Luca Flores pianista jazz

Luca Flores, uomo, musicista, artista: “Il mito dell’artista maledetto dovrebbe fermarsi e sgretolarsi davanti alla sofferenza, quella vera. Il carattere voyeuristico del maledettossimo sta nell’anteporre la sofferenza all’arte. L’illlusione che il dolore (degli altri) produca piacere artistico (il nostro, comodamente al sicuro).”

Le biografie del jazz sono piene di artisti maledetti, da Bix Beiderbeck in poi, e hanno alimentato la letteratura morbosa che non di rado ha oscurato il valore della musica, spiegandola come risultato del malessere. Nientemeno di più falso: chi sta male suona male, o non suona affatto. Fare musica mette in gioco una tale complessità di operazioni mentali e fisiche da richiedere un discreto controllo di sé. Quando la vita di Luca Flores e terminata in modo tragico a qualcuno non è parso vero che anche il piccolo mondo del jazz italiano avesse il suo eroe romantico grande musicista tormentato dai suoi demoni. Così si sono rafforzati i peggiori cliché o, nei casi migliori, gli stereotipi più banali, senza che mai venisse fatta giustizia alla musica del pianista, questo libro dal titolo: “Luca Flores, uomo, musicista, artista”, dell’autore Luigi Bozzolan, descrive e racconta con questo libro che sulla vita del musicista Luca Flores si va nella direzione opposta”.

(Questo testo virgolettato è stato ripreso dal sito ibs.it Feltrinelli – Casa Editrice: “Luca Flores, uomo, musicista, artista “, Associazione Terre Sommerse – 2020).

“Raccontare a sempre qualcosa a che vedere con la verità. Farlo attraverso la musica racchiude in sé un elemento capace di oscillare tra due estremi opposti: da una parte consegnarsi integralmente e senza filtri alle orecchie degli ascoltatori di ogni latitudine grazie all’universalità del
suo linguaggio; dall’altra negarsi allo stesso tempo uno sguardo lucido grazie all’ineffabilità, che quello stesso linguaggio nasconde. Farlo attraverso la musica jazz spesso significa sottrarsi addirittura al proprio stesso sguardo, grazie a una forma musicale che, come nessuna, può concedersi nello stesso istante in cui viene eseguita di tornare su se stessa, senza cercare né, tantomeno, ambire a una forma compiuta; una musica che si nutre di inciampi e su quella nota ripetuta, come un errore della vita – voluto o involontario – sa esplorare nuove traccie, attraverso ripensamenti e convinzioni che si rafforzano, sfumature ora sostanziali – più spesso sottilissime – intorno al vero nocciolo di sé sanno raccontare umori, malinconie, allegrie, variazioni del proprio essere che di volta in volta colorano di luci diverse un’armonia, una frase melodica, un incedere ritmico.

Scriveva Geoff Dyer, nel suo bellissimo Natura Morta con Custodia di Sax: “Se a tutta prima sembra melodrammatico insinuare che vi sia qualcosa di rischioso nella natura stessa del jazz, “[…] dagli anni Quaranta in poi il jazz avanzò con la forza e la ferocia di un incendio nella foresta. Sarebbe mai stato possibile per una forma d’arte svilupparsi tanto in fretta a un ritmo tanto concitato senza esigere in cambio un ingegnere specifico di vite umane? Se fra il jazz e la lotta universale dell’uomo moderno corre un legame di stretta consanguineità, come farebbero i suoi creatori a non portarne cicatrici?”. ”

Poche storie sembrano poter cucirsi addosso le parole di Dyer come quella di Luca Flores, uno dei più grandi musicisti jazz europei della fine del Novecento che si tolse la vita il 29 marzo del 1995. La sua vita parabola di musicista durò circa dieci anni e fu assolutamente folgorante. La sua storia di uomo, passata quasi inosservata, fu raccontata molti anni più tardi da Walter Veltroni nel libro “Il Disco del Mondo”, libro forse non bellissimo ma fondamentale nella riscoperta di questo ragazzo dal talento cristallino e fonte inesauribile di aneddoti, ricordi, cui io per primo ho attinto nello scrivere questo lungo omaggio” dichiara l’autore Luigi Bozzolan. “La morte di Luca a nemmeno quarant’anni, fu prematura due volte: Nella sua breve parabola umana e artistica e nell’anticipo rispetto dell’apertura che il paese avrebbe concesso al jazz solo qualche anno più tardi, lasciando che il suo ricordo affiorasse – molto prima che per la musica – tra le pagine di un libro appunto, come anche nel be film “Piano Solo” dica Milani con Kim Rossi Stuart e Jesmine Trinca.

Ci sono vite che sono come racconti. E questo racconto parte dalla fine. Dalla pubblicazione di “Innocence“, il Foppolo album di registrazioni inedite pubblicato” dalla label ” Quand” che prova a restituire agli ascoltatori le ultime settimane di vita di Luca, attraverso un lavoro di ricerca sui nastri perduti – come vedremo più che perduti, lasciati nascosti per troppo amore troppo dolore – e su quei brani che in maniera meno ortodossa, per quanto necessaria, confluirono nello splendido “For Those i Never Knew” il suo primo disco”, la sua prima opera discografica, “postumo il cui titolo in fondo raccontava – a posteriori – di un addio ma anche di una speranza: quella di farsi ascoltare anche da tutti coloro che nella vita non avevano incrociato lo sguardo profondo e melanconico di un pianista dotato di una tecnica e di fraseggio per molti aspetti inrripetibili.

For Those i Never Knew” uscì nel 1995, pochi mesi dopo il suicidio di Luca. Fu il tentativo di mettere insieme il disco cui Flores stava lavorando nelle settimane immediatamente precedenti alla sua morte. Sul finire dell’ottobre del 1994 Luca aveva, infatti inviato al suo amico e discografico Peppo Spagnoli una lettera che anticipava il progetto di disco dedicato alla sua infanzia in Monzanbico che avrebbe dovuto chiamarsi proprio “Innocence”. Insieme a quella lettera c’era una cassetta con quattro brani sui dodici che Luca avrebbe voluto incidere.
“Innocence” nelle intenzioni di Luca doveva essere un opera con percussionisti africani e il sogno di ospitare” la cantante africana “Miriam Makeba”, un sogno perché non c’erano i mezzi né il potere discografico per contattarla; fu così che quel progetto divenne un disco di piano solo. Il 19 marzo del 1995 Luca invia un master con altri sei pezzi tra cui una delle versioni di How for con you Fly? Il brano che lo avrebbe consacrato – postumo. Solo dieci giorni dopo, il 29 marzo del 1995 Luca si toglie la vita, uccide dosi nella sua casa di Montevarchi. L’infanzia in Monzambic, già. Un punto di snodo, un momento nevralgico, una frattura insanabile. E li che cambia la vita di Luca.

Flores era nato a Palermo, il 20 ottobre del 1956. Suo padre Giovanni, era un geologo e quel lavoro lo aveva e lo avrebbe portato a girare il mondo: Cuba, il Belize, l’Egitto, il Sudafrica, l’Inghilterra e poi Venezia, la Sicilia Forte dei Marmi e, nel 1959 il Mozambico. È il 9 ottobre del 1964, Luca è in macchina con la madre e la sorella Barbara, dovevano andare dal dentista, per Luca. La sera prima ricorda Barbara – deve essere successo qualcosa, una cosa da bambini ovviamente. Ma la madre di Luca è entrata come sempre in camera dei figli e, per punizione a Luca non ha dato il bacio della buonanotte.

La mattina dopo l’atmosfera e forse ancora un pò tesa, il viaggio è lungo. Una ruota si fora, la macchina sbanda e di ribalta cadendo di lato. Non è un incidente grave, i bambini riporteranno appena pochi graffi. Ma il destino è crudele, la gonna della madre di Luca ” e Barbara” s’impiglia in una ruota, ha la peggio, batte la testa è la schiena. Quel viaggio Nelspruit, dopo il confine col Sudafrica, diventa il momento tragico della vita di un’intera famiglia. La mamma di Luca “e Barbara” morirà dopo tre giorni di agonia all’ospedale di Laurenco Marques (oggi Maputo).

La vita di Luca però continua – per quanto possibile – in una ritrovata normalità. È in quegli anni che il padre gli compra un piccolo piano Yamaha; Luca improvvisa le sue prime composizioni. Nella prima adolescenza si appassiona al progressive, alle Armonie dei Genesis come anche alle incursioni sonore di Emerso, Lake & Palmer. Luca ama, e tanto, anche la musica classica: la maggior parte dei dischi che ha lasciato (oggi donati al Centro Studi sul Jazz” Arrigo Polillo ” di Siena) sono album di Beethoven e Mozart, Chopin e Rachmanimov, Cajkovskij e Stravinsky, fino alle sperimentazioni del Quadrivium di Moderna.

Ma c’è anche un lavoro diventato ormai leggendario, quel Koln Concert con cui Keith Jarrett, il giovane pianista di Allentown, Pennsylvania, – già alla corte di Miles Davis – nel 1975 gettava le basi per un nuovo approccio all’improvvisazione dal vivo. Del resto è il jazz a essere entrato prepotentemente nella vita di Luca che lo inseguirà con una dedizione spaventosa. In “Sounds a d Shades of Saund” del 1990 Luca sceglie per la didascalia di una frase “Luca, quando decise di diventare un musicista jazz”, la sua è una missione e una scelta a un tempo. Come avrebbe fatto il giovane Jeff Buckley nei suoi anni di studio Los Angeles, anche luca si attiene uno strettissimo programma quotidiano: lo chiamerà One Day’s Work, sette ore al giorno in cui alterna, senza deroghe, l’analisi dello stile dei pianisti jazz, lo studio della tecnica, degli accordi e dei pattern, e l’analisi degli standard.

Arriviamo nel 1978, Luca ha appena ventidue anni, trascrive le partiture dei più grandi – da Bill Evans, a Chick Corea, da Bud Powell, ad Herbie Hancock. Ma studia e suona più di ogni altro McCoy Tyner – il grande musicista americano nel quartetto di John Coltrane…” ” – sul quale tornerà molto negli ultimi anni della sua vita. Come racconta il batterista Alessandro Fabbri, la caratteristica principale di Luca era “il rigore. Si staglia tra gli altri fin da subito.

Era severo con sé stesso e per questo, il duo rigore era una lezione per tutti. Allora non erano molti i jazzisti che avevano una formazione classica. Su questa base innestava una metodologia di lavoro durissimo. Era insaziabile. E tutti noi abbiamo imparato da lui”. Questo è Luca in quegli anni, un ragazzo che, come un asceta, si dedica alla musica e per il resto assomiglia a un orso ora ombroso ora tenero, che ogni cosa concede alla sua passione intorno alla quale ruotano amicizie, serate, compagne di vita. Ma iniziano in quel periodo anche i silenzi prolungati, le tristezze che lo attanagliono all’improvviso, i momenti di assenza in mezzo agli altri.

Arriva la prima esibizione importante “siamo in Umbria ed è uno dei festival importanti che vi sono in Italia”, – siamo ormai nel 1985 – e, grazie all’incontro proprio con Peppo Spagnolo e la sua etichetta Slasc(h) che da subito comprende il tale to che ha davanti, arrivano anche i primi lavori discografici, “Sharp Blues” col Mat Jazz Quintet e “Riddles” con Bruno Marini nel 1986; l’anno successivo è la volta di “Where Extremes Meet” a cora con Matt Jazz Quintet. Luca sta diventando, nel frattempo, uno dei più apprezzati e ricercati sideman europei ( suonerà tra gli altri con Lee Konitz, Dave Holland, Kenny Wheeler e Tony Scott e, ancora in Italia con Enrico Rava, Paolo Fresu, Tullio De Piscopo).

Ma su tutti in modo particolare inizia un sodalizio dal vivo con Chet Baker, un rapporto – come racconta Nicola Stilo – che andava oltre l’affinità musicale: “Chet Baker, quando ha conosciuto Luca si è innamorato della persona dolce e gentile, ma col tempo si è appassionato al suo modo di suonare, posso rischiare a dire che negli anni dall’86 all’88, ogni volta che era possibile Chet pretendeva che fosse Luca a suonare con lui”. Nel gennaio del 1987 Luca è anche nel Quartetto di un disco leggendario per il jazz italiano ed europeo, quel “Easy to Love” ha firma dell’immenso e mai dimenticato Massimo Urbani.Tutto sembra andare per il meglio quando, all’improvviso ogni cosa precipita. È una sera di ottobre, Luca distrugge i mobili del suo appartamento, poi una corsa a perdifiato per arrivare a casa della sorella Barbara, le scale di corsa, la porta che di apre: “Io do chi è il mostro di Firenze. Sono io, io l’ho capito. Sono io. Sono io”.

Luca entra ed esce dagli ospedali, viene sottoposto all’elettroshock, dimagrisce, ingrassa. L’anno dopo quando Chet Baker, la notte del 13 maggio, cade da un finestra del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam, Luca confida all’amico Furio Di Castri di “avere la sensazione di aver mandato col la sua musica dei messaggi sublomali che a avessero potuto portare Chet a suicidarsi”.

Nonostante tutto, Luca parte per l’America, si ferma a New York ma è una delusione profonda, eppure resta lì, in un disordine che non sopporta e che si fa, forse, specchio deformato di un’ossessione al controllo di cui ha bisogno per non esplodere. Ma esplodono invece gli eccessi d’ira, viene fuori un’aggressività sconosciuta, finisce in una rissa come era successo già qualche tempo prima a Genova, “in Italia” durante un concerto.
Viene denunciato da una donna da cui resta ossessionato dopo averla vista coinvolta – e non è certo difficile capire quali traumi avesse smosso – in un incidente.

Sarà il padre a doverlo andare a prendere rendendosi conto di quanto fossero ormai peggiorati i problemi del figlio”.
“Eppure Luca ha ancora i suoi momenti di grande lucidità e di grande musica. Nel 1990 è “Sounds and Shades of Sounds” che inizia con due splendide rivitazioni di Luigi Tenco – “Averti tra le Braccia” e soprattutto “Angela”, dove Luca sfodera un fraseggio che resterà ineguagliabile. “Love for Sale” nel 1993 è l’ultimo grande disco pubblicato in vita. Ma gli ultimi anni di vita saranno per Luca una progressiva e terribile discesa all’inferno. Prende psicofarmaci e si accorge – ed è una scoperta devastante – che ciò che salva, in parte almeno, l’uomo, sta distruggendo il musicista.

È una frattura insanabile che porterà Luca a ripetuti gesti di autolesionismo, prima nell’ottobre del 1991 si taglia i polpastrelli e si recide il tendine di una mano. Quindi, secondo uno schema inverso, poco tempo arroventa un cacciavite e se lo infila nell’orecchio: tentare di non fare più musica, cercare di non ascoltarla mai più. C’è una parte di Luca sembra ormai soccombere a una furia anientatrice e autolesionista, Luca prova a lanciarsi con l’auto da una scarpata, un’altra volta ancora lanciarsi con l’auto in corsa. Eppure, Luca continua a incidere, a suonare,a portare avanti un percorso di condivisione col pubblico che è poi la storia che si cela dietro, a “Innocence“.

Il disagio mentale lo porterà alla scelta estrema il 29 marzo del 1995, dieci giorni dopo un’ultima sessione di registrazione in Piano Solo al Planet Studios di Firenze, muore suicida nella sua casa di Montevarchi, Luca Flores aveva 39 anni.
( IL testo virgolettato “L’innocenza perduta, vita e musica di Luca Flores”, di Fabio Mastroserio, anno di pubblicazione 2018 è tratto su Google oneline).

A cura di Alessandro Poletti – Foto Repertorio

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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