Carissimo padre,
ti scrivo, e lo faccio come se tu fossi ancora al mio fianco, tu che sei l’uomo che più ho amato, nel bene e nel male, nella mia vita!
Tu eri avvolto dall’enigma di tutti i “tiranni”, il cui diritto è fondato sulla loro persona e non sul pensiero.
Almeno così mi sembrava, quando, ancora piccola bimba, mi confrontavo con la tua severità, con le tue regole, quelle che poi negli anni adulti ho scoperto essere alla base di ogni dignità.

Ti eri fatto strada unicamente con le tue forze, e avevi quindi una fiducia illimitata nelle tue opinioni.
Per me bambina, questo fatto non fu così accecante come in seguito, quando fui adolescente.
Dalla tua poltrona, alla domenica, quando ti sedevi per leggere il giornale, mi apparivi come un padre che governava il mondo.
Quello della nostra famiglia, della nostra piccola, semplice casa, mentre la mamma, nelle domeniche di festa si preparava ad impanare le cotolette di pollo con l’insalata, di cui entrambi andavamo matti.

La tua opinione non poteva essere messa in discussione, e la tua fiducia in te stesso era tale che non avevi neppure bisogno di essere coerente, senza per questo smettere di avere ragione.
Tutto quello che pensavo, era soggetto alla tua pesante pressione, e nell’adolescenza, per me che già nutrivo un carattere ribelle, spesso tutto ciò mi appariva minaccioso e crudele.
Ma così è stata tutta la tua educazione: possedevi un talento educativo che sicuramente era utile per coloro che organizzavi, che ti seguivano, e con cui eri alla pari, ma per me bambina tutto quello che mi gridavi era un ordine del cielo, non lo dimenticavo mai, rimaneva dentro di me, affiorava quale strumento per interpretare il mondo, e soprattutto per giudicare te stesso, e qui fallivi completamente.

Ti ricordi, anche a tavola, durante i pasti, le tue lezioni erano scandite da come ci si comporta a tavola, quello che doveva essere mangiato, sulla bonta’ del cibo non si discuteva, gli ossi non andavano rosicchiati, ma tu lo facevi.
Fu cosi’, che crescendo, il mondo mi risulto’ diviso in due parti, uno in cui vivevo io, e l’altro in cui vivevi tu, e in questo immenso mare fioriva la mia sensibilita’, la mia voglia di essere forte, e capace per tenerti testa.
E cosi è stato: dalle imperfezioni, dal dolore nascono sempre delle cose, l’impossibilita’ di un rapporto tranquillo mi ha fatto diventare una donna complessa, critica, ma anche forgiata della dignità, che e’ l’insegnamento più prezioso che io ho ricevuto da te.

Volevi per me, donna, quello che tu non eri riuscito ad avere, ed è per questo che io sono cresciuta come un uomo, indirizzata allo studio, al lavoro, perchè come dicevi tu, quando la mamma diceva… ”ma è una donna”…, facendo immaginare che prima o poi una donna incontra qualcuno che la sposa, tu prontamente le rispondevi , redarguendola, in quel magnifico dialetto romagnolo che ho sempre capito, ma che non sono mai riuscita a parlare… “in t’la vita un sa mai” (nella vita non si sa mai).
Quanta ragione avevi, ed io ho studiato, ho amato le mie scelte, ho lavorato con la passione che tu mi avevi trasmesso, e quando sono diventata madre, ho voluto essere “ tutto”.

Esattamente come avevi fatto tu!
Ed e’ per questo che ti scrivo, ed è per questo che ti voglio dire, che solo, da madre, ho imparato a commuovermi quando ridevi, perche’ ridevi, sì, con tutto te stesso, eri commovente quando camminavi e correvi stanco nel prato, per rincorrere Federica, quando andavi a scuola a prenderla, perchì lei era per te tutta la tua vita.
E’ stato solo in quegli anni che Dio mi ha concesso di scoprire l’uomo che eri, e non solo il padre autoritario, severo, irraggiungibile, che avevo conosciuto.
Ma la parte piu’ importante doveva ancora accadere.

Quando ti sei ammalato, ci siamo fatti il regalo più grande che possa esistere nella vita.
Nè io nè tu ci eravamo mai detti con la bocca “ti voglio bene”, tu per riservatezza, e per una errata convenzione educativa con cui sempre le relazioni genitoriali devono fare i conti, io, perchè orgogliosa a modo mio di essere differente da te.
Senza quel regalo la mia vita sarebbe stata inutile, piena di rimpianti, senza la tua mano stretta tra le mie, in quel letto d’ospedale, non avrei piu’ visto nascere nessun fiore nel mio cuore.

Io sono grata a Dio per questa cosa, e questa lettera è per me una preghiera, per te, che sei volato via nella calura estiva di una notte, in un ferragosto senza stelle.
Di te ricordo gli occhi scuri venati di dolcezza, simili al cielo notturno senza luna, attenti e lucidi, che si ergevano ormai immobili sopra i nostri reciproci sguardi, ghermiti dai feroci artigli della malattia che t’ha indebolito lentamente, come un fiore d’inverno.

Io voglio ricordarti come un “tiranno dolce”, con il sorriso, un sorriso di bambino che amava giocare con la sua nipotina, che era il dono più grande che avevo potuto offrirti.

Io voglio portarti in testa così, caro papà, ed ora, che anche noi viviamo tempi duri, insegnami una strada, perchè nella vita “l’amore è tutto”!

A cura di Sandra Vezzani editorialista – Foto Redazione

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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