Innumerevoli delitti, che caratterizzato la nostra società civile, vengono spettacolarizzati, spesso a danno della corretta informazione. Entrano nei nostri salotti, nelle nostre discussioni, nelle nostre vite sociali e assumono una rilevanza nazionale. Uno dei più emblematici casi di cui si sono occupati, oltre i Giudici dei Tribunali, anche i mass media e ben note trasmissioni televisive, è quello che oramai la gente conosce come “Il delitto di Garlasco”.

Chiamato così dal nome del posto in cui fu commesso il delitto, un piccolo comune di nemmeno diecimila abitanti in provincia di Pavia. Qui, la mattina del 13 agosto del 2007, fu assassinata, nella villetta di famiglia, a colpi di un oggetto contundente, Chiara Poggi, impiegata ventiseienne laureata in economia. All’apparenza, il delitto si presentò subito come di facile soluzione: Chiara Poggi, la mattina della sua morte, aprì, in pigiama, la porta al suo assassino e la cerchia dei sospettati si concentrò subito sull’allora fidanzato Alberto Stasi, studente della Bocconi, che diede per primo l’allarme e fece trovare il cadavere.

La sua maniacale pulizia delle scarpe e i vestiti puliti lo fecero immediatamente diventare, agli occhi dell’opinione pubblica, l’assassino: possibile che non si sia nemmeno sporcato dopo aver passato lungo il pavimento del corridoio sporco di sangue? Alcune particolari del racconto dello studente (definite “incongruenze”) portarono al suo arresto i 24 settembre del 2007. Ma fu l’inizio, non la fine di quello che sarebbe stato un processo infinito, pieno di colpi di scena e di revirements processuali clamorosi. Quattro giorni dopo, il Giudice per le indagini preliminari lo scarcerò per insufficienza di prove.

In seguito, il GUP, in funzione di Giudice monocratico, lo prosciolse definitivamente per non aver commesso il fatto. Sembrava, la sua, una granitica ed inequivocabile non colpevolezza; anche davanti alla Corte di Assise di Appello, a Milano, Alberto Stasi fu assolto “per non aver commesso il fatto”; una delle più ampie formule assolutorie usate dai Tribunali.
Ma già in appello, vi è un fatto nuovo: una nuova perizia spostò l’ora della morte di Chiara, impedendo così all’imputato di servirsi del cd. alibi (sostenne sempre di avere lavorato, all’ora della morte della fidanzata, al suo pc per preparare la tesi di laurea); ciononostante, fu assolto per la seconda volta. Dirimente fu, allora, la perizia disposta; il motivo per cui Alberto Stasi non si sarebbe sporcato di sangue consisteva semplicemente nel fatto che il sangue si era già seccato e l’ora della morte di Chiara Poggi venne indicata, dai medici legali, in un’ora compatibile con tale fatto.

In Cassazione, la svolta inattesa; venne annullata la Sentenza di assoluzione.
Fra le motivazioni dell’annullamento, si ordinarono esami del DNA su un capello trovato tra le mani della vittima (non noto durante il primo giudizio) e su residui di DNA sotto le unghie di Chiara; la Suprema Corte ribadì come fosse difficile«pervenire a un risultato, di assoluzione o di condanna, contrassegnato da coerenza, credibilità e ragionevolezza»e quindi «impossibile condannare o assolvere Alberto Stasi». Preferì, ad ogni nodo, non confermare il proscioglimento, “in attesa dei nuovi esami scientifici”. Ad ogni modo, Alberto Stasi fu di nuovo sulla graticola con il processo d’appello bis. Fra le motivazioni con le quali la Cassazione ordinò un nuovo processo, vi furono esami del DNA su di un capello trovato tra le mani della vittima (non noto durante il primo giudizio) e su residui di DNA sotto le unghie, repertati e mai analizzati.

Ma sembra che il capello, di colore, castano chiaro, fosse risultato privo di bulbo e quindi di DNA, mentre i residui sotto le unghie presentarono marcatori maschili compatibili, ma non attribuibili con certezza all’indagato e, secondo indiscrezioni dei mass media, anche con almeno due profili maschili sconosciuti e non identificabili o confrontabili a causa del deterioramento del materiale. Ciononostante, Alberto Stasi venne ritenuto colpevole e condannato a ventiquattro anni di reclusione (pena poi ridotta a 16 anni grazie al rito abbreviato) per omicidio volontario, con l’esclusione però delle aggravanti della crudeltà e della premeditazione.

La cassazione, abbandonando stavolta la via del dubbio scelta in precedenza, andò giù di spada; il P.M. chiese la conferma della condanna e l’aggravante della crudeltà al fine di inasprire la pena, mentre la difesa chiese l’annullamento senza rinvio oppure un nuovo processo, ricollegandosi, ragionevolmente, ai dubbi espressi in precedenza dalla stessa Cassazione sull’impossibilità di determinare la colpevolezza o l’innocenza con certezza.

Il verdetto finale il 12 dicembre 2015; la Corte di Cassazione confermò la sentenza-bis della Corte di Appello di Milano, condannando in via definitiva Alberto Stasi a 16 anni di reclusione, ma senza movente: si sarebbe trattato di un momento di rabbia dello Stasi. Un po’ difficile sostenerlo, a parere di chi scrive: vero che nessun delitto può essere commesso
“frigido pacatoque animo, secondo un antico brocardo latino, ma è altrettanto vero che, se fosse stato, al di là di ogni ragionevole dubbio, Alberto Stasi ad aver assassinato Chiara Poggi in un impeto di rabbia, non si sarebbe preoccupato di fare la gincana fra le pozze di sangue nel pavimento della taverna.

Ad ogni modo, un colpevole è stato trovato: Alberto Stasi sta scontando la sua pena presso il carcere di Bollate di Milano, dove si è laureato e sta svolgendo un lavoro, retribuito, come centralinista.

Il delitto di Garlasco ha diviso l’Italia e gli italiani in due fazioni, innocentisti e colpevolisti. Noti programmi televisivi che si occupano di eventi di cronaca nera hanno, in un certo senso, legittimato l’uso delle telecamere nelle aule dei Tribunali, dando la possibilità al pubblico di partecipare indirettamente a questo processo come se si trovassero presenti. E’ stato il trionfo del circo mediatico: la verità televisiva si sovrappone alla verità processuale.
Noto non diventa solo che è accusato di aver commesso un omicidio, ma tutte le figure che gravitano attorno a lui: parenti, amici, conoscenti. Ognuno ha un suo momento di celebrità, o meglio di notorietà, insinuando dubbi, aprendo piste mai aperte, accusando persone.

E non è potuto mancare, nemmeno in questo processo, la figura dominante dei talk show televisivi: il criminologo da salotto, nuova figura professionale il cui interesse risulta direttamente proporzionale alla notorietà del caso di cronaca nera trattata. Sì, perché vi dev’essere comunque un morto. Preferibilmente morto di una morte orribile, eticamente sensazionale, altrimenti non ne vale la pena.

Ed anche nel delitto di Garlasco, i talk show, con i suoi cd. esperti criminologi, hanno contribuito fortemente al giudizio finale del pubblico. Il risultato finale è che Alberto Stasi è stato prima condannato o assolto dai mass media e successivamente lo è stato nei Tribunali.
Il rischio è che anche i Giudici, uomini come tutti noi e per tale ragione non perfetti, possano essere influenzati dai mass media e dai loro protagonisti, con innegabili e tragiche conseguenze.

Tempo fa ho avuto il piacere di scrivere su “Il Popolano” circa la bellezza della nostra costituzione e sui suoi valori portanti.

Il processo mediatico che si è svolto anche nel delitto di Garlasco ha contribuito a mettere in crisi il principio dell’art. 27 della Costituzione: secondo cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”: l’imputato verrà prima condannato dall’opinione pubblica e solo successivamente, ed ipoteticamente, da un Giudice.

A cura di Avv. Costantino Larocca – Foto La Stampa

Contatta Costantino per richieste legali: [email protected] / 338.7578408

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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