In un’Italia che si vanta di essere il paese della libertà di stampa e del giornalismo etico, quando nel corso del tempo, la libertà di stampa a livello mondiale è in costante diminuzione, e l’Italia continua a scendere nella classifica internazionale redatta da “Reporters Sans Frontieres”, perdendo tre posizioni nel 2024 e attestandosi al 49º posto, dietro gli stati membri dell’Organizzazione degli Stati dei Caraibi orientali (OECS) e davanti alla Mauritania, il peggior posizionamento tra i Paesi dell’Europa Occidentale, esiste un sottobosco di narrazioni che si macchia di ipocrisia e crudeltà. Un sottobosco alimentato da pregiudizi, paure sociali e interessi politici, dove l’uomo della strada – quello che cammina tra le piazze e i vicoli delle nostre città – si trasforma in un mostro da esibire in prima pagina.
Quando la cronaca si fa sensazionalismo, l’uomo della strada diventa il capro espiatorio di tutto ciò che non va. È il migrante, il povero, lo straniero, colpevole solo per il colore della pelle o per il suo essere diverso. Questi soggetti vengono spalancati sulla ribalta come se fossero i veri responsabili di tutti i mali, spesso senza evidenze o con prove manipolate. Il giornalismo etico, che dovrebbe informare e formare, si trasforma così in un’arma di esclusione e di paura.
Dietro questa narrazione si cela il bisogno di rassicurazione di una società che ha paura dell’ignoto. La paura del diverso si alimenta di stereotipi, di storie distorte e di un’educazione che troppo spesso si limita a ripetere pregiudizi senza approfondimenti critici. Il giornalismo, che dovrebbe essere un ponte tra le diversità, diventa invece un filtro distorto, che amplifica le paure e le tensioni sociali.
Culturalmente, questa dinamica rivela una società che fatica a riconoscere e valorizzare le differenze. La cultura dominante, spesso, si limita a perpetuare miti e stereotipi, contribuendo a creare un’immagine deformata dell’altro. Il giornalismo etico si dovrebbe opporre a questa tendenza, promuovendo una cultura dell’inclusione e del rispetto, ma troppo spesso si lascia sedurre da narrazioni facili, sensazionalistiche, che rafforzano la divisione.

L’uomo della strada, vittima e carnefice, si riflette in un contesto psicologico complesso. La paura dell’ignoto, l’insicurezza economica, la perdita di punti di riferimento alimentano un senso di insicurezza che si proietta sugli altri. La figura del “mostro” nasce anche da un bisogno di trovare un capro espiatorio, di dare un senso a un mondo che sembra sfuggirgli di mano.
Infine, non si può ignorare il ruolo della politica e degli interessi di potere. Spesso, giornalisti e politici si alleano inconsapevolmente o consapevolmente, alimentando discorsi di odio e divisione per mantenere il controllo. La narrazione del mostro di paese serve a legittimare politiche repressive, a giustificare leggi razziste o autoritarie, a distogliere l’attenzione dai veri problemi sociali ed economici.
In questa tempesta di paure, bisogna ricordare che il giornalismo etico non può ridursi a uno strumento di manipolazione. Deve essere il baluardo della verità, della dignità umana e della pluralità. L’uomo della strada, anche se sbattuto in prima pagina come un mostro, merita rispetto e un’analisi approfondita, perché solo così si può sperare in una società meno ignorante, meno impaurita, più giusta.
E allora, torniamo a chiederci: quale giornalismo vogliamo? Quello che alimenta i mostri o quello che li smaschera? La risposta sta nel cuore di chi fa informazione e di chi ascolta.
Un caso si può montare. Anche se l’assassino, “il Mostro”, non dovesse essere perfetto. (“Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio, 1972, Gian Maria Volonté nei panni del redattore capo Giancarlo Bizanti).
A cura di Marco Benazzi editorialista – Foto ImagoEconomica