Nel panorama dell’Italia del Novecento, un’epoca di tumultuose trasformazioni sociali e politiche, emerge la figura di Orio Vergani, un uomo che ha saputo catturare l’essenza di un’epoca attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica e la penna del suo inchiostro. Nacque Vittorio, ma il nome che il mondo ricorda è quello di un maestro, un precursore del fotogiornalismo, un narratore delle emozioni sportive e, perché no, di una nazione in divenire.

Vergani si affacciò al mondo del giornalismo in un periodo in cui l’Italia stava lentamente ricostruendosi dopo le macerie della Seconda Guerra Mondiale. Il Paese, ferito e diviso, cercava un’identità, un modo per risollevarsi dalle sue stesse ceneri. In questo contesto, il giornalismo sportivo non era solo un semplice passatempo; era un veicolo di speranza, un linguaggio comune che univa le diverse anime della nazione. E qui, Vergani si rivelò non solo un cronista, ma un alchimista delle parole, capace di trasformare le gesta degli sportivi in epiche narrazioni.

Se pensiamo a Gianni Brera e Bruno Raschi, nomi che hanno segnato la storia del giornalismo sportivo italiano, ci rendiamo conto di come Vergani fosse non solo un maestro, ma un vero e proprio punto di riferimento. La sua scrittura, incisiva e poetica al tempo stesso, sapeva evocare immagini potenti, come quelle che immortalava attraverso il suo obiettivo. Era in grado di cogliere l’attimo, di fermare il tempo, di raccontare l’emozione di un goal, l’ansia di una competizione, il dramma e la gloria che si intrecciano in un campo da gioco.

Ma la sua visione andava oltre il semplice resoconto sportivo. Vergani sapeva leggere la società italiana attraverso lo sport, interpretando il suo linguaggio e le sue contraddizioni. In un’epoca in cui il fascismo aveva lasciato segni indelebili, la sua penna si fece portatrice di una nuova etica, di un nuovo modo di guardare al mondo. Lo sport, per lui, era un modo per esplorare le dinamiche sociali, per raccontare le speranze e le frustrazioni di un popolo in cerca di riscatto.

La sua passione per la fotografia, unita a quella per le parole, gli permise di creare un linguaggio unico. Vergani non si limitava a documentare ciò che accadeva, ma cercava di trasmettere l’essenza di ogni evento. Ogni scatto era una storia, ogni articolo un affresco che ritraeva non solo atleti, ma anche la folla, il clima, il contesto. In questo modo, il suo lavoro si inserì in un filone di critica sociale, in un’epoca in cui la società italiana si dibatteva tra modernità e tradizione, tra speranza e disillusione.

La sua eredità è palpabile ancora oggi, in un panorama mediatico che spesso sembra dimenticare il valore della narrazione profonda e dell’immagine evocativa. Vergani ci insegna che il giornalismo, in tutte le sue forme, è un atto di responsabilità. È un modo per raccontare la vita, per dare voce a chi voce non ha, per comprendere le sfide e le vittorie di una comunità. E anche se 65 anni ci separano dalla sua scomparsa, il suo spirito vive ancora, ispirando le nuove generazioni a guardare oltre il sensazionalismo, a cercare la verità nella bellezza e nel dolore, a raccontare storie che meritano di essere ascoltate.

In un’epoca in cui l’informazione viaggia veloce e spesso in maniera superficiale, il messaggio di Vergani risuona come un invito a tornare alle radici del giornalismo: l’arte di raccontare la vita, di dare forma e sostanza a ciò che spesso resta invisibile. E così, mentre ci voltiamo a riflettere su questo gigante del giornalismo, non possiamo fare a meno di chiederci: quali storie stiamo raccontando oggi? E come possiamo, ogni giorno, onorare l’eredità di chi ha tracciato la via prima di noi?

“Il grande airone ha chiuso le ali.”(Incipit dell’articolo scritto da Orio Vergani per il Corriere della Sera, all’indomani della morte di Fausto Coppi.)

A cura di Marco Bemazzi editorialista – Foto ImagoEconomica 

Editorialista Marco Benazzi

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