Quando si parla delle grandi dive della canzone jazz o di musicisti degli anni Quaranta e Cinquanta ci si può dimenticare di tanti artisti, che hanno dato lustro a questo genere musicale.
È il caso della pianista e cantante Shirley Horn, una cantante statunitense che iniziò a suonare il pianoforte fin dalla sua infanzia.
All’età di diciassette anni registrò il suo primo lavoro discografico, erano gli anni sessanta per una piccola label, la Stere – o – Graft.
Poi una pasusa tra gli anni settanta e ottanta per accudire la figlia che aveva messo al Mondo.

Tornò ad esibirsi nel 1988, con i suoi adorati musicisti, il contrabbassista Charles Ables e il batterista Steve Williams, mantenendo dopo lo stop familiare, tutte le sue caratteristiche.
L’importanza del bassista Ables e del batterista Williams per la cantante Shirley Horn – è evidenziata a più riprese dai numerosi critici musicali, tra i quali Don Hackman che sul Los Angeles Time, il 2 febbraio del 1995, scisse: “Lavorando con estrema cura, seguendo ogni sua sottile e inattesa improvvisazione, i due risultano essere gli accompagnatori ideali di un’artista che non a mai tollerato chiaramente nulla che non sia la perfezione”.

Ecco chi era Shirley Horn,la cantante che amava la perfezione e la raffinata esecuzione del brano.
Ottenne nel 1999 il Grammy Award della sua migliore prestazione vocale per la sua opera discografica I Remember Miles.
Omaggio al grande trombettista Miles Davis, e fu proprio lui nel 1960, a scoprire questa grande interprete.
Verrei così ricordare il ricordo sia vocale che pianistico di Shirley Horn che rammentò metaforicamente il suo padrino, in un articolo del 14 giugno 2021, del giornalista del quotidiano online Internazionale, Daniele Cassandro: “Ogni tanto ci dimentichiamo che i grandi cantanti sono anche dei grandi musicisti. Soprattutto nel caso delle cantanti, che per vizio culturale tendiamo a considerare soprattutto interpreti di musiche altrui. Veniamo distratti dalla loro personalità e dal loro fascino perché parte del loro lavoro di virtuose è proprio quello di nascondere l’arte, lo studio e tutta l’impalcatura che c’è dietro.

Poche persone come la jazzista Shirley Horn (1934-2005) rendono evidente questa doppia natura, quella della cantante che è anche musicista e nel suo caso eccellente pianista.
Anche Nina Simone è stata una grande pianista: è ben noto che il suo desiderio da ragazza era quello di diventare concertista classica ma, in quanto nera, ha dovuto ripiegare una carriera nel jazz e nel soul. Aretha Franklin era un’ottima pianista e arrangiatrice, ma è riconosciuta quasi esclusivamente come cantante.

Shirley Horn è una delle poche artiste a cui questa doppia natura, quella della pianista jazz e della cantante, è sempre stata riconosciuta, dalla critica e dal pubblico.
L’arrangiatore Johnny Mandel, che aveva lavorato con Count Basie, Frank Sinatra, Peggy Lee e Anita O’Day, di lei diceva che aveva due teste. La sua abilita’ di cantare e improvvisare accompagnandosi da sola al piano dove era prodigiosa.

Uno dei primi ad accorgersi del suo talento è, all’inizio degli anni Sessanta, Miles Davis.
Shirley Horn è una giovanissima cantante, nata a livello locale nel circuito dei locali di Washington Dc e ha da poco inciso il suo primo album Embers and Ashes.
Una mattina, mentre sta facendo colazione a casa della suocera in North Carolaina, squilla il telefono: c’è un signore che la cerca, dice di essere Miles Davis..
Un suo album del 1959 Kind of Blue, ha rivoluzionato non solo la Musica Jazz ma anche l’intera industria discografica; ha creato un pubblico che non esisteva ancora e aveva reinventato l’idea stessa di album jazz registrato in studio.
Insomma Miles Davis era molto famoso e anche la sua voce, roca e gutturale, è nota a tutti, Shirley Horn non crede che sia lui”.
Miles chiede a Shirley di fare i bagagli e di raggiungerlo a New York: vuole che sia lei ad aprire, con il suo trio, le sue serate al Village Vanguard.
Da allora comincia un sodalizio artistico che non si sarebbe mai interrotto: grazie a quelle serate Shirley Horn conosce l’arrangiatore e produttore Quincy Jones”, ex trombettista dell’orchestra del pianista Count Basie.
“(si lo stesso signore che un’era geologica produrrà Thriller del cantante Michael Jackson) che le offrirà un ottimo contratto discografico con La Mercury Records.
La giovane Horn è una talentuosa, impara molto da Miles Davis che, nonostante fosse noto per la sua misoginia, la considerava a tutti gli effetti una pari.
Durante quelle serate capita anche che Davis le chieda di sostituire il suo pianista Wynton Kelly e Shirley Horn diventa a tutti gli effetti una componente della band in un’epoca in cui il jazz strumentale era, essenzialmente, una cosa da uomini. Il legame Shirley Horn e Miles Davis rimane solidissimo. I due hanno le loro carriere separate ma continuano a seguirsi, più che come amici come musicisti. Miles Davis muore nel 1991 e per Shirley Horn è un duro colpo: “C’è una voragine nel mio cuore, gli volevo bene”, ha commentato qualche anno dopo, nel 1998, nelle note del suo album commemorativo I Remember Miles.
Sette anni dopo la morte del suo amico e maestro, la Horn decide di renderli omaggio con questa opera discografica che cerca di rilanciare i fili della loro estesa musicale.
Un’opera che mette i due, maestro e allieva, sullo stesso piano fin dalla copertina: un disegno di Davis che lì mostra di profilo confusi in un bacio, come se fossero un’unica creatura bifronte.

Shirley Horn non si limita a riprendere alcuni standard radicalmente reinterpretati da Miles Davis, come Summertime e My Funny Valantine, ma fa un lavoro di scavo negli arrangiamenti, cercando tra le loro due diverse personalità musicali.
Per My Man’s gone Now, un’aria composta dal compositore George Gershwin per l’opera Porgy and Bess, la Horn decide di partire da un’arrangiamento che Miles Davis aveva ideato nei primi anni Ottanta, quello che possiamo ascoltare nel live We Want Miles.
La Horn era rimasta molto colpita da quella lunghissima rilettura quasi funk del classico di Gershwin, e decide di riprenderla, ma a modo suo con quel piglio rilassato, in cui tutti gli effetti del Miles Davis elettrico degli anni Ottanta sono sempre lì ma vengono smussati, allegeriti e trasformati in eleganti arabeschi.
Ci sono anche riletture dei pezzi che Miles aveva sentito fare da lei al Village Vanguard e che aveva incorporato nel suo repertorio nell’album Seven Steps to Heaven del 1963: Basin Street Blues, I Fall In Love too Easily e Baby Won’t you Please come Home.

Nel suo omaggio al maestro la pianista e cantante non ricorda solo quello che lei ha imparato da lui ma anche quello che lei era riuscita a trasmettergli.
L’unico pezzo che non a nulla a che vedere con Miles Davis è la splendida This Hotel “C’erano quattro che io avrei tanto voluto fare con Miles”, ricorda la Horn nelle note dell’album I Remember Miles. “E questa è una. Dentro di me sento lui che suona questa melodia”.
(Testo virgolettato di Daniele Cassandro, giornata del quotidiano Internazione, del 14 giugno 2021).

[…] “Il 7 agosto 1959 la Horn è tra per la prima volta in uno studio di registrazione: è stata convocata dal violinista Stuff Smit, jazzista con già una discreta carriera alle spalle. Siamo a Washington, agli Englewoand Recording Studios, il committente è la ben nota etichetta Verve Records. Ma quando il disco esce, del nome di Shirley Horn non c’è traccia: come pianista è indicato un certo John Eaton era presente quella volta, ma aveva suonato solo un paio di brani; la vera pianista, era una ragazza allora sconosciuta e forse per questo, oltre che per essere donna in un ambiente prevalentemente maschile come quell’odore jazz, di fatto “cancellata”.
Passano tre anni prima che la Horn riesca a emergere nell’ambiente maschile, e lo fa grazie all’interessamento di Miles Davis, un fatto sorprendente considerato il carattere non certo facendo e la scarsissima attitudine del trombettista a valorizzare altri musicisti, perfino quelli appartenenti alle proprie formazioni.
È Miles, rimasto impressionato dall’ascolto di alcuni brani usciti per una minuscola etichetta indipendente discografica, a negoziare per lei un contratto per una serie di registrazioni.

La invita anche a esibirsi a New York City, nell’intervallo delle performance del suo quintetto,val famoso locale Village Vanguard, girando al proprietario del locale che non avrebbe più suonato per lui se non avesse ingaggiato la Horn.
Convinta da Davis, la prestigiosa Philips organizza, il 13 settembre 1962, una seduta dalla quale uscirà per la propria etichetta Mercury Records,
l’album Loades of Love.
Gli arrangiamenti sono affidati alla professionalità di Jimmy Jones e alla cantante viene concessa, vocale più unica che rara, la possibilità di stilare una lista dei suoi musicisti preferiti da coinvolgere nell’operazione.

Molti di questi accettarono e Shirley viene cosi accompagnata, oltre che da una nutrita sezione di archi (violini), da un ampia formazione di “stelle” del jazz, che vanno dal trombettista Ernie Royal ai sassofonisti Frank Wess e Gerry Mulligan, dal chitarrista Kenny Burrell al pianista Hank Jones.
Malgrado tutte queste attenzioni, lei stessa racconta di essere arrivata alla data fissata in preda al panico, bloccata fuori dalla porta dello studio a guardare attraverso il vetro, e alcuni dei più grandi musicisti del mondo seduti ad aspettarla. Il repertorio è costituito prevalentemente da famosi standard del Songbook americano (Jimmy Van Heusen, Cole Porter, George Gershwin, Richard Rogers), che la Horn fa propri con elegante creatività.
Sulla copertina del disco è presentata cosi: “A New voice sings – lush, word and Wonderful “.

Un solo vero problema con la Mercury: la volontà di questa di utilizzarla solo come cantante, separando questo talento da quello, altrettanto straordinario, di pianista. La sua voce di contralto è ricca di timbri, lussureggianti e seducenti, il suo senso del ritmo e dell’armonia le permette di giocare come vuole con le melodie che affronta.
Dopo l’uscita del disco, il “famigerato” manager Joe Gloaser (quello di Louis Armstrong, Billie Holiday e molte altre stelle di quegli anni) le organizza un tour di tredici settimane che lei ricorda come “orribili” e che la lascerà esausta e disillusa; abituata a esibirsi solo a Washington, si troverà per quattro settimane all’Holiday Inn di Valparaiso (Indiana), alle prese anche coi locali membri del Ku Klus Klan; il proprietario dell’albergo e un appassionato di jazz, non così il pubblico, senza contare che, prima di lei, in quella città non si era mai esibito nessun musicista nero.

Delle altre registrazioni per l’etichetta Mercury verrà pubblicata solo quella effettuata nei giorni 15 e 16 dicembre del 1963: questa volta è accompagnata da un gruppo di quindici ottoni (cinque trombe, cinque tromboni, cinque corni fracesi); di uno solo di questi musicisti si conosce l’identità, il trombonista Jimmy Cleveland. Gli arrangiamenti sono del famoso Quincy Jones “ex trombettista dell’orchestra del pianista Count Basie, “ma il risultato complessivo non colpisce praticamente.
Passa diverso tempo e la Shirley cambia etichetta: è la ABC – Paramont che la convoca allo studio Bell Sound di New York City per alcune sedute che, tra il febbraioe l’ottobre 1965, daranno vita a Travalin’ Light. Questa volta l’arrangiatore è Johnny Pate, il cui lavoro appare decisamente efficace, firma un paio di brani; l’orchestra comprende diversi musicisti di grande valore, tra questi il trombettista Joe Newman, i sassofonisti Jarome Richardson e Frank Wess e il chitarrista Kenny Burrell.
Contrariamente a quanto accadeva nelle incisioni per la Mercury, la Shirley è valorizzata anche come pianista; basso è batteria sono affidati a Marshall Hawkins e Bernard Sweetney, suoi accompagnatori abituali in quel periodo.

Il brano che da il titolo al disco era stato nel 1942, uno straordinario successo di Billie Holiday, in quell’occasione accompagnata da una delle ultime formazioni orchestrali guidate da Paul Whiteman.
Dalla metà degli anni Sessanta Shirley riduce significativamente i suoi impegni per dedicarsi alla famiglia e, in particolare, alla figlia Rainy: dopo un ultimo disco per l’etichetta Percepition, intitolato significativamente Where are you Going?, Shirley si allontana quasi completamente dal mondo della musica per circa dieci anni, dal 1972 alla prima metà del 1981, con solo un paio di eccezioni documentate.
Rientra sulla scena internazionale con la partecipazione, nel luglio 1981, al North Sea Jazz Festival che si tiene in Olanda, a l’Aia: si presenta in trio accompagnata dal basso è batteria, formazione che d’ora in poi le sarà abituale; la sua splendida esibizione, in veste di pianista e cantante, viene documentata da un CD pubblicato, anni dopo, dalla Steplechese. Il bassista è Charles Ables, la cui carriera era iniziata come chitarrista nell’orchestra di Ray Charles e che, da quel momento, sarà per molti anni suo fedele compagno di viaggio unitamente al batterista Steve Williams.
Questi due abili quanto discreti accompagnatori sono l’ideale per una perfezionista come Shirley Horn, che con loro può avvalersi di una intesa e di un affiatamento totali.
Nel 1982 e nel 1983 si esibisce frequentemente nel prestigioso jazz club Ronnie Scott’s di Londra; l’anno successivo registrerà, col suo trio, The Garden of the Blues ancora per la Steeplechase.

Concerti e registrazioni si moltiplicano: tra il giugno e l’agosto 1990, ai Clinton Recording Studios di New York, incontra diversi ospiti illustri, tra i quali, il grande chitarrista e armonicista belga Jean “Toots” Thielemans, i fratelli Branford e Wynton Marsalis, per terminare con Miles Davis che suona con lei nel brano che dà il titolo al disco, You Won’t Forget Me.
In questa seconda parte della carriera, la Shirley sorprende per la sua capacità di accompagnarsi al pianoforte mentre canta, con una indipendenza e una abilità che hanno pochi termini di confronto; l’arrangiatore Johnny Mandel dirà che era come se avesse due teste, aggiungendo che la sua abilità pianistica era paragonabile a quella di un nume tutelare del jazz come Bill Evans.

Proprio come pianista, la Horn figura in numerosi dischi al fianco di alcuni grandi interpreti che vogliono le sue mani sulla tastiera; a titolo di esempio: Carmen McRae in Sarah: Dedicate to You e Merry Jazzmas del 1990, Toots Thielemans in For my Lady del 1991, Benny Carter in Benny Carter Songbook del 1996.
Da un concerto parigino al Theatre du Chatelet, col suo fedele trio, è tratto lo splendido CD audio I Love you, Paris, pubblicato dalla Verve Records, del 27 settembre 1993 sono due brani – The Girl of Ipanema e O Amor Empaz – insieme ad Antonio Carlos Jobim, Herbie Hancock e Ron Carter, registrati durante il Free Jazz Festival di San Paolo, in Brasile, tra il 15 e il 18 maggio dello stesso anno, convinse la Verve a trasferire uno studio di registrazione mobile nel cortile di casa sua “, ricordiamo che la Verve Records è un’etichetta storica, legata ora alla Universal Music Group USA. “All’interno della quale viene registrato The Main Ingredilment, altro stupefacente album che vede la presenza, oltre al suo trio, di ospiti del calibro del sassofonista Joe Henderson, Steve Mavaseld, Elvin Jones.
Dal dicembre 1997 sono i brani registrati per I Remember Miles, lavoro dedicato all’amico trombettista, che l’aveva aiutata e scoperta agli inizi della sua carriera, scomparso nel 1991; un disco per il quale le viene assegnato un Grammy Award nel 1999.

Nello stesso anno lavora con il trombettista Clark Terry a bordo della nave da crociera Queen Elizabeth II; alcune registrazioni verranno pubblicate in live QE2. Sempre nel 1999 viene chiamata dal contrabbassista Charlie Haden a partecipare, come cantante ospite in alcuni brani, a quel capolavoro di nome The Art of the Song.
L’ultima esibizione conosciuta nella quale suonò il pianoforte, la vede accompagnata dal fedele Steve Williams alla batteria e dal contrabbassista Steve Novosel in sostituzione del compagno di mille concerti Charles Ables, scomparso poche settimane prima. Si tiene a Zurigo, Svizzera, il 27 ottobre 2001 al Theatrehaus Gessneralle; questa esibizione live che non è mai stata pubblicata discograficamente ma è stata trasmessa radiofonicamente.
Il suo ultimo disco, nel quale al pianoforte al suo posto siede uno dei suoi ideali, Ahmed Jamal, e registrato tra il 3 e il 5 febbraio 2003 e il suo titolo è come un testamento per il suo pubblico: May the Music Never end.

Questa grandissima, elegantissima, pianista e cantante muore il 20 ottobre 2005 all’età di settantatuno anni, nella sua città natale. Un tumore al seno ha complicato un quadro clinico già compromesso da una grave forma di diabete, a causa della quale negli ultimi anni aveva dovuto rinunciare a suonare il pianoforte, in seguito all’amputazione del piede sinistro subita verso la fine del 2001. La sua voce “lussureggiante, calda e meravigliosa” e la sua musica riempiono bellezza i giorni di quel tempo difficile”.
(Testo virgolettato di Roberto Del Piano – vitaminagegonti.com).
Ron Goldstein, Presidente e C.E.O. della Verve Music Group commenta: “Shirley Horn è stata una vera innovatrice. Ha creato uno stile unico sia pianisticamente sia come vocalist.

Non solo era originale, ma anche talmente penetrante e talmente personale che solo pochi ebbero il coraggio di copiarlo.
Era un gran personaggio, e mi mancheranno le conversazioni che soleva avere lei, che avevano lo stesso carattere ironico che tutti amavano anche nelle sue performance.
La sua scomparsa è una grave perdita sia per la Verve, che per il jazz che per il mondo intero”.
(Testo virgolettato da sito oneline jazzitalia.net, del 22 /10/2005 – dalla Verve Music Group – traduzione di Eva Simontacchi).

A cura di Alessandro Poletti – Foto Getty Image

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui