GIANNI OLIVA AUTORE DI ANNI DI PIOMBO E DI TRITOLO
Gianni Oliva, all’anagrafe Giovanni Oliva, nato a Torino il 26 ottobre 1952, è uno storico, un docente e un politico.
Breve storia: Trascorsa la gioventù a Coazze in Val Sangone, frequenta il Liceo Classico Vincenzo Gioberti di Torino e successivamente si laurea in lettere all’Università degli Studi sempre in Torino nel 1975. Dedicatosi in particolare allo studio del Novecento italiano è insegnante di Storia delle istituzioni militari alla Scuola di Applicazione d’arma di Torino.
Insegnante e Preside del Liceo Classico Vittorio Alfieri di Torino fino al 2010, è divenuto in seguito preside dei licei scientifici Volta e Segrè di Torino, quindi Dirigente scolastico del Liceo Classico Cavour e, congiuntamente, del Liceo Classico Massimo D’Azeglio. Il 1º agosto 2014 è stato nominato preside effettivo dell’Istituto di Istruzione Superiore Ettore Majorana di Moncalieri.  Il 1º febbraio 2016 torna al liceo Alfieri in qualità di preside reggente, subentrando a Riccardo Gallarà. Dal 26 settembre 2022 è Presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Torino.
Dal 1975 al 1980 è Assessore presso il comune di Coazze e dal 1990 al 1995 capogruppo del Partito Comunista Italiano (divenuto poi PDS) al comune di Giaveno.
Dal 1999 è assessore al Sistema educativo e formativo della Provincia di Torino e coordinatore nazionale degli assessori provinciali all’Istruzione. Nel 2004 viene confermato assessore e nominato vicepresidente provinciale.
Partecipa alle elezioni regionali del 2005 nella circoscrizione di Torino e, con 8.470 voti di preferenza (quota proporzionale), entra per la prima volta nel consiglio regionale, da cui però si dimette perché nominato assessore alla cultura, patrimonio linguistico e minoranze linguistiche, politiche giovanili e Museo Regionale di Scienze Naturali della Regione Piemonte, incarico che svolge dal 2005 al 2010 nella giunta Bresso. Nel marzo 2013 è rientrato in consiglio regionale come consigliere.
La sua produzione saggistica è incentrata principalmente sulla storia italiana tra l’Ottocento e il Novecento: Mussolini e il fascismo; le due guerre mondiali; la Repubblica di Salò e la guerra civile 1943-1945; le avventure coloniali italiane; i Savoia e i Borbone; le forze armate: carabinieri, alpini, esercito, arditi, marò; i crimini di guerra italiani; la Resistenza e le stragi nazifasciste del 1943-45; le Foibe e gli esuli dell’Istria, Fiume, Dalmazia; la storia del Piemonte. Ha scritto pure una storia della Legione Straniera francese. Oliva ha affrontato aspetti spesso trascurati dalla storiografia dominante nel Dopoguerra.
Il suo ultimo saggio: “45 milioni di antifascisti. Il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il Ventennio”, Collezione Le Scie, Milano, Mondadori, 2024.
Una piccola ricerca fatta a seguito della lettura di un articolo scritto da Lucia Bellaspiga sul quotidiano “Avvenire” di oggi, che vi propongo in quanto evidenzia, grazie al saggio di Gianni Oliva, in questi giorni presente nelle librerie, delle verità di cui si parla o meglio si “chiacchiera” poco.
Entriamo insieme nei contenuti: 10 giugno del 1940: sotto il balcone di Palazzo Venezia una folla oceanica folla ascolta Benito Mussolini che afferma: “Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania! Ascoltate! La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia” e conclude con la parola “vinceremo!” e gli accoliti rispondono in coro “Si“.  Com’è andata a finire lo sappiamo tutti ma, come giustamente afferma lo storico Oliva, esperto del ’900 e della Resistenza «nessun manuale scolastico di storia scrive mai che l’Italia quella guerra l’ha persa. Fin dal 1945 abbiamo cercato di metterci tra i vincitori, saltando tutti insieme sul carro dei buoni, gli antifascisti», considerando il Ventennio una parentesi subìta, da cui finalmente il 25 luglio 1943 con la caduta del Duce ci aveva liberati. proprio da questa considerazione, che ha del vero, nasce il titolo del saggio di Oliva “45 milioni di antifascisti. Il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il Ventennio” che l’autore ha presentato oggi a Gorizia al XX Festival “è Storia“.
Domande e risposte dell’intervista fatta a Gianni Oliva
Lei cita una frase “umoristica” di W. Churchill: “In Italia fino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti, dal giorno dopo 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti”.
In effetti sembra una fotografia reale. Dopo il 25 luglio cadono le teste dei leader fasciti: Mussolini, Ciano, Pavolini e pochi altri, ma tutti i magistrati, i prefetti, i questori, gli intellettuali, i professori universitari, i giornalisti, i funzionari dell’apparato burocratico, i medici, i poteri finanziari restano, salvo qualche rara eccezione,  al loro posto, immobili padroni della loro poltrona e sedia, transitando dal prima al dopo senza alcuna conseguenza, in quanto tutto ciò che era successo prima era colpa di pochi, e il popolo italiano, sempre fantasioso e lungimirante se ne usciva senza colpo ferire. Non a caso la Magistratura, rimasta quella che era stata, non poté obiettivamente fare processi ai fascisti. Alla fine del 1943 i partigiani erano stimati in circa 18mila unità, mentre i volontari fascisti che partirono per Salò oltre 200mila. Era più ovvio per un giovane educato nella retorica del Ventennio scegliere la continuità piuttosto che la frattura coraggiosa della Resistenza. Se poi guardiamo quanti hanno ricevuto la qualifica di partigiano finita la guerra, erano 235mila. Ma a fare domanda sono stati oltre 600mila… Molti che erano stati fascisti sono poi entrati nelle formazioni partigiane, alcuni per sincera conversione, ma moltissimi altri per puro opportunismo. Ferruccio Parri dichiarò con amarezza che i 200mila effettivi partigiani dopo la Liberazione erano diventati mezzo milione… Se è comprensibile che l’intera classe dirigente non venisse epurata, è abbastanza indecente che un popolo si sia autoassolto in poche ore”.
Per quali motivi la classe dirigente passò alla nuova repubblica senza pagarne il fio?
L’Italia del ’45 era da ricostruire e aveva bisogno delle sue istituzioni. Dei 1.848 professori universitari solo 13 ebbero il coraggio di opporsi al giuramento di fedeltà al regime: 1.835 si accodarono. Se avessimo dovuto epurarli, avremmo chiuso gli atenei. Idem per i magistrati, i funzionari… Marcello Guida, questore di Milano negli anni ‘70, era stato direttore del carcere di Ventotene quando il giovane Pertini vi era recluso. Per questo, dopo la strage di piazza Fontana, il presidente della Camera Pertini si rifiutò di stringergli la mano. 
E di Gaetano Azzariti cosa può dire?
Altro esempio impressionante: Gaetano Azzariti nel 1919 viene assegnato all’ufficio legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia. Con Mussolini viene riconfermato e per tutto il Ventennio scrive le leggi del regime, comprese quelle razziali. Diventa addirittura presidente del Tribunale della Razza. Dopo il 25 luglio, il re lo fa nominare Ministro di Grazia e Giustizia: dovrà smontare ciò che lui stesso aveva costruito. Finita la guerra, torna a capo dell’ufficio legislativo, quando Ministro è Palmiro Togliatti, che lo promuove a suo consigliere: l’ex capo del Tribunale della Razza! A chi mostra stupore il Capo del Partito comunista spiega che non ha bisogno di politici ma di tecnici fedeli ed efficienti. Non è finita: nel ‘57 diventa Presidente della Corte costituzionale.” 
Ci sono ancora vie a lui dedicate?
La questione della toponomastica e delle medaglie mal riposte la trovo inutile. Ormai è chiaro che Tito ha commesso crimini efferati contro gli italiani e gli anticomunisti, ma è così importante togliergli l’Ordine al merito conferitogli dalla Repubblica italiana in un passato lontano? Così come abrogare la cittadinanza onoraria che molti Comuni diedero al duce un secolo fa? Abbattere i fasci o coprire scritte come – Credere, obbedire, combattere – ha senso nei momenti rivoluzionari che pongono fine a una stagione, non 80 anni dopo: lasciamo quelle scritte, spiegando perché furono fatte. Usiamole invece per educare le giovani generazioni”.
Rimozione delle responsabilità e salto sul carro dei vincitori sono la causa dell’attuale difficoltà a superare il passato e le sue contrapposizioni anacronistiche?
Certamente sì. Il passato non smette di esistere perché lo hai rimosso, anzi riemergerà più forte. Anche i tedeschi dopo la guerra hanno riciclato funzionari e politici, ma prima hanno fatto un esame di coscienza collettivo, qui da noi non è successo. Eliminati a piazzale Loreto anche i corpi di chi era stato osannato, e mandato in esilio il re, l’Italia può riacquistare la sua integrità e dignità morale vestendo i panni della Resistenza, lei sì dignitosa e integra, ma opera di una minoranza. C’è un modo infallibile per capire se si è vinto o perso: se dopo la guerra sulla carta geografica un Paese risulta più grande ha vinto, se risulta più piccolo ha perso. L’Italia dopo il 10 febbraio 1947 con il Trattato di pace di Parigi ha perso tutte le regioni adriatiche nord-orientali. Siamo stati sconfitti, ma ammetterlo avrebbe voluto dire non solo fare conti sterminati con milioni di persone ma azzerare tutta la classe dirigente e far emergere complicità infinite, oltre a dover punire gli alti gerarchi che si erano macchiati delle peggiori efferatezze in Grecia, Albania, Etiopia e soprattutto nei Balcani. L’amnistia Togliatti nel 1946 permise di rimuovere la resa dei conti della primavera 1945, ma anche la questione delle foibe e dell’esodo, e le complicità e le contraddizioni del Partito comunista”.
Così a pagare per tutti furono istriani, fiumani e dalmati?
Esattamente. I 300mila profughi hanno pagato il prezzo della sconfitta nazionale, eppure non erano di destra o di sinistra, o lo erano esattamente come torinesi, romani o palermitani. Racconto sempre il parallelo tra mia mamma, piemontese, e Norma Cossetto, la figura iconica del martirio delle foibe. Entrambe nate nel 1920 in una famiglia piccolo borghese, si diplomarono in un collegio di suore, frequentarono l’università, rispettivamente a Torino e Padova. Mia mamma nel ‘43 si laureò, poi insegnò tutta la vita e si fece la sua bella famiglia, Norma tre mesi prima della laurea fu rapita, violentata dai titini, gettata in una foiba. Qual era la sola differenza? Una era nata nel Nord-Ovest, l’altra nel Nord-Est. Invece di studiare la storia recente, di cui i giovani non sanno nulla, continuiamo a parlare di “antifascismo”, ma è ridicolo ridurlo a una dichiarazione astratta di principio. Dall’antifascismo è nata la Costituzione democratica (la democrazia è sempre antifascista, mentre non sempre l’antifascismo è democratico): ciò significa che essere antifascisti oggi significa battersi perché i principi costituzionali siano pienamente applicati. La politica deve essere la risposta ai problemi reali sulla base dei principi scritti e condivisi nel 1948, non la richiesta di dichiarazioni ad uso mediatico”.
A cura di Pier Luigi Cignoli editorialista – Foto Imagoeconomica
Editorialista Pier Luigi Cignoli

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