SERGIO MATTARELLA

Sei scrutini in quattro lunghissimi giorni, 738 voti. Sono questi i freddi numeri dell’unico precedente di un bis come presidente della Repubblica, quello che vide Giorgio Napolitano restare al Quirinale dal 20 aprile 2013 al 14 gennaio 2015 dopo il primo settennato cominciato il 15 maggio 2006.

All’indomani delle elezioni politiche il primo adempimento all’ordine del giorno del Parlamento era la scelta del nuovo presidente, essendo Napolitano giunto a scadenza naturale. Le urne avevano consegnato la fotografia di un Parlamento senza maggioranza netta, anche se il Pd era il primo partito. Pierluigi Bersani, leader dem, propose la candidatura di Franco Marini, in sintonia con una intesa bipartisan, ma larghe aree del suo partito non lo votarono. Dopo due tornate di scheda bianca, al quarto scrutinio Bersani propose Romano Prodi ma anche lui fu bocciato, non raggiungendo la maggioranza assoluta e fermandosi a 395 voti. Bersani, tradito da almeno 101 dei suoi, annuncia le dimissioni da segretario del PD. La mattina dopo i partiti, tranne M5s, insieme ai governatori delle regioni, vanno in pellegrinaggio al Quirinale per pregare Napolitano di accettare la riconferma. Prima Pierluigi Bersani, poi Silvio Berlusconi, Mario Monti e infine i governatori del Nord leghisti del Nord Maroni, Cota e Zaia. Sul fronte del no Sel e il M5s.

Alla fine Napolitano accetta, dopo aver chiesto garanzie su riforme e governo. Da Pd, Pdl, Lega e Scelta civica, fece sapere il Colle in una nota, è stata espressa “la convinzione che – nella grave situazione venutasi a determinare – sia altamente necessario e urgente che il Parlamento possa dar luogo a una manifestazione di unità e coesione nazionale attraverso la rielezione del Presidente Napolitano”.

Nel durissimo discorso di insediamento il Presidente accusò i partiti di essere giunti allo stallo dopo “una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità”. E li riprese per avere, negli anni, ragionato in base a “calcoli di convenienza, tatticismi, strumentalismi”. “Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo di fronte a sordità come quelle contro cui ho cozzato in passato, non esiterò a trarne conseguenze di fronte al Paese” minacciò, tra gli applausi. Poco meno di due anni dopo, il 14 gennaio 2015 firma la sua lettera di dimissioni. Del resto già durante l’insediamento aveva spiegato chiaro e tondo che sarebbe restato “fino a quando la situazione me lo farà ritenere necessario e possibile, fino a quando le forze me lo consentiranno, dunque di certo per un tempo non lungo”.

A cura di Elisabetta Turci – Foto Getty Image

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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