A nessuno di voi è mai capitato di perdersi tra la folla pur mantenendo, al contempo, un distacco dalla realtà umana positivo e terapeutico? A me capita costantemente.
Quando viaggio ma anche alle prime ore dell’alba, quando esco di casa per la mia passeggiata vagabonda quotidiana per le vie assonnate della città, mi sento una sorta di flâneur proletario, un osservatore romagnolo in cerca di brevi ma forti emozioni.

Quando cammino, solo o in compagnia, non riesco ad ascoltare musica con l’ausilio di cuffie, preferisco rilassarmi con i rumori, o per meglio dire, i suoni dell’alba, il cinguettio di piccoli volatili in cerca di cibo o il miagolio stanco di un micio di ritorno da una notte brava, i passi di qualche studente o lavoratore che raggiunge la stazione ferroviaria o il luogo di lavoro, magari sbriciolando le foglie secche che calpestano, inebriato dall’odore dell’aria autunnale che la memoria olfattiva lo abbina mentalmente al profumo che indossavo da ragazzo, “Caractère” di Daniel Hechter, una evocativa fragranza creata dal Maître Parfumeur Alain Verjus alla fine degli anni ottanta.

Ma i veri rumori, quelli considerati molesti e fastidiosi da chi è ancora abbracciato al cuscino o, in alternativa, al gattone soriano ad uso bouillotte, sono dati dai moderni mezzi utilizzati per pulire le strade o per soffiare via il fogliame prima che il mezzo preposto le raccolga risucchiandole con le sue enormi spazzole. Poi ci sono quelli soffocati che giungono all’improvviso, come quando senti che dietro le spalle sta arrivando un monopattino o una e-bike sibilando come un fuoco che arde a fiamma alta, mentre il ciclista puro lo senti arrancare come se stesse affrontando l’impossibile salita di Casma-Huaraz al ritmo di un vecchio campanello Omega dal suono squillante.

Poi, alle 7.00 in punto, cascasse il mondo, il suono delle campane che serve per chiamare i fedeli alla Messa indicando loro l’inizio della celebrazione ma anche a ricordare l’ora a chi non porta l’orologio al polso. Quando arrivo al termine della passeggiata, soprattutto quando la condivido con mia moglie Marzia, mi ritrovo solo davanti ad una scuola dove, sulla pensilina chiamata a proteggere i ragazzi dalla pioggia, giace un vecchio Telstar consumato dal tempo, di quelli in cuoio formati da venti esagoni bianchi e 12 pentagoni neri rigorosamente cuciti.

Sembra triste nella sua inutile condizione di ex amico di giochi. Mi soffermo a guardarlo mentre lo immagino ancora in attività, fresco di negozio con la vernice fiammante, preso a calci da piedi buoni e dai maestri della giocata alla viva il parroco, finire nei giardini delle case o nei fossi, vivendo una vita spericolata ma, ad ogni fine partita, coccolato dal suo padroncino il quale, tenendolo delicatamente sotto braccio, lo ripuliva ben bene prima di riporlo sotto alla scrivania della sua cameretta.

E mentre riguadagno la strada di casa, riesco anche a commuovermi per aver, come sempre, umanizzato un oggetto inanimato. Il processo di antropomorfizzazione che fin da bambino mi porta a provare emozioni fortemente negative anche per ciò che il resto del Mondo chiama “cose”, fa parte del mio DNA. In questi casi mi sento come Carducci quando i cipressi di Bolgheri gli parlano nella poesia “Davanti a San Guido“. Ho capito, devo rivolgermi a uno bravo!

A cura di Marco Benazzi – Foto Redazione

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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