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Mi chiamo “Fedora sono un cappello che è stato realizzato nel 1948 utilizzando feltro, pelle e gros-grain e il mio colore è grigio antracite, ho una bella rilegatura a tesa larga e un nastro di colore grigio leggermente più chiaro. Sono ancora in buone condizioni, nonostante abbia compiuto di recente 75 anni. Non presento macchie né sulla tesa né sulla fascia antisudore. La mia taglia è la 61. Oggi mi trovo in un mercatino vintage in cerca di una testa che senta il bisogno di indossarmi. Se penso che quando venni acquistato, per la prima volta, mi trovavo in un negozio del centro di Bologna, “Giusti Uomo” mi pare si chiamasse, e il mio prezzo di vendita era alla portata dei soli notai e avvocati e infatti il mio primo possessore fu un noto notaio felsineo con il quale restai per circa cinque anni, era il classico pubblico ufficiale al quale lo Stato affida il potere del valore di prova legale, un uomo d’altri tempi, tutto d’un pezzo, la cui testa snocciolava leggi e numeri a velocità supersonica.

Sì perché dimenticavo di dirvi che, essendo a stretto contatto con la crapa di chi mi indossa, riesco ad avere un contatto diretto con il suo cervello, e indirettamente anche con il cuore. Nel 1953, in occasione di un trasloco fissato a fine maggio, caddi dal camion del gruppo facchini e mi ritrovai su di una aiuola accanto ad un campo sportivo. Venni raccolto da un signore dall’aria distinta e i capelli impomatati di Bryllcream”, a differenza del mio precedente possessore che utilizzava esclusivamente “Brillantina Linetti”.

Era un giornalista sportivo e, dopo avermi portato in tintoria, mi adottò come cappello ufficiale nel periodo autunno-inverno e per venti lunghi anni la sua testa godette della mia protezione. Tifava Milan ma nei suoi articoli non traspariva alcuna vicinanza a squadre di calcio, anche se un indizio importante era dato dal fatto che decise di chiamare il suo figlio maggiore Gianni, come il Golden Boy.

Il 15 ottobre del 1973, una domenica di autunno in cui si giocò una delle più clamorose partite che la Serie A abbia mai regalato, quella fra il Milan e l’Atalanta che terminò 9 a 3 in favore degli uomini guidati dal Paròn Rocco, a tutt’oggi il record assoluto in Serie A per gol fatti, dall’entusiasmo, durante un momento di eccessiva esultanza, precipitai dalla tribuna stampa di San Siro per cadere su di un cespuglio accanto all’ingresso delle toilette. Mi raccolse il custode dello stadio, un pugliese trapiantato a Milano, al termine dell’incontro, e attribuendomi doti di portafortuna, mi rinchiuse in una teca di vetro posizionandomi all’ingresso dell’area spogliatoi.

Nel 2000, quando raggiunse il meritato riposo, la teca venne smantellata ed io finii nella testa di un giovane poeta che per sbarcare il lunario scriveva biglietti augurali per una nota casa editrice lombarda. Il vernacolo era la lingua in cui dava il meglio di sé e nell’arco di 23 anni, gli unici riconoscimenti che ottenne, erano tutti legati alla sua produzione vernacolare.

Il classico genio incompreso che, peraltro, morì tragicamente in un incidente stradale, investito mentre attraversava sulle strisce pedonali, da un monopattino elettrico truccato bimotore che raggiungeva quasi i 70 km orari. Ora, come vi avevo preannunciato, sono su di una bancherella, un po’ sgualcito e impolverato, ma ho ancora tanta voglia di appoggiarmi su di una testa pensante che, oggigiorno, abbia la personalità giusta e anche un po’ di follia per indossarmi con leggiadria. E comunque, non ci sono più le teste di un tempo.

A cura di Marco Benazzi editorialista – Foto ImagoEconomica

Editorialista Benazzi Marco

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