «è una sorta di invocazione al silenzio, contro il frastuono della vita contemporanea». Ambientata in un contesto rurale e notturno, l’opera si pone «come un elogio della follia e una satira sulla volgarità dell’odierna civiltà berlusconiana. Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, vede il prodigarsi di registi come Woody Allen e Martin Scorsese nel fare distribuire il film anche in terra americana.
Nel 1992, dopo un periodo di inattività, ritorna dietro la cinepresa per dirigere tre brevi cortometraggi in forma di spot pubblicitari, intitolati Il sogno, per conto della Banca di Roma.

Il 29 marzo 1993 Fellini riceve dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences l’Oscar onorario “in riconoscimento dei suoi meriti cinematografici che hanno entusiasmato e allietato il pubblico mondiale”. A giugno il regista si sottopone a tre interventi chirurgici a Zurigo per ridurre un aneurisma dell’aorta addominale.
Il 3 agosto viene trovato disteso in terra nella sua camera al Grand Hotel di Rimini e ricoverato d’urgenza in ospedale: ha avuto un ictus cerebrale destro con un’emiparesi sinistra e rimarrà in prognosi riservata per una settimana. Il 20 agosto viene trasferito al Centro di Riabilitazione San Giorgio di Ferrara. Dieci giorni dopo anche Giulietta Masina viene ricoverata alla clinica Columbus di Roma, dove resterà fino al 28 settembre e quindi lontana dal suo amato Federico. Soltanto il 9 ottobre Fellini, ancora malato, lascerà in sedia a rotelle il San Giorgio per trasferirsi al Policlinico Umberto I di Roma. Prima, però, nella capitale sosta per un’ora nella sua casa in via Margutta 113 dove c’è una gran folla di amici e gente comune a salutarlo. Il 4 ottobre il produttore Leo Pescarolo annuncia che Fellini per la primavera 1994 sarebbe stato in grado di dirigere il nuovo film al quale il riminese stava lavorando, intitolato Block notes di un regista: l’attore.
Il 17 ottobre Fellini si concede un pranzo domenicale fuori dall’ospedale. Nel pomeriggio, a causa della disfagia indottagli dai pregressi ictus, un frammento di mozzarella gli ostruisce la trachea, causandogli una grave “ipossia” alla quale seguono danni cerebrali permanenti.
Fellini torna dunque in coma al reparto di rianimazione dell’Umberto I di Roma. Il 21 ottobre l’ANSA pubblica una foto non autorizzata del regista intubato che alimenterà una polemica sull’opportunità della sua divulgazione. Tutti i quotidiani sceglieranno di non pubblicare la foto, mentre la sorella del regista, Maddalena, presenterà querela contro ignoti per violazione della privacy e danno all’immagine del regista. Il 27 ottobre il regista si aggrava ulteriormente e il giorno dopo l’encefalogramma diventa piatto.
Fellini muore alle 12 del 31 ottobre 1993, all’età di 73 anni.
Il giorno prima aveva compiuto 50 anni di matrimonio con Giulietta Masina. Ella morirà qualche mese dopo.
La camera ardente viene allestita nello Studio 5 di Cinecittà e i funerali di stato vengono celebrati il 3 novembre dal Cardinale Achille Silvestrini nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma in piazza della Repubblica. Su richiesta di Giulietta Masina, il trombettista Mauro Maur esegue l’Improvviso dell’Angelo di Nino Rota.
Dopo l’ultimo saluto, anche la moglie Giulietta Masina muore, cinque mesi dopo il marito. Le sue spoglie riposano accanto alla moglie e a quelle del figlio Federichino, morto poco dopo la nascita, nel cimitero di Rimini: sovrasta il luogo dell’inumazione una scultura di Arnaldo Pomodoro dal titolo Le Vele, ispirata al film “E la nave va”.
A Fellini è intitolato l’aeroporto internazionale di Rimini. Il logo dell’aerostazione riporta la caricatura del regista, di profilo, con cappello nero e sciarpa rossa. È opera di Ettore Scola, logo anche della “Fondazione Fellini” con sede a Rimini. Dopo la sua morte, tutte le strade che sboccano sul lungomare riminese sono state ribattezzate con i nomi dei suoi film e “ornate” da cartelli con le relative locandine e descrizioni. Anche la città di Nova Siri, in provincia di Matera, ha dedicato tutte le strade del lungomare alle sue opere.
Nel 2014 al maestro riminese è stata intitolata la “pineta di Fregene”.
Il 19 agosto 2021 a Rimini viene inaugurato il “FELLINI MUSEUM”.

A cura di Pier Luigi Cignoli – Foto ImagoEconomica

Editorialista Pier Luigi Cignoli

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