C’è un romanzo che tutti conoscono, anche se pochi lo hanno letto, si tratta di un classico della letteratura americana del cosiddetto “Rinascimento Americano” – un periodo della durata di quarant’anni (1876 – 1917) in cui l’architettura e le arti americane in genere raggiunsero vertici altissimi – l’autore si chiamava Herman Melville ed era uno scrittore, poeta e critico letterario newyorkese noto per essere considerato “lo scrittore del mare” e il titolo del romanzo in questione, naturalmente è “Moby Dick o la balena”.

Ebbene, per i tanti che ancora non lo avessero letto, in attesa di vedere la versione cinematografica che Ray Bradbury adattò per il cinema nel 1956, con la regia di John Huston e Gregory Peck nei panni del Capitano Achab, ci tengo a citarvi il titolo del 13° capitolo, “The Wheelbarrow”, la carriola, il contenuto lo scoprirete solo leggendolo o ascoltandolo in versione audiobook su Youtube. La carriola di cui voglio parlarvi ora, è quella che trovai nella cantina di mia nonna Attilia, in occasione del suo “ultimo” trasloco.

Era di legno e, dai racconti tramandati a mia madre, pare che in origine appartenesse al bisnonno Pietro Naldi, uno dei 500 che partirono da Ravenna, siamo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, con la missione di bonificare l’Agro Romano, uomini ancor oggi ricordati con il nome di “scariolanti”, fulgido esempio di puro socialismo. Quella carriola, in oltre un secolo di vita, era stata costruita nel marzo del 1883, aveva vissuto un’avventura degna d’essere raccontata in un romanzo di Melville appunto, immersa nelle migliaia di ettari paludosi, bagnata da acque stagnanti, i cui unici abitati erano pochi disperati affetti da malaria. Sotto il manico di sinistra, era ancora ben leggibile una targhetta in metallo con la scritta: [“Associazione Generale degli Operai Braccianti del Comune di Ravenna”, 4 novembre 1884] che scoprii essere la data di partenza del gruppo di eroi dalla stazione di Ravenna, salutati dall’intera città in festa, con il Sindaco, la Giunta e la Banda a sottolineare il momento solenne.

Nel primo anno, morirono in cento a causa della malaria, i soci, che nell’agosto del 1885 erano 2.547, godevano della stessa paga e ad ogni malato la cooperativa riconosceva ugualmente lo stipendio e se era impossibilitato a continuare il lavoro per motivi di salute, lo faceva rientrare a casa e organizzava una colletta di sostegno alla famiglia. A cinquant’anni dall’inizio dei lavori, si stimavano circa 600 morti. Per fortuna, il bisnonno Pietro e la sua inseparabile carriola che lui chiamava “la Gnafona”, tornarono indenni dopo aver contribuito a trasformare un inferno in paradiso. Oggi, “la Gnafona” riposa nella mia soffitta, dopo aver subito un restauro completo anche della ruota in ferro battuto. Un amico di mio padre, nativo di Roma, usava spesso l’espressione: “E de tu nonno in cariola!”, per ricordare quando i malati più indigenti, a causa delle grandi epidemie e i letti non bastavano, venivano parcheggiati, più che altro anziani, vivi o morti, al centro della corsia seduti in una sorta di poltrona con ruote, soprannominata “la cariola”. Onore dunque alla “Gnafona” e a tutte le carriole che con il loro sacrificio hanno servito con onore la terra su cui transitavano, senza un lamento o un benché minimo segnale di stanchezza. Non preoccupatevi, dolci “cariuole”, perché nessuna “App” potrà mai sostituirvi.

Incisione su marmo che riporta l’immagine di un elemosiniere dentro una carriola presso

una cassetta per le elemosine che sono destinate ai malati indigenti.

(visibile a Roma, in via Ripetta presso “Santa Maria Portae Paradisi”.

A cura di Marco Benazzi – Foto Imagoeconomica

Editorialista Benazzi Marco

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