Piero Calamandrei, nacque a Firenze il 21 aprile del 1889 e morì nella sua città natale il 27 settembre del 1956. Lo ricordiamo quale politico, giurista, avvocato, scrittore e “fondatore” del Partito d’Azione.
Figlio di Rodolfo Calamandrei, professore universitario di sentimenti mazziniani e Deputato repubblicano per un breve periodo agli inizi del ‘900, e di Laudomia Pimpinelli, dopo aver ottenuto la maturità classica presso il Liceo Michelangiolo di Firenze, fu allievo del giurista Carlo Lessona e si laureò in giurisprudenza all’Università di Pisa nel 1912. Si trasferì quindi a Roma dove dal dicembre 1914 iniziò a frequentare Giuseppe Chiovenda e partecipò a vari concorsi universitari finché nel 1915 fu nominato Professore di “procedura civile” all’Università di Messina.
Prese parte alla 1ma guerra mondiale, quale volontario, con il grado di sottotenente di complemento nel 218º reggimento di fanteria. Ne uscì col grado di Capitano, e si congedò dal Regio esercito nel ’19 per proseguire la propria carriera accademica.
Nel 1918 fu chiamato prima all’Università di Modena e poi a quella di Siena diventandone ordinario nel 1919 in seguito alla morte di Lessona. Infine, nel 1924, scelse di passare alla nuova facoltà giuridica di Firenze, dove tenne fino alla morte la cattedra di diritto processuale civile.
Quando nel 1924 fu istituita la Commissione per la riforma dei codici, Calamandrei fu inserito nella sottocommissione incaricata di riformare il “Codice di procedura penale” ma la Commissione terminò il proprio compito nel 1926 e le proposte rimasero sulla carta.
Partecipò, insieme a Vannucci, Rossi e ai fratelli Rosselli alla formazione di “Italia Libera”, un gruppo clandestino di ispirazione repubblicana e antifascista.
Dopo il “Delitto Matteotti” entrò a far parte del movimento “Unione Nazionale, un partito liberale e antifascista fondato da Giovanni Amendola, entrando nel consiglio direttivo. Nel 1925 sottoscrisse il “Manifesto degli intellettuali antifascisti” di Benedetto Croce.
Durante il ventennio fascista fu uno dei pochissimi professori e avvocati a non chiedere la tessera del Partito Nazionale Fascista e collaborò con la testata “Non Mollare”.
Nel 1931, per mantenere la cattedra universitaria, giurò fedeltà al Regime Fascista e firmò perché considerava l’insegnamento “il suo posto di combattimento”, ma quella sottomissione gli costerà “l’animo straziato”.
Negli anni seguenti vi furono altri tentativi da parte dei ministri Pietro De Francisi prima e del nuovo Ministro Arrigo Solmi di riformare i codici ma non ebbero sviluppo pratico.
Nel 1939 divenne Ministro di Grazia e Giustizia il bolognese Dino Grandi che riprese in mano l’idea di riformare i codici. Grandi affidò subito l’incarico al magistrato Leopoldo Conforti e decise inoltre di coinvolgere in maniera diretta i più importanti studiosi di procedura civile dell’epoca che erano Redenti, Carnelutti e Calamandrei.
Nel corso del 1940 Grandi, nel frattempo diventato Presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, decise di privilegiare il rapporto con lo stesso Calamandrei che infatti convocò il 26 aprile 1940. In questa occasione, come lo stesso Calamandrei annotò sul proprio diario, Grandi gli riferì di un colloquio avuto con Mussolini in cui gli aveva detto che dei tre giuristi coinvolti nel progetto “il più fascista è il non fascista Calamandrei”, che perplesso domandò: “Tutto sta a vedere che significato Lei dà alla parola fascista”, ma Grandi lo tranquillizzò replicando “In senso buono” allora Calamandrei rispose: “Allora me ne compiaccio”[
All’inizio della seconda guerra mondiale Calamandrei fu richiamato al fronte ma ottenne una dispensa per intervento di Grandi che lo aveva incaricato nel frattempo di svolgere l’ultima revisione del Codice di procedura civile.
Nella relazione preparata per il Re, Calamandrei indicò come propria fonte di ispirazione il giurista Giuseppe Chiovenda. (La tesi secondo la quale il codice di procedura civile sarebbe stato un codice “chiovendiano” riuscì a influenzare tutta la dottrina successiva, fino ai giorni nostri. Tant’è che la “novella” con cui nel 1950 il codice fu in parte allineato su principi del testo previgente fu accolta dai processualisti vicini a Calamandrei come una vera e propria “controriforma”. In realtà alle modifiche introdotte nel 1950 contribuì lo stesso Calamandrei,)
Il nuovo Codice di procedure civile fu promulgato il 28 ottobre 1940 ed entrò definitivamente in vigore il 21 aprile 1942. Per il proprio lavoro subito dopo la promulgazione del codice Calamandrei fu decorato dallo stesso ministro Grandi con le insegne di Cavaliere di Gran Croce.
Il codice di procedura civile emanato nel 1942 è in parte ancora in vigore in Italia.
Nel 1941 il “Centro di studi giuridici” lo coinvolse nel progetto di pubblicare cinque volumi sul pensiero giuridico italiano e il suo intervento intitolato “Gli studi di diritto processuale civile in Italia nel Ventennio fascista” fu inserito nel primo volume della collana.
Calamandrei partecipò anche ai lavori preparatori per il nuovo Codice civile di cui partecipò attivamente alla stesura del VI libro.
Si dimise da Professore universitario per non sottoscrivere una lettera di sottomissione al Duce che gli venne chiesta dal rettore del tempo.
Ricordiamo una sua storica frase: ““La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”
Nel 1941, contrario all’ingresso dell’Italia nella 2da guerra mondiale a fianco della Germania, aderì al movimento “Giustizia e Libertà” e un anno dopo fu tra i fondatori del “Parttito d’Azione” insieme a Ferruccio Parri e Ugo La Malfa In questo periodo (1939-1945) tenne un diario, pubblicato nel 1982.
Nel maggio 1943 Calamandrei – accusato di “disfattismo” da un suo collega appena rientrato dal fronte – fu convocato in questura per un interrogatorio in cui negò gli addebiti e interessò del fatto il nuovo ministro di Grazia e Giustizia Alfredo De Marsico, che gli garantì protezione, così come fece Arrigo Serpieri, rettore dell’Università di Firenze, che il 17 maggio inviò anch’esso una lettera al Ministero dell’Educazione Nazionale, invitando il Ministro a non prendere decisioni affrettate nel caso relativo a Calamandrei.
Il 31 agosto 1943, subito dopo la caduta del Fascismo, fu nominato Rettore dell’Università di Firenze, ma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 precauzionalmente lasciò Firenze, trasferendosi prima a Treggiaia e successivamente dimettendosi da Rettore il 2 ottobre. In seguito si trasferì a Collicello Umbro dove rimase fino alla “liberazione di Roma” nel giugno 1944. Nel frattempo fu colpito da mandato di cattura da parte delle autorità della Repubblica Sociale Italiana.
Ricordiamo che suo figlio Franco fu un partigiano attivo durante questo periodo, nel Partito Comunista Italiano.
Dopo la liberazione di Firenze ritornò nella sua città nell’agosto 1944 e riprese nel settembre successivo ad esercitare il suo ruolo di “Rettore” dell’Università fino al 1947. Calamandrei fu inoltre autore di numerose poesie ed epigrafi celebrative del mito della resistenza.
Nel giugno 1946 venne eletto all’Assemblea Costituente per il Partito d’AzioneAssemblea Costituente per il Partito d’Azione e partecipò attivamente ai lavori parlamentari come componente della Giunta delle elezioni, della commissione d’inchiesta e della “Commissione per la Costituzione (detta “dei 75”).
I suoi interventi nei dibattiti dell’Assemblea ebbero larga risonanza: specialmente i suoi discorsi sul piano generale della Costituzione, sui Patti lateranensi, sull’indissolubilità del matrimonio e sul potere giudiziario.
Calamandrei propose una “Repubblica Presidenziale” con “pesi e contrappesi”, come negli USA o un sistema di “premierato” sul modello britannico per evitare la debolezza dei governi, come si verificò poi puntualmente durante la storia della Repubblica e, allo stesso tempo, impedire la deriva autoritaria insita sia nel troppo potere, sia nel disordine delle istituzioni. Ricordiamo che fu suo il giudizio sulla Costituzione “tripartitica”, “di compromesso”, nella quale le forze di destra per compensare quelle di sinistra per “una rivoluzione mancata” concessero loro “una rivoluzione promessa. Nonostante ciò, difese sempre la Repubblica parlamentare e la Costituzione, così come erano uscite dal dibattito democratico nella costituente.
Nel 1948,quando il Partito d’Azione si sciolse, fu eletto Deputato alla Camera.
Nel 1949 l’Unione dei Socialisti confluì nel Partito Socialista Unitario, il quale nel 1951 si fuse con il PSLI dando vita al Partito Socialista Democratico Italiano.
Definito da “The Economist” come the most impressive private member in the House, fu contrario alla “Legge truffa”: quando fu votata anche con l’appoggio del PSDI, fondò dapprima il movimento politico Autonomia Socialista e nel 1953 prese parte alla fondazione del movimento di “Unità Popolare” con il vecchio amico Ferruccio Parri ma nonostante l’esiguo risultato ottenuto alle elezioni di quell’anno, ciò fu decisivo affinché la Democrazia Cristiana e i partiti suoi alleati non raggiungessero la percentuale di voti richiesta dalla nuova legge per far scattare il premio di maggioranza.
Avvocato di fama, fu presidente del Consiglio Nazionale Forense dal 1946 alla morte.
Accademico dei Lincei, direttore dell’Istituto di diritto processuale comparato dell’Università di Firenze, fu direttore della Rivista di diritto processuale, de Il Foro Toscano e del Commentario sistematico della Costituzione italiana. Collaborò inoltre con la rivista Belfagor.
Il 26 gennaio 1955 tenne a Milano un famoso discorso presso la Società Umanitaria, rivolto ad alcuni studenti universitari e delle scuole medie superiori – che avevano autonomamente organizzato un ciclo di conferenze sulla Costituzione italiana, nonostante la contrarietà delle loro scuole e anche la contestazione fisica di altri studenti organizzati dalla destra – verteva sui principi della Costituzione Italiana e della libertà.
Il discorso era animato da un’ispirazione risorgimentale ed il suo finale è rimasto celebre:
“Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione”
Nello stesso periodo compì anche un viaggio in Cina, con altri giuristi ed esponenti socialdemocratici e liberalsocialisti, tra cui Norberto Bobbio.
Nel febbraio del 1956, l’attivista e sociologo Danilo Dolci organizzò a Trappeto lo “sciopero alla rovescia” per opporsi pacificamente alla cronica mancanza di lavoro per i braccianti siciliani del tempo, organizzando la sistemazione di una strada comunale abbandonata all’incuria. Durante i lavori di sterramento e assestamento la manifestazione venne repressa da una carica della Polizia. Dolci venne arrestato e fu Calamandrei a difenderlo in un seguitissimo processo. In accordo con Dolci, Calamandrei incanalò il processo in un dibattito sul quarto articolo della Costituzione. Nella sua arringa dichiarò: “Aiutateci, signori giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi a difendere questa Costituzione, che vuole dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia e pari dignità“.
Morì a Firenze qualche mese dopo, il 27 settembre 1956, a 67 anni, per le complicazioni di un intervento chirurgico. È sepolto nel Cimitero fiorentino di Trespiano.
A cura di Pier Luigi Cignoli – Foto Repertorio