Dopo una Bohème che ha suscitato molte emozioni e dopo una rara opera francese dai forti turbamenti e dai profondi contrasti come I dialoghi delle Carmelitane, prosegue con successo la stagione del Teatro Comunale di Bologna con Simon Boccanegra, melodramma verdiano bellissimo ma poco accattivante perché per poterne godere è necessaria una preparazione, una conoscenza preventiva, c’è bisogno di “un pubblico che voglia ascoltare” come notava già Verdi.
Verdi scrisse Simon Boccanegra per La Fenice di Venezia nel 1857 e fu un fiasco. Poi nel 1881, ventiquattro anni dopo!, alla Scala debuttò la seconda stesura revisionata con molti cambiamenti da Verdi con il validissimo aiuto di Arrigo Boito. E’ questa la versione che va in scena a Bologna.

Verdi non sceglie la via comoda e accondiscendente ai gusti del pubblico, ma la porta stretta della sperimentazione, dell’avanguardia teatrale e musicale: i lunghi e complessi recitativi e i declamati prevalgono sulle arie, che non sono poi neanche tanto orecchiabili, e una raffinata orchestrazione sinuosa e struggente che, ricca di colore, è capace di delineare paesaggi, stati d’animo, passioni profonde. E’ l’opera dell’amore paterno che perdona e protegge, del furore patriottico, della fatica di chi vuole costruire la pace, della superba e sprezzante alterigia dei patrizi contrapposta all’invidia bieca che anima il plebeo Paolo e lo trascina finanche al delitto pur di salire di classe.

Ottima la compagnia di canto in questa produzione bolognese. Segnaliamo l’unica voce femminile dell’opera (Amelia Grimaldi), che porta spiragli di luce e tepore nell’impianto dello spartito dominato dai colori scuri e gravi delle voci maschili, l’efficace soprano spagnolo Yolanda Auyanet, e il grande basso Michele Pertusi da Parma capace di dare accenti umanissimi all’altero aristocratico Fiesco, e il giovane tenore rumeno Stefan Pop dall’acuto facile e sicuro e dall’innegabile buon gusto nel cantare. Nel ruolo del protagonista si è onorevolmente presentato Dario Solari a cui forse manca ancora una maturazione d’interpretazione delle complesse corde che fanno vibrare l’anima e la voce di Simone. All’ucraino Andriy Yurkevych che dirigeva i complessi orchestrali bolognesi senza troppo vigore è mancata la capacità di avvolgere tutto l’insieme. La parte più debole dello spettacolo spetta alla regia di Giorgio Gallione, e alle scene di Guido Fiorato. Simon Boccanegra è un dramma tutto dialogo, tutto è narrato, l’azione si svolge altrove fuori scena e nel ricordo, ne consegue una staticità prolungata e banale se non si è estremamente rigorosi e puntuali nella recitazione. Qua i movimenti dei protagonisti appaiono minimi, ma convenzionali, privi di vita, per non parlare delle scene in cui il coro staziona senza alcuna originalità.

Le scene assolutamente scarne (non sono previsto neanche un tavolo e una sedia, d’obbligo secondo il libretto) alludono all’architettura genovese con le sue fasce bianche e nere date dall’ardesia e dal marmo e al tipico acciottolato. Il mare, onnipresente protagonista dell’opera verdiana, è evocato in modo assai semplice da un fondale cangiante e poco suggestivo. Belli i sipari che riproducono un’antica pianta quattrocentesca della città di Genova vista dal mare.

A cura di Silvia Camerini – Foto Rocco Casaluci

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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