19 luglio 1992. Sono passati soltanto due mesi dalla strage di Capaci e l’Italia torna di nuovo a fare i conti con la mafia stragista. In via D’Amelio trovano la morte il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. In televisione si assiste inermi a un’altra devastazione. Una Fiat 126, imbottita con 90 chili di Semtex-H, è il nuovo avvertimento alla magistratura “perbene”.

L’auto parcheggiata sotto casa della madre di Borsellino salta in aria quando arriva il giudice. Nell’esplosione, con Borsellino, perdono la vita cinque uomini della scorta. L’unico sopravvissuto è l’agente Antonino Vullo, primo testimone a raccontare la vicenda: “Borsellino e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, mentre io ero rimasto alla guida. Stavo facendo manovra per parcheggiare la vettura che si trovava alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla.

Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha scaraventato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto”.

Borsellino lo sapeva. Dalla morte di Falcone era cambiato tutto e non sorrideva più. Ripeteva spesso la frase “Ora tocca a me“, non appena saputo del carico di tritolo arrivato a Palermo. Non gli restava che velocizzare le indagini sulla morte di Giovanni e così fece. Nella sua agenda rossa annotava minuziosamente tutto. Un “diario prezioso” sparito dalla sua 24 ore pochi minuti dopo la strage.

A cura di Elisabetta Turci – Foto Imagoeconomica

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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