Il Comune di Budrio dove si lavorano antiche ocarine
Si chiamava Pirin e faceva il calzolaio; ma in Francia lo chiamavano monsieur Pirèn. Non aveva mai voluto rinunciare a quello nomignolo che l’aveva accompagnato sin dall’infanzia forse perché inconsciamente sapeva che il proprio nome cela sempre un presagio recondito.
Sentiva ancora la voce di sua madre chiamarlo quand’era fanciullo.  Ven- Pir-ìn, ven a cà! – E lui correndo per l’aia dorata rispondeva: A vègn-n-n…
AH! l’estate romagnola, il finire assordante assordante delle cicale, l’odore di sfoglia stesa nel tagliere, come erano lontani! E la casa paterna, la vita dei campi, il campanile del villaggio pieno di passeri. Pìrin ne ebbe una stretta al cuore, si raggomitolò sotto le coperte che non riuscivano più a scaldarlo, come quando si è abbacinati dal sole, come per cacciare lontano da sé quel ricordo che lo faceva piangere. Ma non voleva piangere, sapeva che gli faceva male e non voleva belare di lacrime le ultime cose che gli stavano da vedere… Riaprì gli occhi e si guardò intorno ancora una volta, per ritrovare quello che lui era stato fino a pochi giorni prima, quando il male era ancora tacito e alimentava ancora quanto c’è di inconsulto nel fumo della speranza.
Da 10 anni viveva in quella stamberga sopra la bottega. Il bricco del caffè d’orzo era rimasto sul fornello da quando si era coricato sul letto, i calzoni erano buttati sulla sedia, sul pavimento le scarpe slacciate guardavano verso la finestra, una finestra avara di luce, e quella poca che concedeva era livida, fredda, sporca e arrivava a Pirin dopo aver attraversato nuvolaglie spesse e umide, dopo aver rimbalzato sui 1000 tetti di Parigi e rischiarava appena oggetti che costituivano tutta la sua povera vita di vecchio emigrante.
Vecchio e solo, Pirin tirava avanti senza sapere perché, contendendosi di quel che ricavava dal suo mestiere di ciabattino. E la sera si ritrovava al sesto piano di Rue Dauphine in una mansarda scucita, percorsa da un reticolato fitto di crepe, quanti erano i solchi dei suoi pensieri; giacché pensare è l’unica bisogna dei miseri. Da quando gli era morto il cane, nessuno gli aveva tenuto compagnia. Povero Garibaldi, così fedele, così umano. Quando fu sul punto di morire vedendo lo sguardo sconsolato del padrone sembrò chiedergli perdono di dargli tanto dolore, ma proprio non era colpa sua, la vita è così, anche per le bestie, lo sfaldarsi dell’essere.
E ora toccava a lui fare come Garibaldi e cominciare a interrogare per sempre il vuoto ad occhi aperti. Dalla strada gli giungevano i rumori della città. Pirin prese a fissare la luce della lampada appesa al centro della stanza; ormai non poteva fare altro, ma non se ne rendeva conto. La morte, si sa ha il morso dolce. Il grosso ticchettio della sveglia continuava a richiamare il tempo… tic-tac-tic-tac... Piano piano uno strano benessere, simile all’oblio che da il vino, l’invase. Qualcosa andava rimestandosi in lui come quando si stappa una vasca e l’acqua ha un sussulto e  s’anima, dapprima lentamente poi via via sempre di più e infine inizia il molinello.
Così, a poco a poco, tutta la sua vita comincia, a snodarglisi a ritroso,  sempre più velocemente come un film montato alla rovescia e i fatti, le immagini, i ricordi, i volti, le vicende non gli eran mai apparsi altrettanto netti, chiari, precisi e nello stesso tempo fuori dal tempo e dalle concessioni delle cause che lo governano. Si rivide arrivare a Parigi alla gare de Lyon, solo, con la valigia in mano senza che ci fosse nessuno a venirlo a prendere. Arrivava da Marsiglia dove era sbarcato qualche giorno prima provenendo da Buenos Aires s con molti anni di più e lo stesso paio di scarpe buone ai piedi.
Aveva passato in Argentina vent’anni facendo un po’ tutti i mestieri: Rivenditore di bibite, cameriere in un ristorante, guardiano notturno, magazziniere. Ogni sabato sera su ritrovava circolo Mazziniano in compagnia di qualche altro povero diavolo romagnolo in mal di nostalgia e sotto la fronte in utilmente ampia di Mazzini bevevano 1 litro e giocavano a Marafon. Allora il dialetto ritrovava le sonorità represse nel resto della settimana, ma eran vibrazioni offese, ferite, smarrite, che andavano urtandosi con altre diverse provenienti dalla Sicilia, della Calabria, dal Friuli. Rivide sotto il ritratto di Mazzini la scritta a grossi caratteri neri: DIO-PATRIA-FAMIGLIA. Sotto una mano ignota aveva aggiunto la rima “riducono l’uomo in POLTIGLIA.
La famiglia, lui non aveva il tempo di farsela; almeno così rispondeva a chi gli domandava perché non si era trovato la ragazza. Ma la ragione era un’altra… Buenos Aires era stata più lui un castigo, un ripiego necessario, da quando ero dovuto scappare dagli Stati Uniti a causa di una rissa. Il paese non gli piaceva gli pareva assurdo, tutto era fatto alla rovescia. Gli balzò incontro l’immagine del primo Natale argentino, così strano, così impossibile…
Era destate e faceva caldo era tutto fuorché Natale… Almeno negli States là c’era la neve e anche se il grano si chiamava corn, si lavorava e si guadagnava bene. Lavorava nella ferrovia a metter le traversine. Ne aveva scaricate e imbullonate a migliaia uno dopo l’altra, lungo la via ferrata, attraverso la pianura soda, crudele, mai fecondata dal sudore, ne aperta dall’aratro  come terra destinata ad assorbire  solo le iniquità umane.
Improvvisamente rivide la rissa col meridionale, rapida sotto il sole e il luccichio della coltellata che l’aveva fatto scappare in Argentina, il fiore vermiglio di sangue sbocciare nel ventre e intridere i panni di quel disgraziato, il suo sguardo stravolto e la bocca aprirsi in un nome non detto…
Era sbarcato New York e il 1908, al tempo del passaporto rosso. Eccolo lì in piedi sul molo a guardare dalla parte del mare, come se nascosto dietro la nave ci fossero lo stivale, l’Italia e da una parte la Romagna il suo paese e la strada di casa. Aveva attraversato l’Oceano senza vederlo e non sapeva di aver passato quattro settimane, nella stiva della nave in mezzo ad altri poveracci, muti, affranto, smarriti; s’era accorto soltanto che nel destino dell’uomo si trova di tutto, salvo l’indulgenza e che la speranza è il pane dei miseri.
Era partito di casa con un sacco sulla spalla e una pagnotta sottobraccio, senza neppure chiudere l’uscio. Vado in America – aveva detto – come se l’America fosse lì, dietro il cimitero,  un po’ più lontano delle montagne che intravedeva dalle finestre di casa e oltre le quali non era mai andato. E non sapeva che il suo destino si stava decidendo lungo quel tratto di siepe che da casa menava alla stazione e che la sua sconfitta s’era  rappresa all’ultimo istante del fischio del treno in partenza.
E il destino aveva colpito ancora una volta in quella crepa della vita dell’uomo che si forma ad ogni cambiamento, in quella specie di punto debole che offre ogni cerniera dell’esistenza. Fu tutto  per i begli occhi della Zaira. E senza quella schioppettata, caricata a dal grosso che il padre di lei gli aveva tirato dalla finestra, certo non sarebbe partito.Rimase col sedere a mollo per una settimana e tutto il paese ne rise.
Le voleva  bene alla Zaira, le voleva bene come si vive, come si respira, cioè senza dubitare.  Si incontravano di soppiatto quando faceva notte in fondo ai campi, sotto le foglie larghe delle viti.  E quando aveva finito il lavoro non poteva fare a meno di passare sotto la sua finestra, trarre di tasca l’ocarina e mettersi a suonare per lei, così come si scrive una lettera d’amore, tutte le armonie dei suoi pensieri.
Il padre della Zaira aveva avuto un bel ripetergli in piazza di girare al largo, di lasciare la figlia in pace. L’amore e il figlio dell’ostacolo, non conosce ragioni e se il suo momento più bello è quando si salgono le scale, lui, rinunciando a quanto questo sentimento dispensa dopo, aveva avuto la saggezza di coltivare l’amaro, ma facendo giardino dell’amore tenuto in sospeso, ma sfuggito al tragico quotidiano. E poi come in un lampo gli passarono, veloci, gli anni della fanciullezza con l’odore buono della stalla, le  spannocchiature nell’aia assolata, la voce della madre che lo chiamava sulla soglia: Pirì-i-n vendita à cà, veni-n–n..
A vègn-!, rispose una voce che non era più quella dell’infanzia.
A vègn-!, ripeté stupito di ritrovarsi ad un tratto in una stanza gelida, intirizzito di freddo sotto le coperte lontano da quell’aia di sole, da quella casa di pietra.
La morte gli saliva le scale. E Pirin volle accoglierla allora da Romagnolo, come l’Amorosa. Allungò il braccio verso il comodino per prendere l’unico oggetto che dalla Romagna l’aveva seguito lungo tutto il suo andar ramingo, l’unico ricordo della sua terra, l’ocarina di Budrio. Annaspò con la mano alla cieca tra gli occhiali e la sveglia. Senti qualcosa di tondo, , tentò di afferrarla, ma non fece altro che spingerla fuori dal bordo. Il tonfo gli disse che si era spezzata.
Non ebbe la forza di ritirare il braccio sul letto. Rimase così, con gli occhi velati di pianto finca l’ultimo singhiozzo si sciolse con l’ultimo respiro.
A cura di Gianfranco Greco – Foto Repertorio
Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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