FRAMMENTI DI CULTURA – GIOVANNI PASCOLI
E’ mio desiderio iniziare questa narrazione con una delle poesie più importanti e toccanti che hanno accompagnato la vita di Giovanni Pascoli: “La calla storna” (dalla raccolta di poesie Canti di Castelvecchio)

Nella Torre il silenzio era già alto. – Sussurravano i pioppi del Rio Salto. – I cavalli normanni alle lor poste – frangevan la biada con rumor di croste.- Là in fondo la cavalla era, selvaggia, – nata tra i pini su la salsa spiaggia; – che nelle froge avea del mar gli spruzzi – ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.- Con su la greppia un gomito, da essa – era mia madre; e le dicea sommessa: – «O cavallina, cavallina storna, – che portavi colui che non ritorna; – tu capivi il suo cenno ed il suo detto! – Egli ha lasciato un figlio giovinetto; – il primo d’otto tra miei figli e figlie; – e la sua mano non toccò mai briglie. – Tu che ti senti ai fianchi l’uragano –
tu dai retta alla sua piccola mano. Tu ch’hai nel cuore la marina brulla, – tu dai retta alla sua voce fanciulla» – La cavalla volgea la scarna testa – verso mia madre, che dicea più mesta: «O cavallina, cavallina storna, – che portavi colui che non ritorna; – lo so, lo so, che tu l’amavi forte! – Con lui c’eri tu sola e la sua morte. – O nata in selve tra l’ondate e il vento, – tu tenesti nel cuore il tuo spavento; – sentendo lasso nella bocca il morso,- nel cuor veloce tu premesti il corso: – adagio seguitasti la tua via, – perché facesse in pace l’agonia…» – La scarna lunga testa era daccanto – al dolce viso di mia madre in pianto. – «O cavallina, cavallina storna, – che portavi colui che non ritorna; – oh! due parole egli dové pur dire! – E tu capisci, ma non sai ridire. – Tu con le briglie sciolte tra le zampe, – con dentro gli occhi il fuoco delle vampe, – con negli orecchi l’eco degli scoppi, – seguitasti la via tra gli alti pioppi: – lo riportavi tra il morir del sole, – perché udissimo noi le sue parole» – Stava attenta la lunga testa fiera. – Mia madre l’abbracciò su la criniera. – «O cavallina, cavallina storna, – portavi a casa sua chi non ritorna! – a me, chi non ritornerà più mai! – Tu fosti buona… Ma parlar non sai! – Tu non sai, poverina; altri non osa. – Oh! ma tu devi dirmi una cosa! Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise: – esso t’è qui nelle pupille fise.

Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855 e morì a Bologna il 6 Aprile 1912.

E’ considerato, insieme e Gabriele D’Annunzio, il maggior poeta “decadente” italiano, nonostante la sua formazione positivistica. 

Dal “Fanciullino”, articolo programmatico pubblicato per la prima volta nel 1897, emerge una concezione intima e interiore del sentimento poetico orientato alla valorizzazione del particolare e del quotidiano, e al recupero di una dimensione infantile e quasi primitiva. D’altra parte, solo il poeta può esprimere la voce del “fanciullino” presente in ognuno: quest’idea consente a Pascoli di rivendicare per sé il ruolo, per certi versi ormai anacronistico, di “poeta vate”, e di ribadire allo stesso tempo l’utilità morale (specialmente consolatoria) e civile della poesia. 

Benedetto Croce, al quale si deve la prima impostazione critica della poesia pascoliana, concluse che Giovanni Pascoli :”è uno strano miscuglio di spontaneità e di artifizio: un grande – piccolo poeta, o se piace meglio, un piccolo grande poeta”!. Tale giudizio nel corso del tempo rimase lo stesso e, anzi, Croce ne accentuò il carattere negativo, di pari passo con la sua posizione polemica nei riguardi del “decadentismo” di cui il Pascoli gli è apparso un tipico rappresentante, insieme con D’Annunzio, per il suo impressionismo e il suo frammentarismo

Sintesi della sua vita:

Giovanni Pascoli era il quarto dei dieci figli – due dei quali morti molto piccoli – di Ruggero Pascoli, amministratore della tenuta La Torre della famiglia dei principi Torlonia, e di Caterina Vincenzi Alloccatelli. I suoi familiari lo chiamavano affettuosamente “Zvanì”.

Il 10 agosto 1867 , quando Giovanni aveva dodici anni, il padre fu assassinato con una fucilata mentre sul proprio calesse tornava a casa da Cesena. Le ragioni del delitto, forse di natura politica o dovute a contrasti di lavoro non furono mai chiarite, e i responsabili rimasero ignoti, nonostante tre processi celebrati e nonostante la famiglia avesse forti sospetti sull’identità dell’assassino, come traspare evidentemente nella poesia “La cavallina storna” . Il probabile mandante fu Pietro Cacciaguerra (al quale Pascoli fa riferimento, senza nominarlo, nella lirica Tra San Mauro e Savignano), possidente ed esperto fattore da bestiame, che divenne poi agente per conto del principe, coadiuvando l’amministratore Achille Petri, subentrato a Ruggero Pascoli dopo il delitto. I due sicari, i cui nomi correvano di bocca in bocca in paese, furono Luigi Pagliarani detto Bigéca (fervente repubblicano) e Michele Dellarocca, probabilmente fomentati dal presunto mandanti. Un’altra poesia, “X Agosto“, fu scritta in ricordo del giorno dell’assassinio del padre.

Il trauma lasciò segni profondi nel futuro poeta. La famiglia cominciò a perdere gradualmente il proprio status economico e successivamente subì una serie di numerosi lutti, disgregandosi: costretti a lasciare la tenuta, l’anno successivo morirono la sorella Margherita di tifo e la madre di crepacuore. Nel 1871 il fratello Luigi colpito da meningite, e nel 1876 il fratello maggiore Giacomo, assessore comunale a Rimini, pure di tifo; secondo alcune ricerche, però, la morte di Giacomo non fu naturale bensì dovuta ad avvelenamento da parte di ignoti che intimarono a lui e ai suoi fratelli Raffaele e Giovanni di non continuare le indagini sulla morte del padre.

Le sorelle Ida (1863-1957) e Maria (1865-1953) andarono a studiare nel collegio del convento delle monache agostiniane a Sogliano al Rubicone e dove rimasero dieci anni. Nel 1882, uscite dal convento, Ida e Maria chiesero aiuto al fratello Giovanni, che dopo la “laurea” insegnava al Liceo Duni di Matera, chiedendogli di poter vivere con lui. Nella “biografia” scritta dalla sorella Maria, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, il futuro poeta è presentato come un ragazzo solido e vivace, il cui carattere non era stato alterato dalle disgrazie; per anni, infatti, le sue reazioni parvero essere volitive e tenaci, nell’impegno a terminare il liceo e a cercare i mezzi per proseguire gli studi universitari, nonché nel puntiglio, sempre frustrato, nel ricercare e perseguire l’assassino del padre. Questo desiderio di giustizia non sfocerà mai nella vendetta, e Pascoli si pronuncerà sempre contro la pena di morte e l’ergastolo per i suoi principi umanitari. 

Nel 1871, all’età di quindici anni dovette lasciare il Collegio Raffaello dei padri Scolopi di Urbino e si trasferì a Rimini dove frequentò il Liceo classico Giulio Cesare. 

Giunse a Rimini assieme ai suoi cinque fratelli: Giacomo (19 anni), Raffaele (14), Alessandro Giuseppe, (12), Ida (8), Maria (6, chiamata affettuosamente Mariù). «L’appartamento, già scelto da Giacomo ed arredato con lettini di ferro e di legno, e con mobili di casa nostra, era in uno stabile interno di via San Simone, e si componeva del pianterreno e del primo piano», scrive Mariù: «La vita che si conduceva a Rimini… era di una economia che appena consentiva il puro necessario». Terminò infine gli studi liceali a Cesena dopo aver frequentato il ginnasio ed il liceo al prestigioso “Liceo Dante di Firenze”.

Grazie a una borsa di studio di 600 lire (che poi perse per aver partecipato a una manifestazione studentesca), Pascoli si iscrisse all’Università di Bologna, dove ebbe come docenti il poeta Giosuè Carducci e il latinista Giovanni Battista Gandino e diventò amico del poeta e critico Severino Ferrari. Conosciuto Andrea Costa ed avvicinatosi al movimento narco-socialista, cominciò nel 1877 a tenere comizi a Forlì e Cesena. Durante una manifestazione socialista a Bologna, dopo l’attentato fallito dell’anarchico lucano Giovanni Passannante ai danni del Re Umberto I, il giovane poeta lesse pubblicamente un proprio sonetto dal presunto titolo Ode a Passannante. L’ode venne subito dopo strappata (probabilmente per timore di essere arrestato o forse per essersi pentito, pensando all’assassinio del padre) e di essa si conoscono solamente gli ultimi due versi tramandati oralmente: “colla berretta d’un cuoco, faremo una bandiera“.

La paternità del componimento fu oggetto di controversie: sia la sorella Maria sia lo studioso Piero Bianconi negarono che egli avesse scritto tale ode (anche se il Bianconi la definì la più celebre e citata delle poesie inesistenti della letteratura italiana). Benché non vi sia alcuna prova tangibile sull’esistenza dell’opera, Gian Battista Lolli, vecchio segretario della federazione socialista di Bologna ed amico del Pascoli, dichiarò di aver assistito alla lettura ed attribuì al poeta la realizzazione della lirica e il Pascoli fu arrestato il 7 settembre 1879 per aver partecipato a una protesta contro la condanna di alcuni anarchici, i quali erano stati a loro volta imprigionati per i disordini generati dalla condanna di Passannante: durante il loro processo, il poeta urlò: “Se questi sono i malfattori, evviva i malfattori!”

Dopo poco più di cento giorni, esclusa la maggiore gravità del reato, con sentenza del 18 novembre 1879 la Corte d’Appello rinviò gli imputati – Pascoli ed Ugo Corradini – davanti al Tribunale. Il processo, in cui Pascoli era difeso dall’avvocato Barbanti, ebbe luogo il 22 dicembre e fu chiamato a testimone anche il suo docente Carducci, il quale inviò una sua dichiarazione: «Il Pascoli non ha capacità a delinquere in relazione ai fatti denunciati». Pascoli venne assolto, ma attraversò un periodo difficile minato da intenti suicidi (a cui desistette grazie al pensiero della madre defunta, come raccontato nella poesia La voce), finché alla fine riprese gli studi con impegno.

Nonostante le simpatie verso il movimento anarco-socialista in età giovanile, nel 1900, quando Umberto I venne ucciso da un altro anarchico, Gaetano Bresci, Pascoli rimase amareggiato dall’accaduto e compose la poesia “Al Re Umberto”. Abbandonò dunque la militanza politica, ma mantenne sempre un certo spirito socialista umanitario caratterizzato dall’impegno verso i deboli e la concordia universale fra gli uomini, argomento di alcune liriche

«Pace, fratelli! e fate che le braccia / ch’ora o poi tenderete ai più vicini, / non sappiano la lotta e la minaccia.» Giovanni Pascoli (I due fanciulli)

Dopo la laurea, conseguita nel 18821 con una tesi su “Alceo”, intraprese la carriera di insegnate di latino e greco nei Licei di Matera e di Massa. All’indomani della laurea scrisse da Argenta: il prossimo ottobre andrò professore, ma non so ancora dove. Forse lontano: ma che importa? Tutto il mondo è paese ed io ho risoluto di trovar bella la vita e piacevole il mio destino.

Il 22 settembre 1882 fu iniziato alla massoneria presso la Loggia Rizzoli di Bologna. Il testamento massonico autografo del Pascoli, a forma di “triangolo” (il triangolo è un simbolo massonico), è stato rinvenuto nel 2002. Giuliano Di Bernardo a capo del Grande Oriente d’Italia dal 1990 al 1993, nel 2017 ha esplicitamente dichiarato l’appartenenza di Pascoli e Carducci alla massoneria, per un certo periodo nelle logge. I contatti con la Massoneria sono confermati anche dall’intenso scambio epistolare che intrattenne con il massone Luigi d’Isengard. 

Dal 1887 al 1895 inegnò a Livorno al Ginnasio-Liceo “Guerrazzi e Niccolini”, nel cui archivio si trovano ancora lettere e appunti scritti di suo pugnoe, nel rattempo, iniziò la collaborazione con la rivista “Vita Nuova” su cui uscirono le prime poesie di “Myricae“, raccolta che continuò a rinnovarsi in 5 edizioni fino al 1900. Vinse inoltre ben 13 volte la medaglia d’oro alConcorso di Poesia latina ad Amsterdam, con i Poemetto “Veianus” e coi successivi “Carmina“.

 

Nel 1894 fu chiamato a Roma per collaborare con il Ministero della pubblica istruzione. Nella capitale fece la conoscenza di Adolfo De Bosis, che lo invitò a collaborare alla rivista Convit (dove sarebbero infatti apparsi alcuni tra i componimenti più tardi riuniti nel volume Poemi Conviviali), e di Gabriele D’Annunzio il quale lo stimava, anche se il rapporto tra i due poeti fu sempre complesso.
«La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera»

 

 

 

 

(Giovanni Pascoli, La mia sera da “Canti di Castelvecchio”)

 

 

 

 

 

Divenuto professore universitario nel 1895 e costretto dalla sua professione a lavorare in più città, come Bologna, Messina e Pisa, ma non si radicò mai in esse, preoccupandosi sempre di garantirsi una “via di fuga” verso il proprio mondo di origine, quello agreste. Tuttavia il punto di arrivo sarebbe stato sul versante appenninico opposto a quello da cui proveniva la sua famiglia: nel 1895 infatti si trasferì con la sorella Maria nella Media Valle del Serchio, nel piccolo borgo di Castelvecchio (oggi Castelvecchio Pascoli) nel Comune di Barga nel, in una casa che divenne la sua residenza stabile quando poté acquistarla (impegnando anche alcune medaglie d’oro vinte al concorso di poesia latina di Amsterdam).

 

Dopo il matrimonio della sorella Ida con il romagnolo Salvatore Berti, matrimonio che il poeta aveva contemplato e seguito sin dal 1891, Pascoli vivrà in seguito alcuni mesi di grande sofferenza per l’indifferenza della sorella Ida nei suoi confronti e le continue richieste economiche da parte di lei e del marito, vivendo la cosa come una profonda ferita dopo i dieci anni di sacrifici e dedizione alle sorelle, a causa delle quali il poeta aveva di fatto più volte rinunciato all’amore[21]. Molti particolari della vita personale, successivamente emersi dalle lettere private, furono taciuti dalla celebre biografia scritta dalla sorella Maria, poiché giudicati da lei sconvenienti o non conosciuti[22]. Il fidanzamento di Pascoli con la cugina Imelde Morri di Rimini, all’indomani delle nozze di Ida e organizzato all’insaputa di Mariù, dimostra il reale intento del poeta, ma di fronte alla disperazione di Mariù, che non avrebbe mai accettato il matrimonio, né l’ingerenza di un’altra donna in casa sua, Pascoli rinuncerà al proposito di vita coniugale. Si può affermare che la vita moderna della città non entrò mai, neppure come antitesi, come contrapposizione polemica, nella poesia pascoliana: egli, in un certo senso, non uscì mai dai confini del cosiddetto «nido», il suo mondo reale e metaforico che costituì, in tutta la sua produzione letteraria, l’unico grande tema, una specie di microcosmo  da lui definito «tutto il mondo» eppure chiuso su sé stesso, come se il poeta avesse bisogno di difenderlo da un minaccioso disordine esterno, peraltro sempre innominato e oscuro, privo di riferimenti e di identità, come lo era stato l’assassino di suo padre.

 

Le trasformazioni politiche e sociali che agitavano gli anni di fine secolo e preludevano alla catastrofe bellica europea della prima guerra mondiale gettarono progressivamente Pascoli, già emotivamente provato dall’ulteriore fallimento del suo tentativo di ricostruzione familiare, in una condizione di insicurezza e pessimismo ancora più marcati, che lo condussero in una fase di depressione e nel baratro dell’alcolismo. 

Negli ultimi anni della sua vita, la poesia ed il nido diventano le uniche consolazioni di Pascoli dopo la perdita della fede trascendente, cercata ed avvertita comunque nel senso del mistero universale, in una sorta di agnosticismo mistico, come testimonia una missiva al cappellano militare padre Giovanni Semeria:

«Io penso molto all’oscuro problema che resta… oscuro. La fiaccola che lo rischiara è in mano della nostra sorella grande Morte! Oh! sarebbe pur dolce cosa il credere che di là fosse abitato! Ma io sento che le religioni, compresa la più pura di tutte, la cristiana, sono per così dire, Tolemaiche. Copernico, Galileo le hanno scosse.»

Mentre insegnava latino e greco nelle varie università dove aveva accettato l’incarico, pubblicò anche i volumi di analisi dantescaMinerva oscura (1898), Sotto il velame (1900) e La Mirabile Visione (1902). 

Nel 1906 assunse la cattedra di letteratura italiana all’Università di Bologna succedendo a Carducci. Qui ebbe allievi che sarebbero stati poi celebri, fra cui Aldo Garzanti. 

Nel novembre 1911, presenta al concorso indetto dal Comune di Roma per celebrare il cinquantesimo dell’Unità d’Italia, il poema latino Inno a Roma in cui riprendendo un tema già anticipato nell’ode “Al corbezzolo” esalta Pallante come il primo morto per la causa nazionale e poi deposto su rami di corbezzolo che con i fiori bianchi, le bacche rosse e le foglie verdi, vengono visti come un’anticipazione della Bandiera tricolore. 

Scoppiata la Guerra Italo-turca, presso il teatro di Barga pronuncia il celebre discorso a favore dell’imperialismo “La grande proletaria si é mossa” in cui sostiene infatti che la Libia sia parte dell’Italia irredente e che l’impresa sia anche a favore delle popolazioni sottomesse alla Turchia, oltre che positiva per i contadini italiani, che avranno nuove terre. Si tratta, in sostanza, non di nazionalismo vero e proprio, ma di un’evoluzione delle sue utopie socialiste e patriottiche.

Il 31 dicembre 1911 compie 56 anni; sarà il suo ultimo compleanno: poco tempo dopo le sue condizioni di salute peggiorano. Il medico gli consiglia di lasciare Castelvecchio e trasferirsi a Bologna, dove gli viene diagnosticata la cirrosi epatica per l’abuso di alcool.

Nelle memorie della sorella viene invece affermato che fosse malato di epatite e di tumore al fegato. Il certificato di morte riporta come causa un tumore allo stomaco ma è probabile fosse stato redatto dal medico su richiesta di Mariù, che intendeva eliminare tutti gli aspetti che lei giudicava sconvenienti dall’immagine del fratello, come la dipendenza da alcool, come aveva fatto per la simpatia giovanile per Passannante e la sua affiliazione alla Massoneria.

La malattia lo porta alla morte il 6 aprile 1912, un Sabato Santo vigilia di Pasqua, nella sua casa di Bologna, al numero 2 di Via dell’Osservanza.

Pascoli venne sepolto nella cappella annessa alla sua dimora di Castelvecchio Pascoli, dove sarà tumulata anche l’amata sorella Maria, sua biografa, nominata erede universale nel testamento nonché curatrice delle opere postume.

La Poetica del Pascoli:

L’esperienza poetica pascoliana si inserisce, con tratti originalissimi, nel panorama del “decadentismo” europeo e segna in maniera indelebile la poesia italiana: essa affonda le radici in una visione pessimistica della vita in cui si riflette la scomparsa della fiducia, propria del “positivismo“, ed in una conoscenza in grado di spiegare compiutamente la realtà.

Il mondo appare all’autore come un insieme misterioso ed indecifrabile; tanto che il poeta tende a rappresentare la realtà con una pennellata impressionistica che colga solo un determinato particolare del reale, non essendo possibile per l’autore avere una concreta visione d’insieme. Coerentemente con la visione decadente, il poeta si configura come un “veggente”, mediatore di una conoscenza aurorale, in grado di spingere lo sguardo oltre il mondo sensibile: nel Fanciullino, Pascoli afferma quanto il poeta fanciullino sappia dare il nome alle cose, scoprendole nella loro freschezza originaria, in maniera immaginosa ed alogica.

La fase cruciale della formazione letteraria di Pascoli va fatta risalire ai nove anni trascorsi a Bologna come studente alla Facoltà di Lettere (1873-1882). Allievo di Carducci, che si accorse subito delle qualità del giovane Pascoli, nella cerchia ristretta dell’ambiente creatosi attorno al poeta, Pascoli visse gli anni più movimentati della sua vita. Qui, protetto comunque dalla naturale dipendenza tra maestro e allievo, non ebbe bisogno di alzare barriere nei confronti della realtà, dovendo limitarsi a seguire gli indirizzi e i modelli del suo corso di studi. 

A margine degli studi veri e propri, egli, comunque, condusse una vasta esplorazione del mondo letterario e anche scientifico straniero, attraverso le riviste francesi specializzate come la Revue des deux Mondes, che lo misero in contatto con l’avanguardia simbolista, e la lettura dei testi scientifico-naturalistici di J. Michelet, Jean-Henry Frabre e M. Maeterlick. Tali testi utilizzavano la descrizione naturalistica – la vita degli insetti soprattutto, con quell’attrazione per il microcosmo così caratteristica del “Romanticismo decadente” di fine Ottocento – in chiave poetica; l’osservazione era aggiornata sulle più recenti acquisizioni scientifiche dovute al perfezionamento del microscopio e della sperimentazione di laboratorio, ma poi veniva filtrata letterariamente attraverso uno “stile lirico”  in cui dominava il senso della meraviglia e della fantasia. 

Verso gli anni ottanta si cominciò, invece, ad analizzare in modo più realistico e scientifico la “psicologia dell’infanzia portando l’attenzione sul bambino come individuo in sé, caratterizzato da una propria realtà di riferimento. La 

Tutto questo ci serve a ricondurre, naturalmente, la teoria pascoliana della poesia come intuizione pura ed ingenua, espressa nella poetica del “Fanciullino“, ai riflessi di un vasto ambiente culturale europeo che era assolutamente maturo per accogliere la sua proposta. In questo senso non si può parlare di una vera novità, quanto piuttosto della sensibilità con cui egli seppe cogliere un gusto diffuso ed un interesse già educato, traducendoli in quella grande poesia che all’Italia mancava dall’epoca di Leopardi . Per quanto riguarda il linguaggio, Pascoli ricerca una sorta di musicalità evocativa, accentuando l’elemento sonoro del verso, secondo il modello dei “Poeti maledetti” Paul Verlaine e Stéphane Mallarmé.  

Per Pascoli la poesia ha natura irrazionale e con essa si può giungere alla verità di ogni cosa; il poeta deve essere un poeta-fanciullo che arriva a questa verità mediante l’irrazionalità e l’intuizione. Rifiuta quindi la ragione e, di conseguenza, rifiuta il Positivismo, che era l’esaltazione della ragione stessa e del progresso, approdando così al decadentismo. La poesia diventa così analogica, cioè senza apparente connessione tra due o più realtà che vengono rappresentate; ma in realtà una connessione, a volte anche un po’ forzata, è presente tra i concetti, ed il poeta spesso e volentieri è costretto a voli vertiginosi per mettere in comunicazione questi concetti. La poesia irrazionale od analogica è una poesia di svelamento o di scoperta e non di invenzione. I motivi principali di questa poesia devono essere “umili cose”: cose della vita quotidiana, cose modeste o familiari. A questo si unisce il ricordo ossessivo dei suoi morti, le cui presenze aleggiano continuamente nel “nido”, riproponendo il passato di lutti e di dolori ed inibendo al poeta ogni rapporto con la realtà esterna, ogni vita di relazione, che viene sentita come un tradimento nei confronti dei legami oscuri, viscerali del “nido”. Il “nido” è simbolo della famiglia e degli affetti, rifugio dalla violenza del mondo e della storia.

Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se i suoi motivi non furono quelli tipicamente ideologici degli altri scrittori, ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive. Nel 1899 scrisse al pittore De Witt: “C’è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c’è gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall’immutabile destino

In questa contrapposizione tra l’esteriorità della vita sociale (e cittadina) e l’interiorità dell’esistenza familiare (ed agreste) si racchiude l’idea dominante – accanto a quella della morte – della poesia pascoliana. Dalla casa di Castelvecchio , dolcemente protetta dai boschi della Media Valle del Serchio, Pascoli non “uscì” più (psicologicamente parlando) fino alla morte. Pur continuando in un intenso lavoro di pubblicazioni poetiche e saggistiche, ed accettando nel 1905 di succedere al Carducci sulla cattedra dell’Università di Bologna, ci ha lasciato una visione del mondo univocamente ristretta attorno ad un “centro”, rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte.

Fu come se, sopraffatto da un’angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse trovato nello strumento intellettuale del componimento poetico l’unico mezzo per costringere le paure ed i fantasmi dell’esistenza in un recinto ben delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni umane.

Anche se l’ultima fase della produzione pascoliana è ricca di tematiche sociopolitiche (Odi e inni del 1906, comprendenti gli inni Ad  Antonio Fratti, Al re Umberto, Al Duca degli Abruzzi e ai suoi compagni, Andrée, nonché l’ode, aggiunta nella terza edizione, Chavez; Poemi italici del 1911; Poemi del Risorgimento, postumi; nonché il celebre discorso La grande Proletaria si è mossa, tenuto nel 1911 in occasione di una manifestazione a favore dei feriti della guerra di Libia), non c’è dubbio che la sua opera più significativa è rappresentata dai volumi poetici che comprendono le raccolte di “Myricae e dei Canti di Castelvecchio“(1903), nei quali il poeta trae spunto dall’ambiente a lui familiare come la Ferrovia Lucca-Aulla (“In viaggio”), nonché parte dei Poemetti. Il “mondo” di Pascoli è tutto lì: la natura come luogo dell’anima dal quale contemplare la morte come ricordo dei lutti privati.

«Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D’altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c’è visione che più campeggi o sul bianco della gran nave o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c’è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e dei ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie. Crescano e fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo cesti o stipe) autunnali.»

(Dalla Prefazione di Pascoli ai Canti di Castelvecchio)

Uno dei tratti salienti per i quali Pascoli è passato alla storia della letteratura è la cosiddetta poetica del fanciullino, da lui stesso esplicitata nello scritto omonimo apparso sulla rivista “Il Marzocco” nel 1897. In tale scritto Pascoli, influenzato dal manuale di psicologia infantile di James Sully e da La filosofia dell’inconscio di Eduard von Hartmann, dà una definizione assolutamente compiuta – almeno secondo il suo punto di vista – della poesia (dichiarazione poetica). Si tratta di un testo di 20 capitoli, in cui si svolge il dialogo fra il poeta e la sua anima di fanciullino, simbolo:

  • dei margini di purezza e candore, che sopravvivono nell’uomo adulto;
  • della poesia e delle potenzialità latenti di scrittura poetica nel fondo dell’animo umano.

La poesia, quindi, è tale solo quando riesce a parlare con la voce del fanciullo ed è vista come la perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell’uomo anche quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall’infanzia propriamente intesa. È una realtà ontologica. Ha scarso rilievo per Pascoli la dimensione storica (egli trova suoi interlocutori in Omero e Virgilio come se non vi fossero secoli e secoli di mezzo): la poesia vive fuori dal tempo ed esiste in quanto tale. Nel fare poesia una realtà ontologica (il poeta-microcosmo) si interroga su un’altra realtà ontologica (il mondo-macrocosmo); ma per essere poeta è necessario confondersi con la realtà circostante senza che il proprio punto di vista personale e preciso interferisca: il poeta si impone la rinuncia a parlare di sé stesso, tranne in poche poesie, in cui esplicitamente parla della sua vicenda personale.  Per cui il poeta Pascoli rifiuta:

  • il Classicismo, che si qualifica per la centralità e unicità del punto di vista del poeta, che narra la sua opera ed esprime le proprie sensazioni.
  • il Romanticismo, dove il poeta fa di sé stesso, dei suoi sentimenti e della sua vita, poesia.

La poesia, così definita, è naturalmente buona ed è occasione di consolazione per l’uomo e il poeta. Pascoli fu anche commentatore e critico dell’opera di Dante e diresse inoltre la collana editoriale “Biblioteca dei Popoli”. Il limite della poesia del Pascoli è costituito dall’ostentata pateticità e dall’eccessiva ricerca dell’effetto commovente. D’altro canto, il merito maggiore attribuibile al Pascoli fu quello di essere riuscito nell’impresa di far uscire la poesia italiana dall’eccessiva aulicità e retoricità non solo del  Carducci e del Leopardi, ma anche del suo contemporaneo D’Annunzio. In altre parole, fu in grado di creare finalmente un legame diretto con la poesia d’Oltralpe e di respiro europeo. La lingua pascoliana è profondamente innovativa: essa perde il proprio tradizionale supporto logico, procede per simboli e immagini, con brevi frasi, musicali e suggestive.

Chiudo la mia narrazione con una delle sue poesie più toccanti e più vicine al tenore della sua sofferta esistenza: IL PASSERO SOLITARIO

Tu nella torre avita, – passero solitario,- tenti la tua tastiera, – come nel santuario – monaca prigioniera, – l’organo, a fior di dita; – che pallida, fugace, – stupì tre note, chiuse –
nell’organo, tre sole, – in un istante effuse, – tre come tre parole – ch’ella ha sepolte, in pace.

A cura di Pier Luigi Cignoli – Foto ImagoEconomica
Editorialista Pier Luigi Cignoli

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