La tragedia di Superga del Grande Torino

La mattina mi piace camminare quando ancora per strada circolano solo i mezzi dei netturbini, che mi salutano come si può salutare un collega a riposo. Ieri, scavalcando una staccionata per evitare di seguire la strada segnata, ho oltrepassato involontariamente un varco temporale che mi ha trasportato esattamente alle 6,06 del 24 aprile 1949, così mi disse un facchino che usciva di casa per recarsi ai mercati generali. La prima cosa che mi venne in mente da tifoso granata, sentendo quella data, fu la Tragedia di Superga che si sarebbe consumata esattamente nove giorni dopo, il 4 maggio alle 17,03.

Capii d’aver in mano l’occasione di poter cambiare il corso della storia, evitando il disastro aereo ma avevo solo una settimana di tempo per impedire alla squadra di partire per Lisbona. Riuscii a raggiungere Bologna salendo su di un carro agricolo che percorreva la via Emilia a un’andatura da crociera poi, con il classico cartello al collo con su scritto la mia meta, chiesi un passaggio ai camionisti che transitavano e dopo circa mezz’ora, si fermò Alfio un uomo sui cinquanta dal tipico accento torinese al volante di un vecchio Fiat 666N7 a nafta che, impietosito ma anche incuriosito dall’abbigliamento e dall’aspetto estremamente diverso da quello che era solito incontrare lungo il cammino, mi fece salire. Dalle pareti della cabina notai subito che le uniche foto che aveva appese, non appartenevano a pin-up in due pezzi o a partecipanti al concorso di Miss Italia, ma a giocatori del Torino ritagliate da vecchi quotidiani.

Mi raccontò che aveva chiamato il suo primogenito e anche il camion con il quale viaggiava ogni giorno con il nome di Capitan Mazzola. I suoi racconti mi aprirono il cuore ma al contempo mi ricordarono quale era la mia missione quasi impossibile. Mi addormentai dopo meno di un’ora dalla partenza, risvegliandomi in pieno giorno a Torino, sul ponte Bologna mentre la Dora Riparia scorreva come la vita, in una sola direzione e senza pietà. Per sdebitarmi, gli regalai una felpa con cappuccio personalizzata da una frase che ho fatto mia da almeno trent’anni carpita da una serie televisiva cult inglese dal titolo The Prisoner: “I am not a number, I am a free man!”, che guardava incuriosito da quando mi vide salire sul camion. La partenza del “Grande Torino” per disputare l’amichevole contro il Benfica a Lisbona, era prevista per domenica, 1° maggio.

L’unica carta che avevo da giocarmi era quella legata alla Festa dei Lavoratori. Cercai di far leva su quelli che all’epoca venivano chiamati lavoratori del braccio e della mente e mi fiondai in piazza, spacciandomi per un dirigente sindacale dell’area romagnola inviato con l’obiettivo di impedire la partenza del Torino nel giorno della festa dei lavoratori. Li convinsi che questo sciopero degli addetti aeroportuali era sacrosanto e che il fatto che la squadra di calcio più famosa d’Italia sarebbe rimasta a terra, solidale con chi lottava contro la fame, la miseria e la disoccupazione, avrebbe fatto notizia. “Se i campi sono deserti, gli uffici e le officine sono chiuse, le macchine sono spente, anche gli aerei devono riposare.” Per mia fortuna, riuscivo ancora a correre, sulla distanza di almeno 800 mt, a gambe levate così da evitare che mi venisse polverizzato il sedere a pedate. Alle 7.00 in punto, come ogni giorno che ha fatto il Signore, la sveglia mi fece balzare giù dal letto di scatto, con la rapidità e l’elasticità di un gatto quando sente riempiersi la sua ciotola.

A cura di Marco Benazzi – Foto Repertorio

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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