Giorgio Gaslini

Giorgio Gaslini prosegue nel suo racconto, la sua esperienza che da giovane uomo ha avuto nel Conservatorio di Milano, quando dopo l’ultimo conflitto agli inizi degli anni Cinquanta si iscrisse, per essere ammesso come allievo per studiare composizione, le sue peripezie e le sue delusioni nelle istituzioni di quel periodo.

“[…] Ho dovuto fare i conti con questo avvenimento che ho ritenuto e sentito come una grande ingiustizia […]”. “[…] Principalmente fu quella della preparazione poiché studiavo tutto il giorno come allievo del Conservatorio  e nel ’51 terminai la carriera scolastica conseguendo sei diplomi. Avevo imparato il contrappunto con il grande maestro Paribeni e nell’ultimo periodo frequentai il corso di composizione con il maestro Renzo Bossi, figlio del mitico organista. Inoltre studiai canto corale con un magnifico insegnante, Amerigo Bertone; storia della musica con Federico Mapellio; letterature con Tomelleri e il grande Salvatore Quasimodo; direzione d’orchestra con i leggendari Antonino Votto e Carlo Maria Giulini; strumentazione per banda con l’allora direttore della banda dei tranvieri di Milano, Pellegrini; polifonia vocale con il maestro Achille Schinelli.

La mia classe di contrappunto era formata oltre da me, dall’amico Claudio Abbado, oggi celebre direttore d’orchestra. Nella classe accanto, i miei compagni di corso erano Luciano Berio, Piero Santi, Nicolò Castiglioni e più tardi Giacomo Manzoni, Paolo Castaldi,  Bruno Canino e tanti altri, diventati dei grandi nel mondo della musica contemporanea […]”. “[…] Dentro al Conservatorio mi muovevo con grande partecipazione, ogni giorno mi portavo a casa un volume della biblioteca e lo leggevo. L’ho fatto per anni, con una particolare predilezione per i polifonisti italiani (Pierluigi da Palestrina) e per i madrigalisti (Claudio  Moteverdi) che erano il mio cibo quotidiano.

Ma le cose non furono facilissime, perché ero un ribelle e mi ritenevano un monello: perciò quando scrissi la partitura per il saggio (per orchestra con pianoforte concertante, una voce e coro) e la feci  vedere al mio insegnante di composizione  mi disse che ero matto, che il mio brano non si poteva fare a un saggio. Questa partitura era hindemithiana ed il Maestro mi disse che la si poteva eseguire solo se il direttore del Conservatorio avesse firmato le pagine. Andai dal Maestro Ghedini alle 8:00 del mattino, molto sommessamente, ed anche con un pò di scaltrezza dissi che quella era la mia partitura e dal momento che dovevo diplomati e fare il saggio, desideravo il suo benestare. Lo guardò velocemente, acconsentì e firmò tutte le pagine. Ero felicissimo, giocai d’astuzzia: tutti i saggi che avevo sentito sino a quel momento non andavano oltre al quartettino alla Oldebrando Pizzetti, che era già all’avanguardia e Cesarò Franck addirittura il massimo.

Ora, esisteva il problema di istruire le masse giovanili su questo mio brano, allora andai dal direttore del coro, il Maestro Bertone, gli diedi la parte e lui acconsentì, vista la firma sul direttore.  Incomincia così a provare la parte del coro. Poi a dai dal Maestro Carlo Maria Giulini e mostrandogli la partitura del saggio gli diedi da provare la parte d’orchestra. Ma lui (non so ancora perché), disse che non la faceva dirigere a me, obese infatti un allievo del corso, nel quale c’era anche Claudio Abbado, e una quarantina di ragazzi di cui alcuni molto dotati. Mi trovai così un veto, ancora una volta, di una persona che ammiravo moltissimo e della quale avevo imparato tantissime cose; rimasi molto male per questa conclusione; probabilmente il maestro mi aveva sentito troppo entusiasta, troppo volitivo, rompiscatole, invadente e voleva fermarsi.

Infatti la fece studiare a un direttore d’orchestra argentino, un ragazzo che molto diligentemente si portò a casa la partitura. La ricopiò di suo pugno per impararla e incominciò a concertare l’orchestra dei giovani su questa partitura. Mancava un giorno al saggio, già annunciato, quando il maestro Giulini  mi chiamò e mi disse di dirigerla. Così mi trovai a dirigerla senza avere .ai provato; questa fu un’altra difficoltà che imparai a fronteggiare[…]”. “[…] Non avendo più l’attività di concerti e serate jezzistiche, mi adattai a lavori che si presentavano e tra quelli ricordo alcune lezioni private di teoria e di orchestrazione e l’incarico di assistente del Coro del Duomo di Milano.

Per un paio d’anni collaborazioni alla ristrutturazione del coro, formato da circa settanta persone tra cui una sessantina di ragazzi. Facevamo brani che partivano da Palestrina fino a Lorenzo Perosi e anche quella, se pure oscura, fu una esperienza molto interessante […]”.
“[..]… Lo stato d’animo era certamente quello di una persona che aveva accettato una sfida con sé stesso e l’aveva portata a termine. Vinta con sei diplomi e quei corsi di perfezionamento. Volevo dimostrare a me stesso che dopo un’affermazione come jazzman, ero capace di vincere a che sul terreno della formazione accademica.

Lo stato d’animo era molto vivo e pieno di fermenti perché avevo avuto compagni di studio di Livello eccelso; insieme ci siamo formati e influenzati. Moltissime cose che la scuola no mi ha dato le ho imparate da loro. Il clima generale nel quale mi sono formato in quegli anni era forse un vertice del clima creativo scolastico in Italia. La situazione era molto diversa da quella che può essere oggi, eravamo pochi, gli iscritti erano  cento-duecento contro i duemila attuali. Ci si conoscevamo tutti, c’era più amicizia, gli insegnanti avevano un tono affettuoso. Insomma esisteva più umanità, più calore umano, però esisteva anche un grande interrogativo, che corrispondeva ad uno smarrimento definito come: L’angoscia del futuro.

Il mio smarrimento era riempito dalla solidità raggiunta, dall’equilibrio di preparazione e di esperienze”. “Avevo 21 anni ed era ricco di fantasia, totalmente proteso verso la prima attività e verso l’ideazione di un tipo di musica che fosse mia. Ma avevo anche un’agoscia di tipo professionale, perché non vedevo come un musicista della mia formazione potesse inserirsi in qualche modo nell’ambiente musicale italiano  o se non proprio nell’ambiente, nel circuito di lavoro che l’Italia offriva. 

Esisteva una cosa molto precisa che aveva una possibilità d’impiego: la direzione d’orchestra.  Bisognava incominciare dalla gavetta, andare avanti e fare solo quello. Però questa unicità non era per me. La direzione d’orchestra, la composizione e il pianoforte sono sempre state tre cose primarie ed una parte della mia angoscia era rappresentata dal fatto che non sapevo scegliere tra queste tre possibilità. Ancora una volta mi aiutò la ricerca di un’autenticità di fondo che ho sempre avuto, che mi ha fatto rispondere a questo enigma, forse mal posto. Sarebbe stata cioè la stessa  creatività a decidere la gerarchia di questi tre aspetti; ho lasciato che fossero le cose a decidere, perché io non ero in grado di farlo.
Se avessi scelto di fare il pianista sarei stato addoloratissimo, per non aver potuto fare il compositore e il direttore d’orchestra. Se avessi fatto il compositore mi sarrei sentito isolato dal rapporto con la gente e continuamente mediato da altri, il che sarebbe stato un errore. Invece se avessi fatto il direttore d’orchestra a rei sofferto e l’avrei fatto con un fondo di amarezza per avere rinunciato alle altre cose. D’altronde sappiamo che sono attività che richiedono tutto il tempo disponibile e la totalità del tuo essere. Sono cose che fatte a livello artistico, non possono essere fatte a orari impiegatizio. Avevo visto grandi pianisti, che ricoprivano anche il ruolo di direttore d’orchestra,  dover fare fare una scelta. Era il caso drammaticamente positivo di Leonard Bernstein, che ha fatto il compositore, il pianista e il direttore d’orchestra.

Ad un certo punto della sua lunga e splendida carriera ha dovuto privilegiare la direzione d’orchestra,  non ha più potuto suonare il pianoforte in pubblico, trascurando enormemente anche la composizione. Ricordo di aver letto delle sue interviste, in cui diceva che non avrebbe più diretto, ma avrebbe voluto stare a casa sua a scrivere poesie, a disegnare e a comporre. L’ha fatto per un pò di tempo e poi è tornato a dirigere: sono persone dilaniate dal loro enorme talento multiforme. Così diversi sono rari: Gustav Mahler, che nessuno ricorda di aver sentito dirigere ovviamente perché non esistono dischi, doveva essere veramente l’eccelso direttore d’orchestra e compositore  che conosciamo.

Siamo al corrente dei drammi di Robert Schumann, il quale non riusciva a suonare perché si era rovinato dito. Ebbe dei fiaschi, come direttore d’orchestra e soffrì moltissimo per queste due cose: Mentre di Schumann ricordiamo il grande compositore. Sono cose che hanno a che fare con la grande generosità di certi animi di artisti che vorrebbero abbracciare tutto quello che sanno fare e farlo al massimo dei livelli. Per suonare bene un pianoforte bisogna restare attaccati allo strumento tutto il giorno, per dirigere bene la musica di altri bisogna studiarla tutto il giorno; esercitarsi e approfondirlo per poterla restituire nei suoi significati, aggiungendo l’interpretazione.

Quindi queste tre cose insieme possono maturare solo in alcuni periodi particolarmente speciali. La vita mi ha portato a privilegiare l’autore che suona e dirige. Però posso anche scindere questi momenti ed essere un autore diretto e interpretato da altri. Noto che nel mondo contemporaneo riescono soprattutto i direttori d’orchestra che non scrivono una nota. Se poi facciamo un elenco di direttori che oggi sono ai primi dieci posti delle classifiche mondiali, non troviamo un compositore oppure un pianista. D’altronde i compositori che sanno dirigere, anche i compositori di oggi, non mi sembra che brillino di abilità direttoriale; sono dei musicisti eccellenti che sanno condurre in porto un’orchestra, ma non mi pare che siano da citare come esempi direttoriale e altrettanto i casi di pianisti e violinisti.

I concertistiche conoscono e che scrivono anche musica, la scrivono una volta ogni cinque anni; il caso del grande compianto Bruno Maderna (mio amico) fa prendere coscienza di come quest’uomo, che aveva  capito tutto o quasi della musica  del nostro tempo, aveva scritto pochissimo on confronto dell’enorme influenza che aveva avuto nel mondo della musica contemporanea. Dirigeva perché, probabilmente, era preso dal vortice economico di questa situazione e Novalesa tempo di scrivere musica. Per cui se moderna avesse direttore metà, ma scritto il doppio di quanto non abbia fatto, oggi sarebbe un classico del nostro tempo. Chiudendo questa parentesi, diciamo che era il terzo tipo di angoscia. 

L’altra angoscia era costituita dal problema economico perché non di vedevano possibilità di guadagno come musicisti di un certo tipo. A questo punto presi delle decisioni”. “Le soluzioni del problema, incominciando da quelle pratiche ed economiche, furono molto semplici. Quando uscii di casa andai ad abitare con mio fratello ed altre persone in un prefabbricato alla periferia della città, dove ci autogestivamo; il progetto consisteva nel creare un gruppo di vita e di lavoro in comune”. Giorgio Gaslini, prosegue nel suo racconto: “Questa esperienza che all’inizio aveva destato in me certe speranze di rinnovamento e di ricerca, doveva poi seguire un corso negativo, involutivo, con aspetti molto drammatici. Quindi dopo otto o nove anni l’abbandonai, ricavandone un grande conoscenza della tipologia umana[…]”.

“[…] Eravamo agli inizi degli anni Cinquanta è il problema economico lo ricorsi accettando lavori di insegnamento di orchestrazione privatamente e continuando il lavoro come assistente del Coro del Duomo di Milano. Iniziai poi una tournée di quasi un anno come musicista di scena nella Compagnia del Teatro Eliseo di Roma, che allora annoverava i più famosi attori di prosa italiani con regie importanti. Ricordo che il regista era Giulio Salvini e il vice regista Lina Wertmmuller; gli attori erano Aroldo Tieri,  Andreina Pagnani, Carlo Nicchi e altri. Erano quattro i lavori che si presentavano in tournée;  di uno a evo fatto le musiche ed era Il profondo mare azzurro di Terence  Rattigan e per gli altri tre spettacoli le musiche le aveva scritte il maestro Fiorenzo Carpi.

Giravo con la Compagnia, perché queste musiche di scena le eseguivo personalmente dietro il palcoscenico con un organo Hammond. Nel frattempo avevo fatto anche la domanda come direttore della banda dei tranvieri di Milano! Il maestro che aveva formato quella banda era stato il mio maestro di strumentazione per banda, che nel frattempo, era morto. Avevo fatto questa domanda prima di partire per la tournée  e quando dopo pochi mesi tornai a casa, mi pare fosse domenica, trovai una grande busta contenente una partitura di ottanta pagine e la conferma che avevano accettato la mia domanda. Le prove consistevano nella lettura a prima vista, nella direzione di una partitura e relativa concertazione.

Mi accorsi leggendo la lettera che le prove erano quel giorno stesso alle due del pomeriggio; non avevo la macchina ed era dall’altro capo della città. Così ho preso la partitura, sono salito sul tram e durante il tragitto ho studiato il brano. Sono arrivato nel momento in cui toccava a me, perché ero l’ultimo di trenta-quaranta che si erano presentati. Salii senza bacchetta e diressi quella partitura con una tale grinta, che si alzarono  tutti in piedi e applaudirono. Sembrava che avessi vinto il concorso, ma poi lo rifece forse perché ero troppo giovane; non si è capito bene! Comunque l’assegnazione fu data ad un altro, sebbene fossi tra i vincenti. Questo episodio fu buffissimo proprio perché avevo studiato in tram una partitura del repertorio verdiana orchestrata per banda in una suite[…]”.

(Il testo virgolettato è tratto dal libro, Giorgio Gaslini, ‘Vita, lotte,opere di un prtagonista della musica contemporanea ‘, autore Adriano Bassi,  prefazione di Enzo Restagno. Prima  edizione settembre 1986. 1986 Franco Muzzio & c Editore Spa  – Padova).

A cura di Alessandro Poletti – Foto Repertorio

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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