Luigi Cantoro, l’artista meridionale che riflette con noi sulla figura del gorilla nel cinema internazionale.

Luigi Cantoro è una figura di rilievo nel panorama artistico calabrese e nazionale. Attore, interprete raffinato e presenza solida tanto sul palcoscenico teatrale quanto sui set cinematografici, Cantoro incarna quell’equilibrio raro tra radici territoriali forti e uno sguardo aperto sul mondo.

Nato a Napoli e residente in Calabria, ha costruito una carriera basata su intensità, studio e passione per l’arte della recitazione. È proprio per la sua esperienza diretta nel mondo dello spettacolo – e per la sua capacità di analisi acuta e mai banale – che abbiamo scelto di confrontarci con lui su un tema originale e insolito: la rappresentazione dei gorilla nella cinematografia internazionale.

Un’icona silenziosa, spesso fraintesa

La figura del gorilla ha da sempre avuto un ruolo singolare nel cinema. Da King Kong a Gorillas in the Mist, questi animali sono stati usati per evocare forza, alterità, paura, ma anche empatia e mistero. La loro presenza scenica è d’impatto, carica di simbolismo e spesso al centro di narrazioni complesse, in bilico tra il mito e la scienza, tra l’istinto e la civilizzazione.

Cantoro, osservatore attento dei linguaggi cinematografici, ha accettato con curiosità – oggi – il nostro invito a parlare di questo tema, offrendo riflessioni che vanno oltre la superficie. “Il gorilla – ci ha detto – è una figura che il cinema ha manipolato a più riprese, attribuendogli ogni volta ruoli diversi: a volte minacciosi, a volte teneramente umani. È interessante vedere come questo riflette le nostre paure e le nostre proiezioni”.

L’occhio dell’attore sul linguaggio del cinema

Grazie alla sua lunga esperienza sui set, Luigi Cantoro conosce da vicino le logiche che guidano la costruzione dell’immagine sullo schermo. Non è un esperto di zoologia, né un documentarista, ma è proprio in quanto artista dello spettacolo – che lavora con la corporeità, con la tensione narrativa, con lo sguardo del pubblico – che la sua voce offre una chiave di lettura preziosa.

“La forza visiva del gorilla – spiega – si presta a una moltitudine di letture. Il cinema lo ha reso a volte mostro, a volte eroe tragico, altre ancora compagno dell’uomo. Ma quello che resta costante è il suo potere simbolico: ci costringe a fare i conti con la parte più arcaica della nostra umanità”.

Calabria, terra d’arte e riflessione

Interpellare Luigi Cantoro su un tema apparentemente lontano come questo non è una provocazione, ma una scelta precisa: dimostrare come anche dalle terre considerate periferiche possono nascere pensieri critici capaci di dialogare con il grande immaginario collettivo. La Calabria, in questo caso, non è solo lo sfondo geografico, ma anche la lente attraverso cui un artista osserva e interpreta il mondo.

Con la sua voce lucida e appassionata, Luigi Cantoro ci ricorda che ogni immagine cinematografica – anche quella di un gorilla – è uno specchio delle nostre emozioni, delle nostre paure e dei nostri desideri più profondi. E che l’arte, qualunque sia il soggetto, nasce sempre da uno sguardo attento e consapevole.

Nella foto l’attore Luigi Cantoro

INTERVISTA A LUIGI CANTORO
“Il gorilla e la scimmia nel cinema? Figure simboliche che parlano all’inconscio”

Attore noto nel Sud Italia, apprezzato in teatro e sui set nazionali, Luigi Cantoro è una figura sensibile e riflessiva del mondo dello spettacolo. Con lui abbiamo scelto di affrontare un tema originale: la rappresentazione del gorilla – e in generale delle grandi scimmie – nella cinematografia internazionale. Un argomento insolito che, nelle sue mani, diventa spunto per parlare di arte, simbolismo e umanità.

Buon giorno Signor Cantoro, grazie per aver accettato questo incontro. Come ha reagito quando le abbiamo proposto di parlare di gorilla e scimmie nel cinema?
“Con sorpresa e curiosità. È un tema apparentemente lontano dal mio lavoro quotidiano, ma a ben guardare non lo è affatto. Il cinema, come il teatro, usa simboli per raccontare l’essere umano. I gorilla e le scimmie sullo schermo non sono semplici animali: sono specchi, metafore, archetipi”.

Partiamo dal più celebre: King Kong. Qual è, secondo Lei, il cuore narrativo di questa figura?
“King Kong è il mito della forza selvaggia che entra in contatto con la civiltà e ne viene distrutta. È un personaggio tragico, romantico, vittima di incomprensione. È il ‘mostro’ che ama e soffre. È profondamente teatrale, direi shakespeariano: un re caduto, un gigante umano nel suo dolore”.

Il gorilla viene spesso mostrato come pericoloso, minaccioso. Ritiene che il cinema lo abbia demonizzato?
“In parte sì. Ma più che demonizzarlo, lo ha caricato delle nostre paure. Il gorilla rappresenta l’ignoto, la natura incontrollabile, l’istinto. Il cinema ne ha fatto un contenitore emotivo: paura, ma anche compassione, empatia, nostalgia. È una figura potentemente ambivalente”.

Passando a Gorillas in the Mist (1988), qui il gorilla è visto con profonda umanità. Come ha vissuto quel tipo di narrazione?
“È un film fondamentale. Finalmente il gorilla non è il ‘diverso pericoloso’, ma un essere vivente degno di rispetto. La protagonista lo osserva, lo studia, lo protegge. E noi, spettatori, impariamo con lei a guardare oltre l’apparenza. È una narrazione che commuove perché rompe uno schema visivo e culturale”.

Come attore, cosa la colpisce di questi personaggi non umani?
“La fisicità. L’assenza di linguaggio verbale porta il corpo a parlare. Per un attore, è una lezione. I gorilla nei film esprimono emozioni con gli occhi, con i gesti, con la tensione del corpo. È un lavoro di espressività pura, profondamente teatrale”.

Il reboot de Il Pianeta delle Scimmie ha ridato grande centralità ai primati, anche in chiave etica. Che impressione le ha fatto?
“Una saga sorprendente. Umanizza le scimmie, mostra la loro capacità di organizzazione, dolore, giustizia. E mette in discussione il concetto stesso di ‘umanità’. In alcune scene, le scimmie sono più umane degli uomini. È cinema che fa pensare, e che obbliga lo spettatore a interrogarsi”.

In questi film le scimmie parlano, combattono, amano. È credibile? O è pura finzione?
“È credibile nel linguaggio simbolico del cinema. Non dobbiamo cercare il realismo biologico, ma il valore metaforico. Le scimmie sono una lente attraverso cui guardiamo noi stessi. Sono il nostro doppio: istintivo, puro, violento, ma anche capace di solidarietà”.

E le scimmie nel cinema per bambini e ragazzi? Penso ad Aladdin, con la celebre scimmietta Abu.
“Abu è meravigliosa. Piccola, agile, furba, è l’amico fedele, il complice. In un film d’animazione, una scimmia come Abu assume il ruolo che nei drammi ricopre il servo shakespeariano: osserva tutto, capisce più di quanto sembri, agisce con coraggio. È una figura comica ma profondamente funzionale alla storia”.

Cosa differenzia, secondo Lei, i gorilla da altre scimmie nel cinema?
“I gorilla sono figure regali, lente, solenni. Le scimmie più piccole, come Abu o anche i lemuri di Madagascar, portano leggerezza, comicità, movimento. I gorilla parlano alla parte profonda di noi, le scimmiette al nostro lato più giocoso. Ma entrambi, se usati bene, possono rivelare qualcosa di autentico”.

Ritiene che queste rappresentazioni influenzino il nostro modo di vedere gli animali?
“Assolutamente. Il cinema forma l’immaginario collettivo. Se per anni vediamo i gorilla solo come minacce, sarà difficile vederli in modo neutro. Ma quando il cinema cambia prospettiva – come ha fatto in opere recenti – anche lo spettatore cambia sguardo. L’arte può educare, anche in modo indiretto”.

Lei è calabrese, una terra ricca di simboli arcaici. Trova un parallelo tra il gorilla come figura ancestrale e certe radici del teatro popolare?
“È una domanda molto bella. Sì, il teatro delle origini, anche quello popolare calabrese, lavora con archetipi: il matto, il vecchio, il selvaggio. Il gorilla è, in fondo, una maschera: rappresenta ciò che ci precede, ciò che è fuori controllo. Come le figure del mito o della tragedia antica”.

Se dovesse interpretare un personaggio ispirato a un gorilla, da attore, da dove partirebbe?
“Dal respiro. I gorilla hanno un ritmo diverso, più profondo. Poi dalla postura, dal silenzio. E infine dallo sguardo. Sono esseri che osservano. E l’osservazione – come sul palcoscenico – è già una forma di racconto”.

C’è una scena, in tutta la cinematografia sui gorilla, che le è rimasta impressa?
“La scena finale di King Kong sull’Empire State Building. È la caduta dell’eroe, l’uomo che non è uomo, il cuore che batte fuori dal petto. Ogni volta mi colpisce per la sua tragicità. Non servono parole, solo immagini e musica. È cinema allo stato puro”.

Secondo Lei, nel futuro vedremo ancora queste figure nei film? O è un filone destinato a esaurirsi?
“Finché ci sarà bisogno di raccontare l’istinto, il diverso, l’incompreso… queste figure torneranno. Magari con linguaggi nuovi, magari in modi più sottili. Ma il gorilla – come simbolo – è eterno. È l’altro che ci abita”.

Un’ultima domanda: cosa ha scoperto, personalmente, riflettendo su questo tema?
“Che anche da un soggetto insolito come questo possono nascere riflessioni profonde. E che l’arte, il cinema, il teatro, servono proprio a questo: a prendere ciò che sembra marginale e trasformarlo in qualcosa di universale. Parlare di gorilla, in fondo, è un modo per parlare di noi”.

Nel corso di questa conversazione con Luigi Cantoro, abbiamo riscoperto quanto anche figure apparentemente lontane come i gorilla e le scimmie possano raccontare molto dell’essere umano. Attraverso il cinema, queste creature diventano simboli, specchi, compagni di viaggio silenziosi che ci interrogano su chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando.

Vi invito, dunque, a rivedere questi film – da King Kong a Gorillas in the Mist, da Il Pianeta delle Scimmie alla scimmietta Abu in Aladdin – con uno sguardo nuovo. Non solo come spettatori, ma come esseri umani in ascolto. Perché a volte, i messaggi più profondi arrivano proprio da chi non ha voce.

A cura di Ilaria Solazzo editorialista – Foto Redazione

Editorialista Ilaria Solazzo

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