Sarà perchè è la più sacra e antica forma di “assembramento” ma il Teatro sembra essere una delle vittime sacrificali, insieme ai musei e alla musica e, all’arte in generale, del coronavirus.

Anche nella fase 2, la ripresa delle attività in questo settore è stata l’ultima, e sarà sottoposta a complicate assegnazioni anche quando ripartirà: ingressi scaglionati, prenotazioni on-line, posti preassegnati…
E’ strano, perchè i teatri sono luoghi della meditazione civile: sarebbe molto utile tenerli aperti in tempi come questi.
Del resto i palchetti degli antichi teatri all’italiana sono un esempio perfetto di “distanzazione sanitaria” che evita la “distanzazione sociale”.
Comunque sia, la pandemia costringe a rifuggire la prossimità, e il contatto fisico, privando il teatro di due componenti fondanti la sua stessa natura.

Il problema comunque non è se Romeo potrà tornare a baciare Giulietta, o se una lastra di plexiglas dovrà proteggere Creonte dalle maledizioni di Antigone.
Il pur indispensabile distanziamento sanitario sembra minare il cuore stesso del rito teatrale: l’interazione tra gli attori, e tra gli attori e gli spettatori, ma anche tra spettatore e spettatore.
Ha ragione Marco de Marines a scrivere che, nell’emergenza sanitaria, “il teatro dovrà accettare per un periodo di non essere interamente se stesso, cioè dall’incontro reale ravvicinato di attori e spettatori”.

Ma proprio questo blackout, questo temporaneo annullamento di sè, potrebbe indurre il mondo del teatro a fare di necessità virtù’.
Potrebbe essere l’occasione buona per ripensarsi, per ridefinire la propria specificità.
Il momento, insomma, per far tesoro delle consapevolezze acquisite allo scoppiare della crisi, e caricarsi di proposte originali per una nuova “normalità”.
Per esempio, mi viene in mente che la pandemia ha evidenziato in maniera drammatica la fragilità economica del settore teatrale.
L’arte, e il lavoro culturale , che appartenga al mondo della musica, della pittura, della scrittura, o altro, nel suo complesso è un mondo precario.
E se nei ruoli gestionali, amministrativi e tecnici “la società” pare ancora riconoscere delle professionalità, con grande difficoltà dietro l’artista viene riconosciuta la figura di un lavoratore, in primis dagli organi di potere.

Nel corso delle fasi 1 e 2, attori, registi, e artisti in genere hanno manifestato nelle piazze, scritto proclami, e lettere aperte a governo, direttori dei teatri, e delle grandi fondazioni.
Rivendicavano voci in capitolo sulle politiche economiche dell’emergenza.
Tuttavia, pur essendo il piu’ duramente colpito dal lockdown, è stato l’ultimo a essere considerato nel pacchetto d’aiuti.
Il Decreto Rilancio del 19 maggio ha stanziato 5 miliardi di euro per il Mibact, 4 per il turismo, e uno per la cultura e spettacolo (a fronte di una perdita calcolata di un miliardo e mezzo).

Allora, è importante credo, prima di tutto, imparare a riconoscere la vera essenza del teatro, che consiste nello sguardo ricambiato tra persone reali, che si influenzano a vicenda.
E’ il riconoscersi nel volto concreto dell’altro.
E la reazione dell’altro non è mai prevedibile.
Il teatro è reciprocità, riconoscimento dell’alterità nell’eguaglianza. Non è lo sguardo di Narciso verso se tesso, è lo guardo aperto sull’inconosciuto. E’ presenza per la relazione, è un territorio in cui etica ed estetica possono incontrarsi.

La pandemia ci ha insegnato ad usare mezzi che avvicinano la riproduzione alla presenza, dico avvicinano, non equiparano!
In poche parole, Skype o Zoom, piuttosto che le dirette Instagram o le call di Google Meet rimettono in discussione l’esperienza teatrale.
Se i maestri del Novecento, da Stanilavskij a Copeau, da Brook a Grotowski, al Living Theatre, ci hanno insegnato perche’ valeva la pena continuare a fare teatro nel tempo del cinema, è ora di cominciare a chiederci seriamente perchè val la pena di continuare a fare teatro nel tempo di Netflix, di Zoom, e di tutti gli altri.
Questo vale per tutte le arti, nessuna esclusa.
L’arte è lavoro!
Concludo, usando le parole del direttore della maggiore, forse istituzione teatrale italiana “riscoprendo la sua componente relazionale, il teatro può, dice Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro di Milano, diventare lo strumento per riconquistare la vicinanza persa a causa della pandemia”
Speriamo voglia dire che la pratica teatrale e non solo, ma l’arte e la cultura in genere, possa soprattutto nelle grandi istituzioni, affiancare la produzione di forme con creazioni di momenti di integrazione sociale e interculturale.

Per dirlo con Wendy Steiner: “se anche il destino della bellezza è stato legato a lungo alla forma, la chiave del suo futuro sarà l’interazione”.
La pandemia ci ha violentemente riportato con i piedi per terra dopo un lungo periodo di sospensione dalla realta’.
Ci ha fatto vedere, in trasparenza, in negativo, per paradosso, come potrebbe essere migliore il mondo.
Ha sbiadito definitivamente concetti come forma e contenuto.
Ricomposto etica ed estetica.
Non perdiamo l’occasione!

A cura di Sandra Vezzani editorialista – Foto Imagoeconomica

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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