FRAMMENTI DI CULTURA – LE FOSSE ARDEATINE
Roma, 24 marzo 1944 – 24 marzo 2024 “ottanta anni di storia”
Ho ritenuto opportuno e doveroso proporre in questa domenica il “ricordo” della strage delle “Fosse Ardeatine” perpetrata dai Tedeschi a danno degli Italiani, un fatto “ignobile e vergognoso” che non sarà mai cancellato né nel nostro cuore né nella “Storia”!

L’eccidio delle Fosse Ardeatine fu l’uccisione di 335 civili e militari italiani, prigionieri politici, ebrei o detenuti comuni, trucidati a Roma il 24 marzo 1944 dalle truppe di occupazione tedesche come “rappresaglia per l’attentato partigiano di Via Rasella”, compiuto il 23 marzo da membri dei GAP romani, in cui erano rimasti uccisi 33 soldati del Reggimento Bozen appartenente alla “Ordnungspolizei”, la polizia tedesca. L’eccidio non fu preceduto da alcun preavviso da parte tedesca

Per la sua efferatezza, l’alto numero di vittime e per le tragiche circostanze che portarono al suo compimento, l’eccidio delle Fosse Ardeatine divenne l’evento-simbolo della durezza dell’occupazione tedesca di Roma. Fu anche la maggiore strage di ebrei compiuta sul territorio italiano durante l’Olocausto; almeno 75 delle vittime erano in stato di arresto per motivi razziali.

Le Fosse Ardeatine, antiche cave di “pozzolana” situate nei pressi della Via Ardeatina, scelte quale luogo dell’esecuzione e per occultare i cadaveri degli uccisi, nel dopoguerra sono state trasformate in un sacrario-monumento nazionale. Sono oggi visitabili e sono luogo di cerimonie pubbliche in memoria.

Ricordiamo che il 12 settembre i tedeschi assunsero il controllo effettivo della città, che era stata dichiarata “città aperta” dal Governo italiano il 14 agosto precedente. Fin dai primi giorni dell’occupazione tedesca di Roma si costituirono nella capitale gruppi di resistenza, in particolar modo il “Fronte militare clandestino (“Centro X”), diretto dal colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, e nuclei comunisti, ai quali il generale Carboni aveva fatto distribuire armi sin dal 10 settembre.

Sottoposta pro forma alla sovranità della RSI, mantenendo lo status di “città aperta”, Roma era in realtà governata di fatto solo dai comandi germanici e lo divenne anche formalmente dopo lo “sbarco di Anzio”, il 22 gennaio 1944, quando l’intera provincia romana venne dichiarata “zona di operazioni”. 

Il Feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante tedesco del fronte meridionale, nominò capo della “Gestapo” di Roma, conferendogli direttamente il controllo dell’ordine pubblico in città, l’ufficiale delle SS Herbert Kappler, già resosi protagonista della razzia del “ghetto ebraico” e della successiva deportazione, il 16 ottobre 1943, di 1.023 Ebrei romani verso i campi di stermino.

La campagna del terrore avviata da Kappler, con frequenti rastrellamenti ed arresti di antifascisti e semplici sospetti nelle varie carceri romane (fra cui il più tristemente famoso fu quello di Via Tasso), sgominò nell’inverno 1943-44 quasi ogni gruppo della Resistenza romana, che si ritrovò a perdere prima gli elementi militari, quindi quelli comunisti dissidenti di “Bandiera Rossa”. Anche gli aderenti a “Giustizia e Libertà” e al Partito Socialista e i sindacalisti socialisti, come Bruno Buozzi, subirono forti decimazioni negli arresti compiuti dalle varie forze di polizie tedesche, dalla polizia italiana fascista e dalle bande italiane sotto controllo germanico. Solo i GAP comunisti riuscirono a mantenere una buona efficienza operativa.

Il fatto che Roma venisse a trovarsi nelle immediate retrovie del fronte ingenerò la convinzione che la città fosse pienamente teatro di guerra. È in questo contesto che i quadri comunisti della “Resistenza romana” giunsero alla determinazione di reagire con le armi e di attaccare militarmente l’occupante con un’azione che avesse un forte valore simbolico: venne infatti scelto come data il 23 marzo, anniversario della fondazione dei  “Fasci di combattimento“.

l 23 marzo 1944 ebbe luogo un’azione di guerra partigiana contro l’11ª compagnia del III battaglione del “Polizeiregiment Bozen” in Via Rassella per iniziativa di “Partigiani” dei Gruppi di Azione Patriottica delle Brigate Garibaldi che ufficialmente dipendevano dalla Giunta militare che era emanazione del “Comitato di Liberazione Nazionale”.

Tale reparto fu segnalato come bersaglio da Mario Fiorentini – nome di battaglia Giovanni – poiché abitava nei pressi di via Rasella e da casa sua vedeva “passare ogni pomeriggio” i militari “in pieno assetto di guerra”. Giorgio Amendola, responsabile principale dei GAP, indicò le direttive, ma lasciò quindi al comando partigiano “assoluta libertà d’iniziativa”, non per eventuali responsabilità dei soldati che vi appartenevano. Il “Bozen” era costituito da soldati addestrati e venne descritto dallo stesso Amendola come un “battaglione di gendarmeria” che transitava in via Rasella “in pieno assetto da guerra”.

L’operazione fu portata a termine da 12 partigiani. Fu utilizzata una bomba a miccia ad alto potenziale, collocata in un carrettino per la spazzatura urbana, confezionata con 18 kg di esplosivo misto a spezzoni di ferro; dopo l’esplosione furono lanciate alcune bombe a mano dai tetti delle case per ingannare e “onde dare l’impressione che le bombe occorse per l’attentato alla colonna erano partite dall’alto” dei palazzi (in cui vennero eseguiti i primi 100 arresti di cittadini ignari). Rimasero uccisi 32 militari dell’11ª Compagnia del III Battaglione del “Polizeiregiment Bozen” e un altro soldato morì il giorno successivo. L’esplosione uccise anche due civili italiani, Antonio Chiaretti, partigiano della formazione Bandiera Rossa ed il tredicenne Piero Zuccheretti.

La prima alta autorità ad arrivare in via Rasella dopo l’attentato fu il questore Pietro Caruso; subito dopo giunse il generale Kurt Mälzer, comandante della piazza di Roma, che apparve sconvolto dall’evento, diede in escandescenze e proclamò subito la volontà di procedere alla “vendetta per i miei poverikameraden“. Il generale parlò di distruggere tutto il quartiere e di eliminare gli abitanti; il consigliere d’ambasciata Moellhausen e il colonnello Kappler arrivarono poco dopo e cercarono di calmare il generale Mälzer; il colonnello assicurò che avrebbe svolto un’inchiesta immediata per appurare modalità e responsabili dell’attacco.

Il colonnello Eugen Dollmann, presente sul posto, affermò che subito si parlò di rappresaglia. Il generale Mälzer avvertì anche immediatamente il comando supremo tedesco in Italia, ma non riuscì a parlare con il feldmaresciallo Kesselring, che si era recato nella testa di ponte di Anzio; fu quindi il capo ufficio operazioni, colonnello Dietrich Beelitz, che telefonò al quartier generale di Rastenburg. Adolf Hitler venne avvertito nel primo pomeriggio e dispose una rappresaglia immediata “che avrebbe fatto tremare il mondo”. La decisione di compiere la rappresaglia fu presa durante una conversazione telefonica tra il generale Mälzer, il colonnello Kappler e il generale Eberhard von Mackensen, Comandante della 14ª Armata e responsabile della zona di guerra della testa di ponte di Anzio, che ritenne, dopo essersi consultato con il colonnello Kappler, che fosse sufficiente fucilare dieci italiani per ogni tedesco morto in via Rasella; inoltre il generale stabilì che le vittime della rappresaglia avrebbero dovuto essere i cosiddettiTodeskandidaten  – persone da eliminare -,ovvero i prigionieri detenuti a Roma già condannati a morte o all’ergastolo e quelli colpevoli di atti che avrebbero probabilmente portato a una condanna a morte.

La decisione finale venne presa in serata, dopo il ritorno del feldmaresciallo Kesselring al suo posto di comando che affermò che riteneva appropriato “compiere un’azione intimidatoria”, ovvero di uccidere dieci italiani per ogni caduto tedesco in via Rasella e concluse, dopo avene reso edotto il Generale von Mackensen di procedere alla rappresaglia dieci contro uno con “esecuzione immediata“.

Si ricorda che il Feldmaresciallo Kesselring in persona dichiarò nella sua testimonianza al processo nel novembre 1946 che non fu attivata alcuna procedura precedente la rappresaglia per fare appello alla popolazione o agli attentatori, che non venne emesso alcun avvertimento pubblico riguardo alla rappresaglia e alla proporzione dieci contro uno e che non fu presentata alcuna richiesta ai partigiani di consegnarsi per evitare l’eccidio. Principale preoccupazione delle autorità tedesche a Roma fu la necessità di eseguire con la massima rapidità, entro 24 ore, e nella segretezza la rappresaglia, e la difficoltà di individuare nel poco tempo a disposizione l’elevato numero di Todeskandidaten richiesto dalla proporzione stabilita dal feldmaresciallo Kesselring e dal generale von Mackensen.

Il generale Mälzer, ancor prima della decisione definitiva del feldmaresciallo Kesselring, aveva incaricato il colonnello Herbert Kappler di individuare la lista dei prigionieri italiani da eliminare; essendo morti fino a quel momento ventotto soldati tedeschi a via Rasella, il capo della Gestapo a Roma iniziò a raccogliere i nomi di 280Todeskandidaten. Il colonnello Kappler era consapevole della difficoltà di individuare in brevissimo tempo un numero così elevato di persone; nelle prigioni di Via Tasso e Regina Coeli egli disponeva di circa 290 prigionieri tra uomini e donne, ma una parte non rientravano tra i già condannati a morte o tra i colpevoli di reati passibili di condanna a morte; inoltre le donne vennero subito escluse dalla rappresaglia pur non essendoci certezza che questa decisione fu, poi, rispettata nella metodica e frettolosa carneficina. Il colonnello Kappler decise di richiedere la collaborazione del Questore Caruso che, dopo un incontro e alcune discussioni, promise di fornire una lista di cinquanta prigionieri da inserire nell’elenco dei Todeskandidaten.

Il colonnello Kappler prese in considerazione la possibilità di includere nell’elenco anche i 75 Ebrei imprigionati in attesa di essere deportati; egli si consultò con il suo superiore diretto, il generale W. Harster, comandante in capo della Polizia tedesca in Italia con comando a Verona, che apparentemente sollecitò il suo subordinato a completare la lista a tutti i costi, includendo anche “tutti gli ebrei di cui avete bisogno“. Il colonnello Kappler ottenne anche l’approvazione al suo operato del giudice generale del Tribunale militare tedesco a Roma, Hans Keller, che ritenne sulla base della legge tedesca di autodifesa che la proporzione della rappresaglia fosse appropriata. Il colonnello quindi attivò i suoi ufficiali, illustrò le decisioni delle autorità superiori e diede inizio alla frenetica individuazione dei nomi da inserire nell’elenco; il lavoro degli ufficiali della sezione della Gestapo di Roma, diretto personalmente dal colonnello Kappler e dal suo aiutante principale, capitano Erich Priebke, durò tutta la notte.

Il lavoro degli uomini del colonnello Kappler divenne ancor più difficile dopo la notizia, arrivata nel corso della notte, che il numero dei soldati tedeschi morti in via Rasella era salito a trentadue; diveniva quindi indispensabile, per mantenere la proporzione stabilita per la rappresaglia, individuare 320 italiani da condannare a morte. Dalla ricerca iniziale emerse che i condannati a morte presenti nelle carceri della Gestapo erano solo tre, membri della Resistenza comunista e azionista, mentre gli uomini candidabili sulla base di accuse per reati passibili di condanna a morte risultarono sedici. Il colonnello Kappler incluse subito anche i 75 ebrei, ai quali aggiunse i nomi di altri otto antifascisti di religione ebraica; dopo essersi recato alla caserma del Viminale, l’ufficiale individuò altri dieci nomi, tra cui i fratelli Umberto ed Angelo Pignotti, il loro cugino, figlio di una sorella del loro padre, Antonio Prosperi, nonché il cognato di Angelo, Fulvio Mastrangeli, ritenuti dalle autorità di polizia italiane “noti comunisti”, compresi tra le persone rastrellate sommariamente in via Rasella dopo l’attentato.

Nella notte la ricerca di altriTodeskandidaten continuò sempre più frenetica; il capitano Priebke ha descritto come con il passare delle ore si procedette ad un nuovo controllo degli elenchi dei detenuti ed all’inserimento nella lista di uomini arrestati in attesa di giudizio per “oltraggio alle truppe tedesche“, per possesso di “armi da fuoco o esplosivi” o perché presunti capi di “movimenti clandestini”. Il colonnello Kappler decise a questo punto di comprendere tra i condannati Aldo Finzi , ebreo con un importante passato di amicizia e collaborazione con Mussolini, e soprattutto il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, l’abile capo del Fronte militare clandestino dell’esercito, e altri 37 militari italiani, tra cui tre generali e tre ufficiali dei carabinieri, compresi due capitani che avevano arrestato il Duce il 25 luglio 1943.

Alle ore 3 del mattino del 24 marzo il colonnello Kappler, dopo aver aggiunto alla lista il sacerdote accusato di “attività comuniste” don Pietro Pappagallo, il partigiano Marcello Bucchi e il professore di liceo accusato di “antifascismo” Paolo Petrucci, ritenne, contando sui 50 nomi promessi dal questore Caruso, di aver raggiunto finalmente il numero di 320 condannati a morte previsti dalla rappresaglia.

Alle ore 8 del mattino, tuttavia, il questore Caruso non aveva ancora pronto il suo elenco; egli si era recato a conferire con il Ministro degli interni del “Regime di Salò”, Guido Buffarini Guidi, per richiedere istruzioni e la sua approvazione alla compilazione della lista; il Ministro si mostrò poco interessato a prendere responsabilità dirette e si limitò ad affermare che era inevitabile dare i nomi, “altrimenti chissà cosa potrebbe succedere. Sì, sì, dateglieli!

Alle ore 9.45 Caruso ebbe un incontro burrascoso in via Tasso con il colonnello Kappler, che pretese la lista dei 50 nomi; al colloquio era presente anche Pietro Koch, Capo della squadra speciale della polizia fascista di Roma, che stava già preparando un suo elenco di persone da condannare alla rappresaglia. Caruso apparve poco collaborativo; affermò di non avere molti prigionieri e diede solo il nome di un medico condannato a morte per mercato nero; egli quindi si allontanò seguito da Koch, che invece garantì al colonnello che la lista con i 50 nomi sarebbe stata pronta entro le ore 14.

Il colonnello Kappler si incontrò alle ore 12 con il generale Mälzer per riferire; era stato convocato anche il maggiore Hellmuth Dobbrick – noto anche come Hans Dobek – comandante della compagnia del “Polizeiregiment Bozen”. Il Generale, dopo essere stato informato dal colonnello Kappler sui progressi nella compilazione della lista e sulle difficoltà dell’individuazione del numero di italiani, ordinò al maggiore Dobbrick di eseguire personalmente con i suoi uomini la rappresaglia. Il maggiore Dobbrick tuttavia rifiutò espressamente di obbedire a questo ordine, affermando che i suoi soldati non erano in grado, per sentimenti religiosi, di eseguire le fucilazioni “nel breve tempo a disposizione“. Con grande disappunto il generale Mälzer dovette ricercare altri esecutori e in un primo momento consultò il colonnello Wolf Rüdiger Hauser, capo di stato maggiore del generale von Mackensen, e richiese un reparto di truppe per eseguire materialmente la rappresaglia. Il colonnello Hauser tuttavia rifiutò a sua volta di farsi coinvolgere, affermando che il compito spettava alla polizia tedesca che aveva subito l’attacco; il generale Mälzer, sempre più in difficoltà, decise infine di assegnare direttamente al colonnello Kappler e ai suoi uomini l’esecuzione delle fucilazioni; egli stabilì inoltre che il capo della Gestapo a Roma avrebbe dovuto partecipare personalmente per “dare l’esempio“.

Il colonnello Kappler, dopo aver ricevuto gli ordini del generale Mälzer, ritornò in via Tasso, dove comunicò ai suoi uomini che “entro poche ore” dovevano essere uccisi per rappresaglia 320 uomini. Tutti i componenti del reparto incaricato dell’azione, compresi gli ufficiali, avrebbero dovuto partecipare alle esecuzioni come “necessario atto simbolico”. Su proposta del capitano Köhler, si decise di effettuare l’eccidio di massa in una serie di gallerie sotterranee abbandonate in via Ardeatina. Dopo un sopralluogo del capitano con genieri dell’esercito, la zona venne ritenuta idonea e facilmente occultabile chiudendo con esplosivi le entrate delle gallerie. Il colonnello Kappler stabilì che le uccisioni fossero dirette dal capitano Carl Schütz, che il capitano Priebke controllasse la lista per verificare l’avvenuto completamento delle uccisioni e che si impiegasse “non più di un minuto per ogni uomo“.

Ulteriori difficoltà sorsero verso le ore 13, quando il colonnello Kappler apprese della morte del 33mo soldato tedesco in via Rasella; egli, deciso a eseguire con la massima precisione la rappresaglia, secondo le tassative disposizioni delle autorità superiori, prese l’iniziativa immediata e autonoma di comprendere nella lista dei condannati a morte altri dieci uomini, presi tra un gruppo di ebrei che erano stati arrestati nelle ultime ore dopo il completamento dell’elenco iniziale. Intanto fin da mezzogiorno era iniziato il concentramento deiTodeskandidaten. I prigionieri rinchiusi in via Tasso furono condotti fuori dalle celle e radunati con le mani legate dietro la schiena; non venne comunicata alcuna informazione sul destino che attendeva le vittime; il colonnello Kappler e il capitano Schütz ritennero che, per evitare reazioni pericolose dei prigionieri o della popolazione, difficilmente controllabili a causa del ridotto numero di militari tedeschi disponibili, fosse preferibile mantenere l’incertezza e la segretezza.

Poco prima delle 14 la colonna degli autoveicoli con i prigionieri si mise in movimento e da via Tasso si diresse verso via Ardeatina; il luogo era distante circa quattro chilometri. Le cave scelte per l’eccidio erano ubicate tra le “Catacombe di San Callisto e di Domitilla”; attraverso tre accessi si entrava in un labirinto di gallerie interconnesse, che misuravano da trenta a novanta metri di lunghezza, quattro metri di altezza e tre metri di larghezza. Prima dell’arrivo degli automezzi con i condannati, il capitano Schütz si era recato sul luogo con i suoi uomini; si trattava di personale poco esperto di armi e impiegato soprattutto in compiti burocratici di polizia e repressione; egli illustrò in modo energico la loro missione; il colonnello Kappler parlò agli ufficiali, affermando che il loro compito era legittimo e che era indispensabile una loro partecipazione diretta per rinsaldare il morale degli uomini.

Alle ore 15.30 arrivarono anche i prigionieri provenienti da Regina Coeli e dopo pochi minuti ebbero inizio le fucilazioni. I prigionieri, suddivisi in gruppi di cinque, vennero condotti nelle gallerie illuminate da soldati tedeschi muniti di torce elettriche; all’entrata del luogo di esecuzione il capitano Priebke richiedeva il nome al condannato e controllava la lista; quindi le vittime venivano fatte inginocchiare e gli esecutori, all’ordine del capitano Schütz, sparavano un colpo di pistola dall’alto in basso all’altezza del collo; in questo modo si riteneva di ottenere una morte immediata. Un soldato accanto all’esecutore illuminava la scena con un’altra torcia. Il colonnello Kappler prese parte al secondo turno di eliminazione; il capitano Priebke invece sparò con il terzo turno. In totale furono effettuati 67 turni di esecuzioni; mentre all’inizio la procedura di annientamento delle vittime sembrò avviarsi con precisione e disciplina, con il passare del tempo la situazione divenne più confusa.

Alcune vittime cercarono di opporre resistenza e dovettero essere sottomesse con la forza; la massa crescente di cadaveri venne accatastata per lasciare spazio a disposizione; alla fine, per accelerare i tempi, si decise di far salire le vittime e gli esecutori sopra lo strato di cadaveri e si formarono pile di corpi. Alcuni carnefici non eseguirono con precisione l’esecuzione; fu necessario sparare ripetutamente sulla stessa vittima, molti corpi furono devastati e mutilati dai colpi, alcune vittime non morirono istantaneamente. Per sostenere il morale dei suoi uomini il colonnello Kappler prese parte a un secondo turno di esecuzioni; egli convinse a sparare anche il tenente Wetjen, che in un primo tempo si era rifiutato; tutti gli ufficiali, su ordine del colonnello, effettuarono una seconda esecuzione; solo il sottotenente Günther Amonn, completamente sconvolto, non riuscì a sparare e venne messo da parte.

Il colonnello Kappler al termine dell’eccidio parlò ai suoi uomini, ammettendo che era “stato molto difficile“, ma affermò che “la rappresaglia era stata eseguita” in applicazione delle “leggi di guerra”.

Durante l’esecuzione deiTodeskandidaten, il capitano Priebke aveva accuratamente controllato la lista, procedendo alla verifica del numero delle vittime; al termine dell’eccidio l’ufficiale rilevò che erano presenti, a causa della confusione dell’azione finale di rastrellamento dei condannati a morte, cinque uomini in più del numero previsto di 330. Il colonnello Kappler, informato dal capitano Priebke, decise di procedere all’eliminazione anche di questi ostaggi in più con la motivazione, riferita dal maggiore SS Karl Hass durante il secondo processo del dopoguerra, che fosse inevitabile ucciderli perché “avevano visto tutto”.

Lo storico tedesco Gerhard Schreiber, stigmatizzando “efferatezza e furia vendicativa” dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, ha scritto che “la messa in pratica dell’esecuzione può soltanto essere definita bestiale”.

Al termine della procedura di annientamento delle vittime, i soldati del genio tedeschi minarono gli accessi alle gallerie e fecero esplodere le cariche sbarrando le entrate; in questo modo il colonnello Kappler intendeva mantenere l’assoluta segretezza sull’eccidio. 

Le esplosioni finali furono udite da alcuni religiosi Salesiani presenti nelle vicinanze che fungevano da guide alle catacombe; i Salesiani avevano osservato durante l’intera giornata il frenetico movimento di automezzi tedeschi nella zona; nella notte il gruppo approfittò per entrare nelle cave per vedere cosa stesse succedendo e si trovò di fronte ad uno spettacolo orrendo: all’interno delle cave i cadaveri erano rimasti ammassati in gruppi alti oltre un metro e mezzo.

A trenta giorni dall’eccidio, la sera del 24 aprile 1944, un gruppo di partigiani di Bandiera Rossa volle commemorare i compagni uccisi, andò all’ingresso della cava, disarmò gli uomini della Polizia dell’Africa Italiana che erano stati posti di guardia allo scopo di impedire azioni commemorative, ed espose un cartello con scritto: 

I Partigiani di Bandiera Rossa vi vendicheranno”.

L’Alto comando tedesco diramò alle ore 22.55 del 24 marzo un comunicato, trasmesso dall’Agenzia Stefani, che, dopo aver descritto l’attentato di via Rasella, “imboscata eseguita da comunisti-badogliani“, proclamava la volontà di “stroncare l’attività di questi banditi” e rivelava di aver ordinato che “per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati” e concludeva con la frase inequivocabile“l’ordine è già stato eseguito“.

I quotidiani romani riportarono il comunicato nella loro edizione di mezzogiorno del 25 marzo.

Mussolini discusse telefonicamente con il ministro Buffarini Guidi riguardo al tragico eccidio; egli apparve soprattutto preoccupato per la possibile reazione della popolazione di Roma; il Duce giustificò la rappresaglia: ai tedeschi “non si può rimproverare nulla: la rappresaglia è legale, è sanzionata dai diritti internazionali“.

Ricordiamo che la Convenzione dell’Aia del 1907 proibisce la rappresaglia contro un’intera popolazione per fatti di cui non è responsabile, mentre la Convenzione di Ginevra del 1929, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, fa esplicito divieto di atti di rappresaglia nei confronti dei “prigionieri di guerra” nell’Articolo 2. 

L’istituto della “rappresaglia” era contemplato nei codici di diritto bellico nazionali, in cui si faceva riferimento ai criteri della proporzionalità rispetto all’entità dell’offesa subita, della selezione degli ostaggi (non indiscriminata) e della salvaguardia delle popolazioni civili. Nessuno di questi criteri, comunque, fu rispettato dai tedeschi: la rappresaglia fu del tutto sproporzionata; nessuno degli uccisi aveva alcunché a che fare con l’attentato; nella selezione degli ostaggi si procedette alla fucilazione anche di personale sanitario, infermi e malati, nonché di civili inermi del tutto estranei alla Resistenza, molti dei quali selezionati solo in quanto ebrei; inoltre non risulta che sia stata eseguita da parte tedesca alcuna seria indagine per appurare l’identità dei responsabili dell’attacco.

Nel 1997 lo storico tedesco Lutz Klinkhammer scrisse: “Quanti in Germania ancora oggi ritengono legittima la “rappresaglia” delle Fosse Ardeatine – e tra questi vi sono molti ex membri della Wehrmach – e pretendono che la popolazione italiana avrebbe dovuto comportarsi secondo la Conferenza dell’Aia sulla condotta della guerra terrestre, non solo misconoscono il fatto che anche in Italia la forza d’occupazione non rispettava le disposizioni della stessa Conferenza (a cominciare dal trattamento dei prigionieri di guerra italiani) ma, in ultima analisi, pretendono anche che una parte della popolazione avrebbe dovuto lasciarsi uccidere, deportare in campi di concentramento o di lavoro forzato – misure adottate dalla forza d’occupazione nazista violando le convenzioni stabilite all’Aia – senza opporre alcuna resistenza. La resistenza contro questo tipo di occupazione può in realtà essere considerata solo dal punto di vista della legittima difesa contro un’occupazione caratterizzata da forti tratti criminali”

Nell’eccidio furono uccise 335 persone: 154 persone a disposizione dell’Aussenkommando, sotto inchiesta di polizia; 23 in attesa di giudizio del Tribunale militare tedesco; 16 persone già condannate dallo stesso tribunale a pene varianti da 1 a 15 anni; 75 appartenenti alla comunità ebraica romana; 40 persone a disposizione della Questura romana fermate per motivi politici; 10 fermate per motivi di pubblica sicurezza; 10 arrestate nei pressi di via Rasella; una persona già assolta dal Tribunale militare tedesco; sette persone tuttora non identificate.

Dalle salme identificate (328 su 335) si ricava che delle vittime circa 39 fossero ufficiali, sottufficiali e soldati appartenenti alle formazioni clandestine della Resistenza militare, circa 52 erano gli aderenti alle formazioni del Partito di Azione e di Giustizia e Libertà, circa 55 a Bandiera Rossa, organizzazione comunista non legata al CNL , 19 erano fratelli massoni, tra cui 3 anarchici tutti iscritti all’Unione sindacale italiana: Manlio Gelsomini, Umberto Scattoni e Mario Tapparelli appartenenti indistintamente sia all’Obbedienza di Palazzo Giustiniani sia a quella di Piazza del Gesù, e circa 75 erano di religione ebraica. Altri, fino a raggiungere il numero previsto, furono detenuti comuni. Non mancarono tuttavia tra gli uccisi i rastrellati a caso e gli arrestati a seguito di delazioni dell’ultim’ora, come il giovane pugile ebreo Lazzaro Anticoli, detto “Bucefalo”, arrestato in seguito alla delazione di una correligionaria, Celeste Di Porto, detto “Pantera Nera”, finito alle Fosse Ardeatine al posto del fratello della giovane.

Almeno 9 le vittime straniere: Giorgio Leone Blumstein (nato a Leopoli, banchiere ebreo), Salomone Drucker (nato a Leopoli, commerciante ebreo), Sandor Kerestzi (nato a Budapest, giornalista cattolico), Boris Landesman (nato a Odessa, commerciante ebreo), Bernard Soike (biografia ignota), Marian Reicher (ebreo polacco, nato a Kolomyja), Eric Heinz Tuchman (nato a Magdeburgo, ebreo tedesco), Paul Peisach Wald e Schachne Wald (il primo nato a Berlino, il secondo in Polonia).

A cura di Pier Luigi Cignoli – Foto ImagoEconomica 

Editorialista Pier Luigi Cignoli

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