Ero davanti alla tv, nella serata di quel 3 settembre di trent’anni fa, quando arrivò la notizia che Gaetano Scirea, ex capitano ed allenatore in seconda della Juventus, era morto in Polonia, a seguito di un incidente stradale, mentre tornava dall’aver seguito il prossimo avversario dei bianconeri in Coppa Uefa.

Non sono mai stato tifoso juventino, ma Scirea era un’altra cosa, un calciatore ed una persona da rispettare innanzi tutto, davanti a tutto, al di là del tifo, perché la sua correttezza in ciò che faceva e diceva, lo mettevano al di sopra anche della rivalità calcistica; lui e Dino Zoff, di cui era il primo collaboratore nell’allora staff tecnico bianconero, facevano parte di un mondo che poco aveva a che fare con il calcio che già allora brulicava di tronfi ipocriti, bulli solo grazie alla maglia che vestivano e dentro la quale potevano esprimere l’arroganza consentita dal senso di immunità che dava “Casa Reale”.

Scirea no, lui era il sogno di qualunque tifoso amasse davvero il calcio, perché qualunque maglia gli sarebbe andata a pennello, addosso, ed ovunque sarebbe stato simbolo in campo e fuori; Gaetano era uno che diceva una parola e faceva mille fatti, un capitano vero, altro che quelli in maschera di oggi, che al massimo potrebbero fare i caporali e per ogni pensiero sparano mille ca…te (e non solo nel calcio).
E’ mancato e manca tanto uno come Scirea, che probabilmente non avrebbe potuto contrastare la deriva del calcio e del mondo in generale, ma avrebbe certamente contribuito con l’esempio, in prima persona e con i fatti a ridurne le dimensioni.

Ero davanti alla tv, la sera di quel 3 settembre ed ho sentito una stretta al cuore all’annuncio della morte di Scirea, perché non se ne andava un nemico, uno da odiare per il colore della maglia, ma una persona ammirata e da ammirare, da prendere ad esempio, uno per cui tifavi al di sopra di tutto.

Il Direttore responsabile Maurizio Vigliani – Foto Vittorio Calbucci

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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