Il cabaret di Don Lurio e le gemelle Klesser

Alla tenera età di sette anni, nello scendere le ripide scale che, dalla cucina della casa di mia nonna Attilia portavano alla camera da letto, caddi rovinosamente battendo la testa così forte da procurarmi un enorme bernoccolo simile a quelli che, la moglie Paquita, procurava a suon di mattarello sulla testa a Pedrito el Drito.

Mia madre, preoccupata, mi porto al Pronto Soccorso dove mi misero in testa un sacchetto pieno di cubetti di ghiaccio e, dopo un paio d’ore, mi rispedirono a casa. Fortunatamente non subii, apparentemente, alcun danno evidente, a parte un piccolo particolare di poca importanza: da quel momento cominciai a desiderare fortemente di diventare un ballerino-coreografo come Don Lurio. Vederlo danzare come una libellula attorniato da due gigantesse teutoniche come le gemelle Kessler mi procurava un istinto d’emulazione e non mi interessava sapere che per diventare il coreografo ufficiale della RAI, aveva frequentato la High School of Music and Art ad Harlem e l’Accademia d’Arte Grand Chamier a Parigi, studiando danza a Broadway, con Bob Fosse e Jack Cole.

Passavo buona parte dei pomeriggi di quell’inizio estate del 1970, a provare, davanti allo specchio dell’armadio, i passi della sua più celebre coreografia, il “Da-da-um-pa” affiancato da due bambine, reclutate dalle case dei vicini, rigide come un palo di Tek.
A forza di provare, i movimenti delle due “gemelle” nostrane erano sempre più aggraziati e in sincronia tra loro. Poi, una domenica mattina di fine giugno, la mia famiglia decide che era arrivato il momento di andare un po’ al mare così partimmo con la prima Sita, quella delle sette e trenta, con destinazione Cesenatico, Bagno Rosa. Dopo il pranzo e il riposino pomeridiano per evitare le ore in cui il chiodo solare era particolarmente arroventato, prendemmo posizione nuovamente sotto l’ombrellone assegnatoci, seconda fila laterale. I bambini, io e i miei cuginetti, ci posizionammo dietro allo sdraio di mia sorella maggiore così da sfruttare l’ombra proiettata.

Non faccio in tempo a togliermi il cappellino da marinaretto che lo sdraio si chiude urtando violentemente il bernoccolo. Mi ritrovai con quattro persone che cercavano di risvegliarmi senza accorgersi che, in realtà, mi rubavano l’aria. Quando mi ripresi, dopo essere uscito dal Pronto Soccorso di Cesenatico con in testa nuovamente il sacchetto pieno di cubetti di ghiaccio, mi resi conto che qualcosa, rispetto a pochi minuti prima dell’accaduto, era cambiato: non provavo più il desiderio sfrenato di seguire le orme di Don Lurio, neanche la possibilità di poter lavorare a stretto contatto con belle showgirl nel futuro prossimo venturo mi attirava più. Il mio nuovo obbiettivo era quello di diventare un grande scrittore, proprio come quello di cui parlava mia sorella, un certo Dante Arfelli che pare avesse abitato per lunghi anni a Cesenatico allacciando una profonda amicizia con il poeta Marino Moretti.

Oggi, che di botte in testa ne ho ricevute molte altre, non ho perso la voglia di scrivere anche grazie ai due capolavori letterari scritti da Arfelli tra il 1949 e il 1951: I Superflui, che divenne un caso letterario, acclamato dalla critica, vendendo negli Stati Uniti, nella sola edizione economica per la casa editrice che pubblicava anche Hemingway, ben 800.000 copie; e La quinta generazione, dove Arfelli mette in evidenza la sua sfiducia, ma anche quella della sua generazione, quella tra fascismo e seconda guerra mondiale, nel futuro.

L’anno scorso, il 5 marzo del 2021, Dante Arfelli avrebbe compiuto un secolo, se il male oscuro non ce lo avesse sottratto poco più che settantenne. Leggere un giornale o un buon libro è un toccasana per la salute nostra e del nostro cervello, leggere un libro di Dante Arfelli, è un gesto di amore nei confronti di un grande scrittore dimenticato dal tempo e perseguitato da un destino cinico e baro.

A cura di Marco Benazzi – Foto Flickr

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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