La bandiera tricolore dell'Italia

Parte seconda

Composizione e note del testo per gli appassionati

Il testo consta di sei quartine doppie di senari, ciascuna delle quali seguita da un’altra quartina di senari in ritornello

Lo schema è il seguente: asbcsbdseeft + gggft, dove acd sono sdruccioli sciolti, bb in rima piana alternata, ee in rima piana baciata, ggg in rima piana continuata e ff – rispettivamente l’ultimo verso della strofa e del ritornello – in rima tronca costante.

La prima strofa

«Fratelli d’Italia,

l’Italia s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la vittoria?!
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.
»

Nel primo verso della prima strofa è contenuto un richiamo al fatto che gli “Italiani” appartengono a un unico popolo e che sono, quindi, «Fratelli d’Italia». Dal primo verso derivò poi uno dei nomi con cui è conosciuto il Canto degli Italiani. L’esortazione agli italiani, intesi come «fratelli», a combattere per il proprio Paese si ritrova nel primo verso di molte poesie patriottiche risorgimentali.

Nella prima strofa viene menzionato il politico e militare romano Publio Cornelio Scipione (nell’inno, col nome latino di Scipio) il quale, sconfiggendo il generale cartaginese Annibale nella battaglia di Zama (18 ottobre 202 a.C.), concluse la 2da guerra punica liberando l’Italia antica dall’esercito cartaginese. Secondo Mameli, l’elmo di Scipione è ora indossato metaforicamente dall’Italia («dell’elmo di Scipio / s’è cinta la testa») pronta a combattere («l’Italia s’è desta», cioè “si è svegliata”) per liberarsi dal giogo straniero ed essere di nuovo unita. L’esaltazione retorica della figura di Scipione sarà ripresa durante il fascismo con la produzione cinematografica “Scipione l’Africano”, uno dei colossal storici del tempo.

Sempre nella prima strofa, si fa accenno anche alla dea Vittoria (con la domanda retorica «Dov’è la vittoria?»), che per lungo tempo è stata strettamente legata all’antica Roma («ché schiava di Roma») per disegno di Dio («Iddio la creò»), ma che ora si consacra alla nuova Italia porgendole i capelli per farseli tagliare («Le porga la chioma») diventandone così “schiava”. Questi versi fanno riferimento all’abitudine delle schiave dell’antica Roma di portare i capelli corti, mentre le donne romane libere li portavano lunghi. Per quanto riguarda “schiava di Roma”, il senso è che l’antica Roma con le sue conquiste rese la dea Vittoria sua “schiava”. Ora, però, secondo Mameli, la dea Vittoria è pronta a essere “schiava” della nuova Italia nella serie di guerre che saranno necessarie per cacciare lo straniero dal suolo nazionale e per unificare il Paese. Con questi versi Mameli, con una tematica cara al Risorgimento, allude quindi al risveglio dell’Italia da un torpore durato secoli, rinascita che è ispirata dalle glorie della Roma antica.

Il ritornello:

«Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò

Nel Canto degli Italiani è presente un forte richiamo alla Storia dell’antica Roma poiché nelle scuole dell’epoca questo periodo storico era studiato con attenzione;[136] in particolare, la preparazione culturale di Mameli aveva forti connotati classici.

La storia romana repubblicana richiamata nella prima strofa del componimento, è ripresa anche nel ritornello , dove in «Stringiamoci a coorte» è citata la coorte, un’unità militare dell’esercito romano corrispondente alla decima parte della “legione”. Con «siam pronti alla morte, / l’Italia chiamò» si allude alla chiamata alle armi del popolo italiano con l’obiettivo di cacciare il dominatore straniero dal suolo nazionale e di unificare il Paese, all’epoca diviso in sette Stati preunitari. “Stringersi a coorte” significa infatti serrare metaforicamente le file tenendosi pronti a combattere. Nel ritornello è presente, per questioni di metrica la forma sincopata “stringiamci” (senza la vocale “o”) invece di “stringiamoci”.

La seconda strofa

«Noi siamo da secoli

calpesti, derisi
perché non siam Popolo,
perché siam divisi:
raccolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.»

All’interno della seconda strofa si fa invece riferimento ad un desiderio: la speranza (chiamata, nell’inno, la “speme”) che l’Italia, da secoli politicamente divisa e che perciò è stata trattata come terra di conquista («Noi siamo da secoli / calpesti, derisi, / perché non siam Popolo, / perché siam divisi»), si raccolga finalmente sotto un”unica bandiera fondendosi in una sola nazione («raccolgaci un’unica / bandiera, una speme: / di fonderci insieme / già l’ora suonò»). Qui Mameli sottolinea quindi il motivo della debolezza dell’Italia: le divisioni politiche.

La terza strofa

«Uniamoci, amiamoci,
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore;
giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti per Dio,
chi vincer ci può!?»

La terza strofa incita alla ricerca dell’unità nazionale con l’aiuto della “Provvidenza” e grazie alla partecipazione dell’intero popolo italiano finalmente unito in un intento comune («Uniamoci, amiamoci, / l’unione e l’amore / rivelano ai popoli / le vie del Signore; / giuriamo far libero / il suolo natio: / uniti per Dio, / chi vincer ci può!?»). L’espressione “per Dio” è un francesismo (“par Dieu“): Mameli intende “da Dio”, “da parte di Dio”, ovvero con l’aiuto della Provvidenza.

Questi versi riprendono l’idea mazziniana di un popolo unito e coeso che combatte per la propria libertà seguendo il desiderio di Dio. Infatti i motti della Giovane Italia erano proprio «Unione, forza e libertà» e «Dio e popolo». In questi versi è anche riconoscibile l’impronta “romantica” del contesto storico dell’epoca.

La quarta strofa

«Dall’Alpi a Sicilia
dovunque è Legnano,
ogn’uom di Ferruccio
ha il core, ha la mano,
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla,
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò.»

La quarta strofa è ricca di riferimenti a importanti avvenimenti legati alla secolare lotta degli italiani contro il dominatore straniero: citando questi esempi, Mameli vuole infondere coraggio al popolo italiano spingendolo a cercare la rivincita. La quarta strofa inizia con un riferimento alla battaglia di Legnano («Dall’Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano»), combattuta il 29 maggio 1176 nei pressi della città omonima, che vide la Lega Lombarda vittoriosa sull’esercito imperiale di Federico Barbarossa. La battaglia di Legnano pose fine al tentativo di egemonizzazione dell’Italia Settentrionale da parte dell’imperatore tedesco. Legnano, grazie alla storica battaglia, è l’unica città d’Italia, Roma a parte, a essere citata nell’inno nazionale.

Nella stessa strofa è citato anche “Ferruccio” («ogn’uom di Ferruccio / ha il core, ha la mano») ovvero Francesco Ferrucci (noto anche come “Francesco Ferruccio”), l’eroico condottiero al servizio della Repubblica di Firenze, che fu sconfitto nella battaglia di Gavinana (3 agosto 1530) dall’imperatore Carlo V d’Asburgo durante l’assedio della città. Ferrucci – prigioniero, ferito e inerme – venne poi giustiziato da Fabrizio Maramaldo, un soldato di ventura italiano che combatteva per l’imperatore. Prima di morire, Ferrucci rivolse con disprezzo a Maramaldo le celebri parole: “Vile, tu uccidi un uomo morto!”

Nella quarta strofa si fa anche cenno a “Balilla” (i bimbi d’Italia / si chiaman Balilla), il giovane da cui originò, il 5 dicembre 1746, con il lancio di una pietra a un ufficiale austriaco, la rivolta popolare del quartiere genovese di Portoria contro gli occupanti asburgici durante la guerra di successione austriaca. Questa rivolta portò poi alla liberazione della città ligure.

Nella stessa strofa si accenna infine ai Vespri siciliani («il suon d’ogni squilla / i Vespri suonò»), l’insurrezione avvenuta a Palermo nel 1282 che diede avvio a una serie di scontri chiamati “guerre del Vespro”. Queste guerre portarono alla cacciata degli “angioini” dalla Sicilia. Per “ogni squilla” Mameli intende dire “ogni campana”, facendo riferimento agli squilli di campane avvenuti il 30 marzo 1282 a Palermo, con i quali il popolo fu chiamato alla rivolta contro gli angioini dando così inizio ai Vespri siciliani. Le campane che chiamarono il popolo all’insurrezione furono quelle del vespro, ossia quelle della preghiera del tramonto, da cui deriva il nome della rivolta.

La quinta strofa

«Son giunchi che piegano
le spade vendute:

ah l’aquila d’Austria

le penne ha perdute;
il sangue d’Italia
bevé, col Cosacco

il sangue polacco:

ma il cuor le bruciò.»

La quinta strofa è invece dedicata all’Impero austriaco in decadenza. Nel testo si fa infatti riferimento alle truppe mercenarie («le spade vendute»), largamente impiegate nell’esercito austriaco. Mameli le considera “deboli come giunchi” («Son giunchi che piegano») dato che, combattendo solo per denaro, non sono valorose come i soldati e i patrioti che si sacrificano per la propria nazione.

Nella strofa si fa anche accenno all’Impero russo (nell’inno chiamato «il Cosacco»), che alla fine del Settecento, insieme all’Impero austriaco e al Regno di Prussia, partecipò alle tre spartizioni della Polonia. È quindi presente un richiamo a un altro popolo oppresso dagli austriaci, quello “placco”, che tra il febbraio e il marzo del 1846 fu oggetto di una violenta repressione ad opera dell’Austria e della Russia.

Con i versi «ah l’aquila d’Austria / le penne ha perdute; / il sangue d’Italia / bevé, col Cosacco / il sangue polacco: / ma il cuor le bruciò» Mameli intende quindi dire che il popolo italiano e quello polacco minano dall’interno l’Impero austriaco in decadenza, come conseguenza delle repressioni patite e per via dell’utilizzo dei mercenari. Il testo fa riferimento all’aquila bicipite, stemma imperiale asburgico. La quinta strofa, dai forti connotati politici, fu inizialmente censurata dal governo sabaudo per evitare attriti con l’Impero austriaco.

La sesta strofa

«Evviva l’Italia,
dal sonno s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la vittoria?!
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.»

La sesta ed ultima strofa, che non viene quasi mai eseguita, manca nell’autografo di Mameli che testimonia la stesura originaria del canto, mentre compare nel secondo autografo di Mameli e negli autografi della partitura di Novaro; è però omessa nelle prime edizioni a stampa del testo su foglio volante. La strofa preannuncia con gioia l’unità d’Italia («Evviva l’Italia, / dal sonno s’è desta») e prosegue chiudendo il canto con gli stessi sei versi che concludono la strofa iniziale («dell’elmo di Scipio, / s’è cinta la testa. / Dov’è la Vittoria?! / Le porga la chioma, / ché schiava di Roma / Iddio la creò»), conferendo così al carme una struttura circolare.

Interpretazioni critiche

Il testo è stato talvolta giudicato troppo retorico, di difficile interpretazione e a tratti aggressivo.

Per quanto riguarda la retorica e la violenza che a tratti traspare dalle parole di Mameli, secondo Tarquinio Maiorino, Giuseppe Marchetti Tricamo e Piero Giordana, che hanno redatto una “monografia” sull’argomento, va considerato il periodo storico in cui fu scritto: la metà del XIX secolo era caratterizzata da un modo di esprimersi differente da quello utilizzato in tempi più recenti. Inoltre, secondo lo storico Gilles Pécout, è anche opportuno osservare che, durante il secolo citato, il principale mezzo di risoluzione dei conflitti era la guerra.

Per quanto invece concerne la difficoltà nel cogliere il significato delle allusioni storiche e politiche contenute nel testo, giudicate tutt’altro che immediate, Michele Calabrese, nella sua monografia sull’argomento, riconosce all’inno un certo spessore intellettuale: tra la cospicua produzione patriottica del Risorgimento, secondo Calabrese, il Canto degli Italiani ha infatti un testo caratterizzato da un profondo significato storico e culturale. Alcuni “Revisionisti del Risorgimento” vedono invece, nel testo  riferimenti riconducibili alla “massoneria”.

Anche il richiamo all’antica Roma è stato foriero di critiche: molti hanno visto, nei versi di Mameli, un’allusione all’imperialismo. Gli studiosi dell’Istituto Mazziniano di Genova hanno però analizzato più accuratamente, su un testo preparato per i 150 anni del Canto degli Italiani, il pensiero di Mameli: il patriota genovese, con i suoi versi, non accenna alla Roma Imperiale, bensì alla Repubblica Romana, che si difese con coraggio dalle mire espansionistiche di Cartagine sulla penisola italiana.

La musica

Il componimento musicale di Novaro è scritto nella tonalità di “si bemolle maggiore“, sebbene adotti un tipico tempo di marcia (4/4) considerato una “cabaletta”! Ha un carattere orecchiabile e una facile linea melodica che semplificano la memoria e l’esecuzione.

Per contro, sul piano armonico e ritmico, la composizione presenta una maggiore complessità, che si evidenzia specialmente dalla battuta 31, con l’importante modulazione finale nel tono vicino di “mi bemolle maggiore”, e con la variazione “agogica” dall’ Allegro marziale, iniziale a un più movimentato Allegro mosso, che sfocia in un accelerando. Questa seconda caratteristica è ben riconoscibile soprattutto nelle più accreditate incisioni della partitura autografa e porta Iovino e Benedetti a negare recisamente che Il Canto degli Italiani sia una marcia.

Da un punto di vista musicale, il brano si divide in tre parti: l’introduzione, le strofe e il ritornello.

L’introduzione

L’introduzione è formata da dodici battute, contraddistinte da un ritmo dattilico che alterna una “croma” a due “semicrome”. Le prime otto battute presentano una successione armonica bipartita tra si bemolle maggiore e “sol minore”, alternati ai rispettivi accordi di dominante (fra maggiore e re maggiore settima). Questa sezione è solo strumentale. Le ultime quattro battute, introducendo il canto vero e proprio, tornano a si bemolle.

Le strofe e il ritornello

Nelle esecuzioni complete conformi alla partitura di Novaro, dopo ciascuna strofa viene ripetuta la prima strofa, cui segue il ritornello vero e proprio di quattro versi, cantato due volte; secondo altre interpretazioni e in altre esecuzioni, ciascuna strofa eseguita viene cantata due volte, con andamento differente.

La strofa attacca in si bemolle ed è caratterizzata dalla ripetizione della stessa unità melodica, replicata in vari e a differenti altezze. Ogni unità melodica corrisponde a un frammento del senario di Mameli, il cui ritmo enfatico entusiasmò Novaro, che lo musicò secondo il classico schema di dividere il verso in due parti («Fratelli / d’Italia / l’Italia / s’è desta»).

Si nota però anche una scelta insolita, poiché al ritmo “anacrusico” non corrisponde l’usuale salto di un intervallo giusto: al contrario, i versi «Fratelli / d’Italia» e «dell’elmo / di Scipio» recano ognuno, all’inizio, due note identiche (fa o re a seconda dei casi). Ciò indebolisce in parte l’accentazione della sillaba in battere a vantaggio di quella in levare, e produce uditivamente un effetto sincopato, contrastando la naturale successione breve-lunga del senario.

Sul tempo forte dell’unità melodica di base si esegue un gruppo diseguale di croma puntata e semicroma.

Diritti d’autore e di noleggio

I “diritti d’autore” sono già decaduti poiché l’opera è di “pubblico dominio” essendo i due autori morti da più di 70 anni. Novaro non chiese mai un compenso per la stampa della musica, ascrivendo il suo lavoro alla causa patriottica; a Giuseppe Magrini, che nel 1848 stampò la prima edizione della partitura del Canto degli Italiani, chiese solamente un certo numero di copie ad uso personale. Nel 1859, alla richiesta di Francesco Lucca di ristampare la partitura del canto con la sua casa editrice, Novaro dispose che il denaro fosse direttamente versato a favore di una sottoscrizione per Garibaldi.

Lo “Spartito” del Canto degli Italiani è invece di proprietà della casa editrice musicale Sonzogno che ha quindi la possibilità di realizzare le stampe ufficiali del brano.

Nel 2010, in seguito al clamore suscitato da una lettera inviata dal presidente del Consiglio Comunale di Messina, Giuseppe Previti all’attenzione del Presidente della Repubblica Italiana, che si riferiva al versamento di oltre 1.000 Euro richiesto alla Croce Rossa locale per un concerto di Capodanno la SIAE ha rinunciato alla riscossione diretta dei diritti di noleggio sugli spartiti musicali del Canto degli Italiani dovuti alla Sonzogno. Quest’ultima, possedendo gli spartiti, è infatti l’Editore musicale del brano!

Le incisioni più antiche

Il documento sonoro più antico conosciuto del Canto degli Italiani (disco a 78 giri per grammofono di 17 cm di diametro) è datato 1901 e venne inciso dalla Banda Municipale del Comune di Milano sotto la direzione del maestro Pio Nevi!

Una delle prime registrazioni di Fratelli d’Italia fu quella del 9 giugno 1915, che venne eseguita dal Cantante lirico e di musica napoletana Giuseppe Godono. L’etichetta per cui il brano venne inciso fu la Phonotype di Napoli.]Un’altra antica incisione pervenuta è quella della Banda del Grammofono, registrata a Londra per la casa discografica His Master’s Voice il 23 gennaio 1918.

La versione gospe

La cantautrice Elisa realizzò una versione “gospel” che avrebbe dovuto aprire le trasmissioni sportive RAI dedicate al Campionato mondiale di calcio del 2002. Questa versione, commissionata in precedenza dal Comitato organizzatore delle Olimpiadi invernali di Torino 2006 e già eseguita durante la Cerimonia di chiusura dei Giochi olimpici invernali precedenti, fu ritirata per le proteste di Maurizio Gasparri all’epoca Ministro delle Comunicazioni del 2do Governo Berlusconi.

A cura di Pier Luigi Cignoli – Foto Imagoeconomica

(fonti: Wikipedia)

Editorialista Pier Luigi Cignoli

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