Nel cuore industriale di giorni inciampati
un’altra sirena, un uomo
rimasto sotto il peso
di ciò che muoveva.
Un camion, senza voce,
ha dimenticato il freno.
E la strada, ora conserva
la sua ultima impronta, le sue mani
che ieri stringevano attrezzi
oggi stringono il vuoto.
Nel cielo un elicottero,
in terra uomini in divisa,
non si rianima il nome
sulle labbra della polvere.
Il sangue, il rosso che resta,
è un pigmento amaro
tra le crepe di un sistema distratto.
Ora immagino la sua ultima visione:
non un figlio, non un campo d’infanzia,
ma la ruota lenta che si muove
indifferente, imparziale,
come il tempo che uccide.
E allora scrivo per lui,
scrivo per chi l’ha amato,
per chi ora nel rumore
sente solo il ruggito
di un’assenza metallica.
Cinque località italiane, cinque tragedie sul lavoro nell’arco di pochi giorni. Cinque nomi, tutti con un volto, una storia, una famiglia. Non sono numeri. Sono persone. E muoiono nel silenzio interrotto solo da brevi trafiletti di cronaca e da cerimonie funebri troppo simili, troppo frequenti. La moltiplicazione degli incidenti gravi e mortali impone una riflessione che non sia solo di facciata. In Italia, le morti sul lavoro sono triplicate in pochi anni. Il fenomeno, lungi dall’essere una tragica fatalità, rappresenta la punta dell’iceberg di un sistema che ancora oggi non riesce a garantire tutele adeguate ai lavoratori, soprattutto quelli più fragili, meno visibili, spesso impiegati in condizioni precarie o di isolamento operativo.
Per affrontare questa crisi, è fondamentale potenziare il Sistema di Osservazione e Prevenzione. Gli Osservatori di secondo livello, attivati presso le Regioni o le Direzioni centrali, nascono con il compito di raccogliere, analizzare e interpretare dati relativi agli infortuni gravi e mortali, con l’obiettivo di elaborare strategie concrete di prevenzione. Queste strutture svolgono una funzione cruciale: trasformare l’evento tragico in lezione collettiva, individuare fattori di rischio sistemici, fornire supporto alle autorità ispettive e alle imprese per evitare che altri cadano negli stessi errori. Tuttavia, a fronte della crescente complessità del mondo del lavoro, gli strumenti a loro disposizione sono spesso insufficienti. Le banche dati sono frammentate, la comunicazione tra enti è discontinua, i fondi dedicati sono scarsi e disomogenei tra territorio e territorio. Infatti come punti di debolezza è necessario mettere in evidenza la carenza cronica di personale ispettivo (l’Italia ha uno dei più bassi rapporti ispettori/lavoratori in Europa); la scarsa formazione diffusa sulla sicurezza, soprattutto nei subappalti e tra lavoratori stranieri; la mancata armonizzazione legislativa. Infatti, al momento ci sono norme poco chiare o interpretate in modo difforme. Poi come ultimo bisogna investire sui luoghi di lavoro, sul benessere, sull’ergonomia del lavoro. Ancora oggi si vengono usate tecnologie obsolete nei cantieri e nei luoghi produttivi dove si continua a morire per errori evitabili.
A questo punto il riordino normativo non basta, perché se pur necessario per aggiornare e semplificare le norme sulla sicurezza, deve essere accompagnato da investimenti massicci e strutturali. Senza risorse per la formazione, la vigilanza, le nuove tecnologie di prevenzione, nessuna legge potrà essere efficace. Va potenziata la rete dei controlli, ma soprattutto la cultura della sicurezza, che deve diventare parte integrante del DNA aziendale, scolastico e amministrativo. Serve una rivoluzione mentale e sociale.
Oltre ai numeri e alle misure, però, c’è un’altra forma di giustizia da ripristinare: quella del racconto umano. La comunicazione pubblica deve smettere di essere fredda e burocratica. Le storie di Ferdinando, Mirko, Antonio e degli altri devono essere narrate con rispetto, con forza, con poesia. Le parole possono restituire dignità. I volti non devono scomparire nei grafici INAIL, ma riemergere nei media, nella scuola, nei luoghi pubblici. I loro nomi dovrebbero essere pronunciati nei discorsi istituzionali, ricordati nei dibattiti, scolpiti nella memoria collettiva come monito e promessa di cambiamento. Morire di lavoro nel 2025 è una sconfitta dello Stato, della politica, delle imprese e di noi tutti. È il sintomo di un patto sociale che si è rotto e che ora va ricucito. Serve un’alleanza tra istituzioni, sindacati, imprese virtuose, media e società civile per affermare un principio inalienabile: il lavoro non può uccidere. Un parco, una panchina, un murales, una poesia… ogni gesto simbolico può contribuire a cambiare la narrazione e a coltivare memoria. Ma ciò che conta, davvero, è che queste morti non restino inutili.
A cura di Yuleisy Cruz Lezcano – Foto ImagoEconomica