La Prima guerra mondiale e la dichiarazione di Balfour
La Palestina, conquistata dai turchi ottomani con la guerra turco-mamelucca del 1516-1517, rimase sotto il dominio dell’Impero Ottomano per circa 400 anni, fino a quando essi la persero alla fine della prima guerra mondiale a favore del Regno Unito. La spartizione dei possedimenti dell’Impero Ottomano nella regione tra Regno Unito e Francia al termine della guerra, era stata già decisa nel 1916 con l’Accordo Sykes-Picot(inizialmente segreto).
Per l’area della Palestina l’accordo prevedeva: “Che nella zona marrone [la Palestina] potrà essere istituita un’amministrazione internazionale la cui forma dovrà essere decisa dopo essersi consultati con la Russia e in seguito con gli altri alleati e i rappresentanti dello sceicco della Mecca“.
Le autorità britanniche espressero con la dichiarazione di BALFOUR del 1917 l’intenzione di creare in Palestina, unfocolare nazionale (“national home“) che potesse dare asilo non soltanto ai pochi ebrei di Palestina che già vi abitavano da secoli, ma anche agli ebrei dispersi nelle altre nazioni. La questione fu comunque molto combattuta, da cui la scelta del termine ambiguo “national home” che non richiamava direttamente alla costituzione di uno Stato e l’esplicito riferimento ai “diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina” che non dovevano essere danneggiati. Nel censimento del 1922, a 5 anni dalla dichiarazione e dall’inizio dell’ondata migratoria che ne era conseguita, la popolazione ebraica era di 83 790 unità su un totale di 752 048 persone, pari all’11,14% della popolazione totale, di poco superiore come dimensioni alla comunità cristiana di 71 464 unità, e inferiore alla comunità di nomadi beduini di circa 103 331 persone (il cui stile di vita nomade e dedicato alla pastorizia causò alcuni attriti con i coloni ebrei per l’uso dei terreni, soprattutto nella valle del fiume Giordano)
«Caro Lord Rothschild,
È mio piacere fornirle, in nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di comprensione per le aspirazioni dell’ebraismo sionista che sono state presentate, e approvate, dal governo.
Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adoprerà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni
Le sarò grato se vorrà portare questa dichiarazione a conoscenza della federazione sionista. Con sinceri saluti Arthur James Balfour»
I britannici avevano tuttavia promesso nel 1915 l’indipendenza agli arabi (tramite accordi tra Sir Henry McMahon, in nome del governatore britannico, e lo sharif della Mecca, Husayn ibn Ali) come paese indipendente o come parte di una “grande nazione araba” per l’aiuto prestato con la Rivolta Araba nella lotta contro l’impero Turco-Ottomano e questo fece sì che il sostegno britannico alle richieste del movimento sionista si scontrasse ben presto sia con i progetti degli altri stati arabi, sia con l’opposizione della maggioranza araba palestinese alla formazione di uno stato non islamico in Palestina.
L’istituzione del Mandato britannico
Nel luglio 1922, la “Società delle Nazioni” affidò ufficialmente al Regno Unito il “Mandato britannico della Palestina”, un mandato di classe A, che comprendeva i territori della Palestina e della Transgiordania. La Società delle Nazioni riconosceva gli impegni presi da Balfour, pur rimarcando che questo non doveva essere effettuato a discapito dei diritti civili e religiosi della popolazione non ebraica preesistente. Per permettere l’adempimento degli impegni presi la Società delle Nazioni riteneva necessario istituire un’agenzia che coordinasse l’immigrazione ebraica e collaborasse con le autorità britanniche per istituire norme atte a facilitare la creazione di questo focolare nazionale, come per esempio la possibilità per gli immigrati ebrei di ottenere facilmente la cittadinanza palestinese; l’organizzazione Sionista veniva ritenuta la più adatta per questo compito. Oltre a questo il Mandatario doveva predisporre il territorio allo sviluppo di un futuro governo autonomo.
Nel 1922, il Regno Unito separò l’amministrazione della Transgiordania da quella della Palestina, limitando l’immigrazione ebraica alla Palestina ad ovest del Giordano, tra le proteste di una parte dei sionisti, in particolare i cosiddetti “revisionisti“, che avrebbero voluto una patria su entrambe le rive del Giordano. I territori a est del fiume Giordano (quasi il 73% dell’intera area del Mandato) furono organizzati dai britannici in uno stato semi-autonomo avente come re Abd Allah. Questo territorio divenne la Transgiorania, con una maggioranza di popolazione araba, in gran parte musulmana (nel 1920 circa il 90% della popolazione, stimata in un totale di circa 4.000.000 di abitanti), mentre l’area a ovest del Giordano venne gestita direttamente dal Regno Unito.
Con il “libro bianco” del 1922 i britannici rassicurarono la popolazione araba sul fatto che la “Jewish National Home in Palestine” promessa nel 1917 non era da intendersi come una “nazione ebraica in Palestina”, e che la commissione Sionista della Palestina non aveva alcun titolo per amministrare il territorio, rimarcando però al contempo l’importanza della comunità ebraica presente e la necessità di una sua ulteriore espansione e di un suo riconoscimento internazionale:
Durante le ultime due o tre generazioni gli Ebrei hanno ricreato in Palestina una comunità, ora di 80 000 persone, di cui circa un quarto sono agricoltori e lavoratori della terra. La comunità ha i suoi organi politici […] I suoi affari sono effettuati usando la lingua ebraica e la stampa ebraica soddisfa le sue necessità. [La comunità ] ha la sua vita intellettuale e mostra una considerevole attività economica. La comunità quindi, con la sua popolazione urbana e rurale, con la sua organizzazione politica, religiosa, sociale, la sua lingua e i suoi costumi, e la sua vita, ha di fatto caratteristiche “nazionali”. Quando viene chiesto cosa significa lo sviluppo di un focolare nazionale ebraico in Palestina, la risposta è che non si tratta dell’imposizione della nazionalità ebraica sugli abitanti palestinesi in toto, ma l’ulteriore sviluppo della comunità ebraica esistente, con l’assistenza degli Ebrei del resto del mondo, in modo che questa possa diventare un centro di cui il popolo ebraico intero possa avere, per motivi di religione e razza, un interesse e un vanto. Ma, per poter far sì che questa comunità abbia le migliori prospettive di libero sviluppo e possa offrire la piena possibilità al popolo ebraico di mostrare le proprie capacità, è essenziale che sia riconosciuto che questo è in Palestina di diritto e non perché tollerato. Questa è la ragione per cui è necessario che sia garantita internazionalmente l’esistenza di un focolare nazionale ebraico in Palestina e riconosciuta formalmente la sua esistenza in base agli antichi legami storici”. 
Le rivolte anti-inglesi
I successivi 25 anni (1922-1947), che videro un massiccio aumento della popolazione ebraica (passata dai poco più di 80 000 abitanti agli inizi degli anni 20 ai circa 610 000 del 1947) tramite l’immigrazione prima legale e poi (dopo il 1939 e le limitazioni imposte dal “libro bianco”) illegale, furono comunque caratterizzati da episodi di violenza e di reciproca intolleranza, che sfociarono in diverse rivolte generalizzate nel 1920, nel 1929 e nel triennio 1936-1939.
Alcuni tentativi di suddivisione del mandato in due Stati distinti, a seguito della proposta della “Commissione Peel” nel 1937 che suggeriva anche di trasferire la popolazione in modo da creare uno stato ebraico abitato solo da ebrei e uno stato arabo abitato solo da arabi, creando sistemi di irrigazione e distribuzione idrica in quest’ultimo, che altrimenti non sarebbe stato in grado di reggere l’aumento di popolazione di circa 225 000 arabi che sarebbe stato necessario trasferirvi, della “Commissione Woodhead” del 1938 e della Conferenza di St. James del 1939, fallirono perché respinti da parte araba.
Nel 1939 i britannici, alla fine di 3 anni di guerra civile, nell’impossibilità di creare due stati indipendenti e con continui attentati, sia da parte di gruppi terroristici ebraici contro i suoi soldati e contro la popolazione civile, sia da parte araba contro i coloni ebrei, produssero il “libro bianco del 1939, con cui si metteva un freno all’immigrazione ebraica (un massimo di 75 000 coloni nei successivi 5 anni, a patto che fosse possibile assorbirli nel tessuto sociale ed economico palestinese) secondo quanto già raccomandato dal “Rapporto Shaw”  del 1929 e dalla “Commissione Hope Simpson” del 1930; queste ultime avevano individuato nella massiccia immigrazione ebraica, nelle politiche di assegnazione delle terre ai coloni e nella conseguente crescita della disoccupazione tra la popolazione araba preesistente, alcuni dei principali motivi di instabilità sociale della Palestina. Nel Libro Bianco veniva anche evidenziato che gli atti ostili dei gruppi armati arabi contro i coloni ebrei, comunque da condannare, e in generale l’ostilità generale della popolazione araba verso quella ebraica, trovavano spiegazione nel timore di ritrovarsi con il tempo a essere etnia di minoranza in una nazione ebraica. Oltre a questo il Regno Unito decise di porre fine al suo mandato nel 1949 e di istituire per quella data un unico stato multietnico, oltre ad affermare che considerava conclusi gli impegni presi con la dichiarazione di Balfour, ritenendo che i circa 300 000 immigrati ebraici (i quali avevano portato la popolazione a essere quasi un terzo del totale) e le capacità mostrate da questi nello sviluppo della loro comunità fosse comunque da considerarsi un vanto per il popolo ebraico. Relativamente alle aspirazioni nazionali dei coloni, il Libro Bianco richiamava il fatto che già nel precedente testo del 1922 si era esplicitamente esclusa la possibilità di una “nazione ebraica” sul territorio della Palestina. D’altro canto esso definiva altresì la promessa della creazione di una nazione araba, che sarebbe derivata da comunicazione epistolari svoltesi nel 1915 tra Sir Henry McMahon (in nome del governatore britannico) e lo sceicco della “Mecca”, come frutto di un fraintendimento tra le parti, soprattutto per quello che riguardava la zona in cui questa nazione sarebbe sorta, che doveva escludere i territori a ovest del Giordano:
Il Governo di Sua Maestà, da parte sua può aderire, per le ragioni espresse dai suoi rappresentanti nel rapporto, al parere per cui l’intera Palestina a ovest del Giordano fosse esclusa dall’impegno di Sir McMahon, e dunque [Il Governo] non può concordare sul fatto che la corrispondenza di McMahon formi una giusta base per la dichiarazione che la Palestina debba essere convertita in uno stato arabo”.
Nel documento appare chiaro che la Palestina è una regione ormai abitata da due popolazioni distinte. Parlando della proposta di un unico stato palestinese, il testo afferma:
Il Governo di Sua Maestà, come autorità del Mandato, è incaricato di “assicurare lo sviluppo di forme di governo autonome” in Palestina. Oltre a questo obbligo specifico, [Il Governo] considera contrario allo spirito del funzionamento del Mandato che la popolazione della Palestina rimanga per sempre sotto la tutela del Mandatario. È corretto che la popolazione della nazione possa il più facilmente possibile godere del diritto all’auto-governo come è esercitato dalla popolazione delle nazioni vicine. Il Governo di Sua Maestà non è in grado di prevedere l’esatta forma costituzionale che prenderà lo stato Palestinese, ma l’obiettivo è l’auto-governo e il desiderio di vedere nascere infine uno stato Palestinese indipendente. Deve questo essere uno stato in cui i due popoli della Palestina, Arabi ed Ebrei, condividano l’autorità di governo in un modo grazie al quale gli interessi essenziali di entrambi siano condivisi”.
La Seconda guerra mondiale
Con la seconda guerra mondiale i gruppi ebraici si schierarono con gli Alleati, mentre al contrario molti gruppi arabi guardarono con interesse l’Asse, nella speranza che una sua vittoria servisse a liberarli dalla presenza britannica. Tra questi il Gran mufti di Gerusalemme Amin al-Hussein, che facilitò il reclutamento di musulmani nelle formazioni delle Waffen-SS ef in quelle del Regio Esercito.
La Germania cercò anche di finanziare e armare alcuni gruppi palestinesi con lo scopo di colpire obiettivi ebraici.
La situazione di temporanea alleanza contro l’Asse non diminuì però l’opposizione dei gruppi ebraici contro il libro bianco e contro le limitazioni all’immigrazione che introduceva: David Ben-Gurion (futuro presidente dell’Agenzia Ebraica e futuro primo ministro di Israele), relativamente alla collaborazione tra l’Haganah ed i soldati britannici nelle operazioni contro le forze naziste, dichiarò comunque che:
Dobbiamo combattere il Libro Bianco come se la guerra non ci fosse, e la guerra come se non ci fosse il Libro Bianco“.
l gruppo dell’Irgun, molto più attivo dell’Haganah per quello che riguarda la lotta contro i britannici, dichiarò una tregua (che restò in vigore dal 1940 al 1943) e arruolò molti dei suoi componenti nell’esercito britannico e nella Brigata Ebraica. A causa di questa tregua l’ala più estremista del movimento si staccò, dando vita al gruppo Lohamei Herust Israel (o Lehi, conosciuto anche come Banda Stern, dal nome di Avraham Stern, il suo fondatore), che negli anni seguenti concentrò le proprie azioni contro bersagli britannici e che tra il 1940 el 1941 tentò per due volte, senza successo, di stringere accordi con le forze nazifasciste in chiave anti-britannica.
Il piano di spartizione dell’ONU
Dopo la 2da guerra mondiale e i tragici eventi che colpirono la popolazione di origine o religione ebraica in molti paesi europei, le neonate Nazioni Unite si interrogarono sul destino della regione, che nel frattempo era sempre più instabile. Il problema chiave che l’ONU si pose in quel periodo fu se i rifugiati europei scampati alle persecuzioni naziste dovessero in qualche modo essere ricollegati alla situazione in Palestina. Nella sua relazione[ l’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine, la commissione dell’ONU sulla questione, formata da Cnada, Cecoslovacchia, Guatemala, Paese Bassi, Perù, Svezia, Uruguai, India, Iran, Repubblica Federala Jugoslava, Australia si pose il problema di come accontentare entrambe le fazioni, giungendo alla conclusione che era “manifestamente impossibile“, ma che era anche “indifendibile“, accettare di appoggiare solo una delle due posizioni[. Sette di queste nazioni Canda, Cecoslovacchia, Guatemale, Paesi Bassi, Perù, Svezia e Uruguai, votarono a favore di una soluzione con due Stati divisi e Gerusalemme sotto controllo internazionale (sulla falsariga del piano di spartizione proposto nel 1937 dalla Commissione Peel), tre (India, Iran, Repubblica Socialista Federale Jugoslava) per un unico Stato federale (sulla falsariga di quanto previsto dal Libro Bianco), e una si astenne, l’Australia. 
L’UNSCOP raccomandò anche che il Regno Unito cessasse il prima possibile il suo controllo sulla zona, sia per cercare di ridurre gli scontri tra la popolazione di entrambe le etnie e le forze britanniche, sia per cercare di porre fine alle numerose azioni terroristiche portate avanti dai gruppi ebraici, che avevano raggiunto il loro massimo pochi mesi prima proprio contro il personale britannico, con l’attentato dell’Hotel “King David” di Gerusalemme e i suoi 91 morti.
Nel decidere su come spartire il territorio l’UNSCOP, partendo dai precedenti piani di spartizione britannici, considerò, per evitare possibili rappresaglie da parte della popolazione araba nei confronti degli insediamenti ebraici o delle minoranze ebraiche residenti nelle cittadine abitate da entrambe le etnie, la necessità di radunare sotto il futuro Stato ebraico tutte le zone dove i coloni erano presenti in numero significativo (seppur nella maggior parte dei casi etnia di minoranza), a cui veniva aggiunta la quasi totalità delle zone allora sotto la diretta gestione mandataria (per la maggior parte desertiche, come il “deserto del Negev”), in previsione di una massiccia immigrazione dall’Europa (l’UNISCOP valutava in 250 000 gli ebrei europei presenti in centri di accoglienza), per un totale del 56% del territorio assegnato al futuro Stato ebraico. Gerusalemme, anche in virtù della sua importanza per tutte e tre le religioni del Libro e per l’elevata presenza di luoghi di culto, sarebbe rimasta sotto controllo internazionale, mentre i territori circostanti, a maggioranza araba, che nella proposta di spartizione del 1937 rimanevano sotto il controllo mandatario, furono assegnati allo Stato arabo.
Nella sua relazione l’UNISCOP prendeva anche in considerazione la situazione economica dei futuri due Stati (United Nations Special Committee on Palestine, Recommendations to the General Assembly, A/364, 3 September 1947 – PART I. Plan of partition with economic union justification), consigliando di istituire una moneta comune e una rete di infrastrutture che si estendesse a tutta la Palestina indipendentemente dalle divisioni; oltre a questo si evidenziava che agli ebrei sarebbe stata assegnata la parte più sviluppata economicamente e che comprendeva quasi del tutto le zone di produzione degli agrumi, ma che in questa lavoravano molti produttori arabi e che con un sistema economico comune ai due Stati non era nell’interesse di quello ebraico far rimanere quello arabo in una condizione di povertà e di precarietà economica. Sempre per la parte economica l’UNSCOP prevedeva il possibile arrivo di aiuti internazionali per la costruzione di sistemi di irrigazione in entrambi gli stati.
La popolazione, secondo il Report UNSCOP del 1947 era di 1.845.000 di individui.
(oltre a questo era presente una popolazione Beduina di 90 000 persone nel territorio ebraico).
Il 30 novembre le Nazioni Unite decisero (con la Risoluzione 181), con il voto favorevole di 33 nazioni, quello contrario di 13 (tra cui gli Stati arabi) e l’astensione di 10 nazioni (tra cui lo stesso Regno Unito, che rifiutò apertamente di seguire le raccomandazioni del piano, ritenendo, in base alle sue precedenti esperienze, che si sarebbe rivelato inaccettabile sia per gli ebrei sia per gli arabi), la “spartizione della Palestina” in due Stati, uno arabo e uno ebraico, il controllo dell’ONU su Gerusalemme e chiesero la fine del “mandato britannico” il prima possibile e comunque non oltre il 1º agosto 1948.
Le reazioni alla risoluzione dell’ONU furono diversificate: la maggior parte dei gruppi ebraici, come l’Agenzia Ebraica, l’accettò, pur lamentando la non continuità territoriale tra le varie aree assegnate al loro stato. Gruppi più estremisti, come l’Irgun e la Banda Stern la rifiutarono, essendo contrari alla presenza di uno Stato arabo in quella che era considerata “la Grande Israele” e al controllo internazionale di Gerusalemme.
Tra i gruppi arabi la proposta fu rifiutata, ma con posizioni diversificate: alcuni negavano totalmente la possibilità della creazione di uno Stato ebraico, altri erano possibilisti, ma criticavano la spartizione del territorio, sia perché i confini decisi per lo Stato arabo, avrebbero, secondo loro, limitato i contatti con le altre nazioni, e non avrebbe avuto sbocchi sul Mar Rosso e sul Mar di Galilea (quest’ultimo la principale risorsa idrica della zona), oltre al fatto che sarebbe stato assegnato loro solo un terzo della costa mediterranea; altri ancora erano contrari per via del fatto che a quella che era una minoranza ebraica (circa un terzo della popolazione totale della Palestina) e che possedeva nel 1947 meno del 10% del territorio sarebbe stata assegnata la maggioranza della Palestina.
Le nazioni arabe, contrarie alla suddivisione del territorio e alla creazione di uno stato ebraico, fecero ricorso alla “Corte Internazionale di Giustizia”, sostenendo la non competenza dell’Assemblea delle Nazioni Unite nel decidere la ripartizione di un territorio andando contro la volontà della maggioranza (araba) dei suoi residenti, ma il ricorso fu respinto.
Allo Stato ebraico sarebbe toccato dunque circa il 55% di quel 27% della terra originariamente affidata al Mandato britannico (originariamente comprendente anche il territorio della Giordania, ceduta agli arabi nel 1922), con una popolazione mista (55% di origine ebraica e 45% di origine araba), Gerusalemme sarebbe rimasta sotto il controllo internazionale, mentre il restante territorio (quasi del tutto abitato dalla preesistente popolazione araba) sarebbe stato assegnato allo Stato arabo.
La prima guerra arabo-israeliana
La decisione delle Nazioni Unite fu seguita da un’ondata di violenze senza precedenti che fece precipitare nel caos la Palestina nel 1948, sia da parte dei gruppi militari e paramilitari sionisti (Haganah, Palmach, Irgun e Banda Stern, che avevano operato anche durante gli anni precedenti), sia da parte dei gruppi paramilitari arabi incoraggiati dalla propaganda bellicosa di segno contrario di leader politico-religiosi quali il “Mufti” di Gerusalemme Hajji Amin al-Husayni. Oltre a questa situazione interna vi erano continue scaramucce ai confini, provocate dall’azione dalle forze militari delle vicine nazioni arabe, sia con i coloni sia con i militari britannici. La Lega Araba organizzò alcune milizie da introdurre in Palestina per attaccare obiettivi ebraici, a cui si aggiunsero gruppi di volontari palestinesi arabi locali: il gruppo maggiore fu l’Esercito Arabo di Liberazione, comandato dal nazionalista Fawzi al Qawuqji.
In gennaio e febbraio, forze irregolari arabe attaccarono comunità ebraiche nel nord della Palestina, ma senza conseguire sostanziali successi; in generale gli arabi concentrarono i loro sforzi nel tagliare le vie di comunicazione fra le città ebraiche e il loro circondario in aree a popolazione mista: alla fine di marzo tagliarono del tutto la vitale strada che univa Tel Aviv a Gerusalemme, dove viveva un sesto circa della popolazione ebraica palestinese.
Intanto i gruppi ebraici diedero il via al “Piano Dalet” (o Piano D), che ufficialmente prevedeva solo la difesa dei confini del futuro stato israeliano e la neutralizzazione delle basi dei possibili oppositori (anche eventualmente con la distruzione degli insediamenti arabi di difficile controllo), fossero questi interni al confine od oltre, ma che, secondo alcuni studiosi (principalmente filo-palestinesi, ma a partire dagli anni cinquanta e sessanta anche alcuni storici israeliani), fu tra le motivazioni che permisero ai gruppi più estremisti la realizzazione di veri e propri massacri senza essere fermati.
Fra il 30 novembre 1947 e il 1º febbraio 1948 furono uccisi 427 arabi, 381 ebrei e 46 britannici e furono feriti 1 035 arabi, 725 ebrei e 135 britannici e nel solo mese di marzo morirono 271 ebrei e 257 arabi.
Il 14 maggio 1948, contestualmente al ritiro degli ultimi soldati britannici alla vigilia della fine del mandato, il Consiglio Nazionale Sionista, riunito a Tel Aviv, dichiarò costituito nella terra di Israele lo Stato Ebraico, col nome di Medinat Israel. Uno dei primi atti del governo israeliano fu quello di abrogare le limitazioni all’immigrazione contenute nelLibro Bianco del 1939. Gli arabi palestinesi (che in generale si erano opposti alla soluzione con due stati proposta dalla Risoluzione ONU 181) non proclamarono il proprio stato e gli stati arabi cominciarono apertamente le ostilità contro Israele.
In un cablogramma ufficiale del Segretario Generale della Lega degli Stati Arabi al suo omologo dell’ONU del 15 maggio 1948, gli Stati arabi pubblicamente proclamarono il loro intento di creare uno “Stato unitario di Palestina” al posto dei due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, previsti dal piano dell’ONU. Essi reclamarono che quest’ultimo non era valido perché a esso si opponeva la maggioranza degli arabi palestinesi, e confermarono che l’assenza di un’autorità legale rendeva necessario intervenire per proteggere le vite e le proprietà arabe.
Israele, gli USA e l’URSS definirono l’ingresso degli Stati arabi in Palestina un’aggressione illegittima, il Segretario Generale dell’ONU, Trygve Lie, lo descrisse come “la prima aggressione armata che il mondo abbia mai visto dalla fine della 2da guerra mondiale“.
La Cina sostenne con decisione le rivendicazioni arabe. Entrambe le parti accrebbero la loro forza umana nei mesi seguenti, ma il vantaggio d’Israele crebbe continuamente come risultato della mobilitazione progressiva della società israeliana, incrementata dall’afflusso di circa 10 300 immigranti ogni mese (alcuni dei quali veterani della recente Guerra Mondiale e quindi già addestrati all’uso delle armi e integrabili subito nell’esercito del neonato stato). Il 26 maggio 1948, le Forze di Difesa Israeliane (FDI) furono ufficialmente istituite e i gruppi armati dell’Haganah, il Palmach ed Etzel furono ufficialmente assorbiti dall’esercito del nuovo Stato ebraico.
L’ONU proclamò una tregua il 29 maggio ed essa entrò in vigore l’11 giugno con una durata di 28 giorni. Un embargo di armi fu dichiarato con l’intenzione che nessuna delle parti potesse trarre vantaggi dalla tregua. Il mediatore delle Nazioni Unite, lo svedese Folke Bernadotte, presentò un nuovo Piano di partizione che avrebbe assegnato la Galilea (la regione più settentrionale della Palestina) agli ebrei e il Negev (la regione più meridionale della Palestina) agli arabi, ma entrambe le parti contendenti respinsero il Piano.
Il 18 luglio, grazie agli sforzi diplomatici condotti dall’ONU, entrò in vigore la seconda tregua del conflitto e il 16 settembre Folke Bernadotte propose una nuova partizione per la Palestina in base alla quale la Transgiordania avrebbe annesso le aree arabe, incluso il Negev, al-Ramla e Lydda. Vi sarebbe stato uno Stato ebraico nell’intera Galilea, l’internazionalizzazione di Gerusalemme e il ritorno alle proprie terre dei rifugiati, o il loro indennizzo. Anche questo piano fu respinto da entrambe le parti. Il giorno dopo, 17 settembre, Bernadotte fu assassinato dal gruppo ebraico della Banda Stern (Lehi) e venne sostituito dal suo vice, lo statunitense Ralph Bunche.
Nel 1949 Israele firmò “armistizi separati” con l’Egitto il 24 febbraio, col Libano il 23 marzo, con la Transgiordania il 3 aprile e con la Siria il 20 luglio. Israele fu in grado in generale di tracciare i suoi propri confini, che comprendevano il 78% della Palestina mandataria, circa il 50% in più di quanto le concedeva il Piano di partizione dell’ONU. Tali linee di cessate-il-fuoco divennero più tardi note come la “Green Line” (Linea Verde). La Striscia di Gaza e la Cisgiordania furono occupate rispettivamente da Egitto e Transgiordania.
Le Nazioni Unite stimarono che 711 000 palestinesi, metà della popolazione araba della Palestina dell’epoca, fuggirono, emigrarono o furono allontanati con la forza durante il conflitto e nelle violenze dei mesi precedenti. Alcuni hanno rivelato che numerosi palestinesi seguitarono a credere che gli eserciti arabi avrebbero prevalso e affermarono pertanto di voler tornare nelle loro terre d’origine, una volta vinta la guerra con il neonato stato israeliano.
I 10.000 ebrei che risiedevano nella zona della Palestina assegnata al territorio arabo furono costretti ad abbandonare i loro insediamenti (alcuni esistenti da ben prima della Dichiarazione di Balfur) e circa 758.000 – 866.000 ebrei che vivevano nei Paesi e nei territori arabi lasciarono o furono indotti a lasciare i loro luoghi natali, a causa dell’insorgere di sentimenti anti-ebraici; 600.000 di loro emigrarono in Israele, con altri 300.000 che cercarono rifugio in vari paesi occidentali, innanzi tutto la Francia.
Nel dicembre 1948 l’Assemblea Generale dell’ONU approvò (con voto contrario o astensione di molti paesi musulmani) la Risoluzione 194 che (tra le altre cose), riguardo ai profughi sia palestinesi sia ebrei della Palestina, dichiarava che doveva essere consentito il ritorno alle loro case ai profughi che volessero tornare in pace e che dovevano essere risarciti per la perdita della proprietà quelli che avessero scelto altrimenti:
Dichiara che i rifugiati che hanno volontà di tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero essere possibilitati a farlo il prima possibile, e che deve essere pagata una compensazione per coloro che decideranno di non tornare, per rimborsarli della perdita delle proprietà o per i danni alle stesse di cui, secondo i principi della legge internazionale o secondo equità, devono essere indennizzati dal governo o dalle autorità responsabili“.
Dopo la vittoria, Israele approvò una legge che permetteva ai “rifugiati palestinesi” di ristabilirsi in Israele a condizione di firmare una dichiarazione di rinuncia alla violenza, giurare fedeltà allo Stato di Israele e diventare pacifici e produttivi cittadini. Nel corso dei decenni grazie a questa legge oltre 150.000 rifugiati palestinesi hanno potuto far ritorno in Israele come cittadini a pieno titolo. Sembra, ma non vi sono reali riscontri, che successivamente l’interpretazione della risoluzione che voleva il ritorno di tutti i rifugiati e il loro rimborso venne negata da Israele e dai sostenitori della presenza dello stato ebraico, specificando che la risoluzione usava “should” (una forma del verbo “dovere” meno rigida rispetto a “must“) e che, visto lo Stato di guerra permanente, la “earliest practicable date” (“prima data possibile“) in cui i rifugiati palestinesi possano voler tornare in patria per vivere in pace con i loro vicini non era ancora giunta. La risoluzione e il diritto di ritorno dei profughi fu però confermato più volte dall’ONU in diverse raccomandazioni e risoluzioni successive.
La guerra dei sei giorni
La guerra ebbe inizio il 5 giugno 1967 e si annovera nella storia del conflitto arabo-israeliano come il terzo scontro militare, anche questo cominciato dagli arabi. Fu combattuta da Israele contro Egitto, Siria, e Giordania. L’Iraq, l’Arabia Saudita, il Kuwait e l’Algeria appoggiarono con truppe e armi la fazione dei paesi arabi. Il conflitto si risolse in pochi giorni (10 giugno) a favore di Israele che occupò i territori palestinesi; l’esito della guerra influenza ancora oggi la situazione geopolitica del vicino oriente.
Storia recente
L’Autorità Nazionale Palestinese, la cui presidenza è stata tenuta fino alla sua morte da Yasser Arafat, è sempre stata dichiaratamente favorevole alla nascita di uno Stato Palestinese arabo indipendente a fianco dello Stato di Israele.
Tali dichiarazioni sono state, tuttavia, più volte smentite dalle frange più estremiste e dalle pratiche ostili da esse attuate nei confronti dello stato di Israele. Tra queste organizzazioni, l’OLP, Fatah e altri gruppi estremisti hanno manifestato la volontà di una dissoluzione dello stato di Israele.
Un tale “Stato palestinese”, secondo l’attuale politica araba, dovrebbe accogliere i numerosissimi profughi palestinesi causati dai vari “conflitti arabo-israeliani (specialmente del 1948) e i loro discendenti, che i vari Stati arabi sconfitti hanno sempre rifiutato o avuto difficoltà di assorbire nel proprio territorio (con la sola eccezione della Giordania). Gli arabi ritengono i profughi vittime di una pulizia etnica perpetrata da Israele che avrebbe cacciato i legittimi proprietari dalle loro terre. Gli ebrei ritengono i governi arabi i soli veri responsabili della creazione del problema dei profughi. Su quest’ultimo punto nuovi materiali documentari, forniti dall’apertura degli archivi israeliani relativa agli “anni quaranta”, ha dato modo a una nutrita serie di Nuovi Storici Israeliani e Palestinesi di riaprire il discorso, mostrando la sensibile divaricazione esistente fra le dichiarazioni ufficiali in merito dalle autorità civili e militari israeliane e la dimensione reale del fenomeno e le sue cause.
I confini che dovrebbe avere questo Stato nascituro non sono condivisi: l’opinione araba è che Israele dovrebbe tornare all’interno dei suoi confini precedenti la “guerra dei 6 giorni del 1967, cioè cedere agli arabi le regioni di Giudea e Samaria, o Cisgiordania (West Bank) in cambio di un suo riconoscimento che ne garantisca la sicurezza (la cosiddetta Linea Verde). Mentre gli arabi richiedono questa cessione in quanto quelle terre sarebbero legittimamente loro e occupate dall’esercito israeliano, gli israeliani a loro volta sostengono che quel territorio era già stato loro offerto nel 1947, ma da loro rifiutato e perso definitivamente con le sconfitte belliche del 1948 e del 1967.
In assenza di un trattato di pace tra i belligeranti, le leggi internazionali permettono l’annessione della terra di un aggressore dopo un conflitto – esattamente come la terra in questione era stata persa dai turchi ai tempi della Prima guerra mondiale, a favore degli Alleati. Israele offrì la restituzione delle terre acquisite mentre difendeva la sua sopravvivenza dall’aggressione araba in cambio di una pace formale. Un’offerta ribadita in occasione dell’Armistizio di Rodi e della “Conferenza di Losanna del 1949”. Al tempo leader arabi rifiutarono le terre (e quindi la creazione di uno stato palestinese arabo) pur di mantenere lo Stato di guerra allo scopo di distruggere lo stato ebraico e riprendere il controllo di quelle terre; da allora per altre tre volte tale rifiuto è stato confermato da parte araba fino a oggi.
Assai distanti sono i punti di vista riguardanti Gerusalemme Est.
Il 14 agosto 2005, nonostante la risoluzione ONU 242 non lo prevedesse, il governo israeliano ha annunciato di aver completato l’evacuazione della popolazione israeliana (militare e civile) dalla Striscia di Gaza e lo smantellamento delle colonie che vi erano state costruite. Tuttavia, dallo stesso agosto sono cominciati ininterrotti lanci di razzi di tipo Kassam da Gaza verso l’insediamento israeliano di Sderot e altre località, che hanno proseguito in modo intermittente negli anni successivi.
Gli arabi palestinesi considerano come loro capitale al-Quds (lett. “la Santa”). L’attribuzione di questa città a Gerusalemme è controversa, anche fra gli studiosi dell’Islam, poiché Gerusalemme non viene mai menzionata nel “Corano”, anche se fin dal secondo decennio del calendario islamico, il racconto coranico narrante l’israsra e il mi raj di Maometto, viene creduto come avvenuto fra Mecca e Gerusalemme. La perdurante situazione di precarietà e di conflitto con lo Stato di Israele, unitamente alla sostanziale assenza di un vero e proprio Stato palestinese, ha fatto della città di Ramallah la capitale virtuale, o tacitamente provvisoria, dell’amministrazione palestinese.
Il 31 ottobre 2011 la conferenza generale dell’UNESCO ha votato a favore dell’adesione della Palestina come membro a pieno titolo dell’organismo ONU che si occupa di educazione, scienza e cultura. La decisione è stata votata a maggioranza (serviva il benestare almeno dei due terzi dell’assemblea, composta sino a oggi da 193 membri): i consensi sono stati 107, i voti contrari 14. Tra le nazioni che hanno votato contro, oltre agli USA, la Germania e il Canada. L’Italia e il Regno Unito si sono astenuti, mentre la Francia, la Cina, l’India hanno votato a favore, insieme alla quasi totalità dei Paesi arabi, africani e latino-americani.
Il 29 novembre 2012 l’ONU delibera l’innalzamento dello status dell’autorità palestinese a Stato Osservatore.
Il 30 ottobre 2014 la Palestina ottiene il primo riconoscimento internazionale come Stato: è la Svezia a concederlo, suscitando la reazione diplomatica di Israele, che richiama l’ambasciatore dalla capitale svedese.
Il 30 dicembre 2014 il consiglio di sicurezza ONU, (costituito da 15 Stati), ha rigettato la risoluzione per uno Stato palestinese, presentata il 17 dicembre 2014 dalla Giordania al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. A votare contro la risoluzione USA e Australia; a favore Francia, Cina, Russia, Lussemburgo, Giordania, Ciad, Argentina, Cile. Astenuti Regno Unito, Corea del Sud, Ruanda, Lituania, Nigeria. In totale 8 voti a favore, 5 astenuti e 2 contrari. Servivano 9 voti a favore della risoluzione.
La stima della popolazione palestinese del passato si basa principalmente su due metodologie: censimenti e testimonianze scritte del tempo oppure studi statistici basati sulla presenza e densità di insediamenti di una determinata zona ed epoca storica.

A cura di Pier Luigi Cignoli – Foto ImagoEconomica 

Editorialista Pier Luigi Cignoli

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