Ben 52 anni fa , chi puo’ dimenticare quel 1969 e quei tre giorni di pace, di amore, di musica?
Avevo 16 anni, e mi ricordo di quei giorni e della mia “prima minigonna”; incredibile questo accostamento, ma forse dice piu’ di tutto quello che leggerete in questo articolo! Respiravo la liberta’, e non solo quella mia, intima, individuale, ma quella collettiva, di un’intera generazione: la nostra, quella splendida eta’ che si cibava di quei mitici, indimenticabili anni’60!

Sono passati piu’ di 50 anni dal piu’ grande maxiraduno rock, ospitato sul prato del caseificio di Max Yasgur a Bethel, una cittadina rurale nello stato di New- York, dal 15 al 18 agosto 1969: rievocarne il fascino, la gloria e il mito e’ un imperativo categorico.

All’evento, dall’organizzazione alquanto approssimativa, parteciparono circa un milione di giovani statunitensi, mossi dall’idea di convivere felicemente insieme nell’utopia caotica di quei tre giorni di pace,amore, musica e naturismo, nel gigantesco ingorgo di pulmini Wolkswagen e sacchi a pelo, fra raga indiani e riverberi rock, e sotto dense nuvole di incenso, hashish e marijuana.

Spinti da un incontenibile impulso rivoluzionario, rifiutando la consacrata societa’ consumistica, abbandonando ogni convenzionale stile di vita, gli hippy smisero le giacche e le minigonne alla moda per indossare caftani, sandali e amuleti di ispirazione etnica, e assurgere al misticismo con poverta’ volontaria e letture religiose, ripudiando cosi’ l’artificio e lo sfarzo.

La piu’ lucente facciata di quella rivolta fu la musica, considerata uno spartiacque tra la societa’ degli anni Sessanta, votata all’ottimismo e sorretta dal benessere economico, e la vita che si stava instaurando, all’insegna della introspezione e della soggettivita’.

Come un incontenibile flusso, dai campus universitari in sommossa, la musica divenne protagonista delle marce di protesta, delle dimostrazioni pacifiste, degli happening e dei freak out, dando cosi’ vita a nuove forme di concerto, culminate nella sontuosa esperienza avvenuta su quel prato di Bethel!

Su quel palco, per tre giorni, si alternarono soltanto outsider, musicisti piu’ o meno sconosciuti, ma fortemente sensibilizzati e determinati ad esibirsi in nome di una causa e di una ideologia che la rendeva degna di essere vissuta.

Quella parentesi rappresento’ per molti di loro, come Joe Cocker, Carlos Santana, gli Who, Janis Joplin, Ravi Shankar, Joan Baez, Grateful Dead, Jefferson Airplane un vero trampolino di lancio.
Lo fu perfino per Jimi Hendrix, che in quell’occasione consegno’ alla storia il momento piu’ iconico: un epocale inno nazionale statunitense, eseguito con la chitarra elettrica in una maniera alquanto arraffazzonata e distorta.

Chiamasi potere e imperfezione trasgressiva, che e’ cosa propria degli artisti!
Essa non fu un omaggio alla Patria, ma un atto di protesta e affetto contro i bombardamenti e i crimini di guerra condotti dalla “ Gloria americana”.
Woodstock probabilmente non sarebbe quello che e’ diventato se non ci fosse stato l’home-video.
Infatti nonostante la fine degli anni sessanta fosse ricca di immagini frizzanti e vitaminiche, la comunicazione a quei tempi non era affatto istantanea ed efficace come quella attuale.

La pellicola Woodstock. Tre giorni di pace, amore e musica, diretta da Michael Wadleigh, premio Oscar 1971 per il miglior film documentario , nel corso degli anni ne ha moltiplicato il successo, permettendo cosi’ a chi non c’era per le piu’ svariate ragioni, pure anagrafiche, di assaporarne l’indiscusso spirito: rigenerante come un sorso di birra ghiacciata in un pomeriggio torrido d’estate, ma anche infido come una sbornia a stomaco vuoto.
Parafrasando l’omonimo brano di Joni Mitchell: “ forse e’ solo una stagione o forse e’ il tempo dell’uomo. Non so chi sono, ma la vita e’ fatta per imparare.”

Ognuno di noi, di quella generazione , adolescente in quegli anni, sicuramente dal vigore di quei tre giorni d’estate, ha davvero imparato tanto; perche’ Woodstock e’ stato e continuera’ ad essere una necessita’, un obbligo, un urgenza emotiva, un manifesto di lotta non-violenta.

E non e’ un caso se in questo anno 2021 , proprio pochi giorni fa, abbiamo assistito all’uscita di Summer of Soul Questlove che riporta alla luce un Festival dimenticato grazie al materiale d’archivio trovato in uno scantinato.

Un documentario firmato dal batterista dei The Roots, Amhir “Questlove” Thompson, presentato prima al Sundance, poi a Cannes e ora disponibile su Disney+.

Due ore di musica di chi quel festival dimenticato lo ha vissuto: Nina Simone, Stevie Wonder, B.B. King, Mahalia JacKson. Summer of Soul insomma non si limita a celebrare alcuni dei piu’ grandi eventi seppur discussi di quegli anni, ma ci ricorda come quell’estate del’69, tra il primo passo di Amstrong sulla Luna e la celebrazione dei figli dei fiori, sia stata anche il punto di svolta di una comunita’.

L’anno in cui un’intera comunita’ ha deciso di rivendicare la propria cultura e le proprie origini al grido di “ Black is beautiful” : un abbraccio della propria identita’ calpestata da secoli di soprusi, che rifioriva grazie anche all’arte e alla musica.
Summer of Soul e’ pura gioia, un inno alla cultura afroamericana, un viaggio indietro nel tempo per ricucire una pagina di storia strappata.

E aggiungo, un grande messaggio che ineggia, ai giorni nostri, pieni di energia ma anche di incognite, a inventare “nuove visioni” di cultura!

A cura di Sandra Vezzani- Foto Redazione 

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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