Ogni stagione della vita è bella, ma quella dell’infanzia ha qualcosa di sacro e di inviolabile.

Chi di voi non ha rimpianto talvolta questa età in cui il sorriso non manca mai e l’anima è sempre serena? Un’età nella quale non esistono rancore e doppi fini e nella quale si risponde alla cattiveria degli adulti con gesti che mortificano la nostra razionalità? In Uganda non è sempre così.

Qui l’infanzia e le sue meraviglie possono essere brutalmente interrotte. Basta dar loro un mitra in mano e costringerli a combattere. Ed a trasformarli in strumenti di morte. Quello del reclutamento dei bambini soldato è un fenomeno che in Europa è del tutto sconosciuto, ma che in tanti Paesi, soprattutto africani, è una pratica costante ed ininterrotta. Per la verità, un fenomeno simile lo abbiamo avuto anche noi, ma ce lo siamo dimenticati in fretta: Hitler, di fronte all’avanzata dei russi da una parte e degli alleati dall’altra, arruolò, in una tragico e disperato tentativo di difesa, ragazzini sedicenni o diciassettenni per la Wermacht.

Nel tempo, il fenomeno, insieme alla cattiveria ed alla crudeltà umana, si è soltanto spostato geograficamente. Ed ha assunto, nel tempo, tinte ancora più orribili e disumane.

Con buona pace delle democrazie occidentali e del nord del mondo, che chiudono gli occhi di fronte ad un eccidio senza fine.
Anzi, l’arruolamento dei bambini nelle guerre tribali ha reso ancora più appetibile il traffico delle armi: con l’uso di armi automatiche leggere anche un bambino di dieci anni può impugnare ad usare un mitra come un adulto. E ad uccidere come lui.
E’ di qualche giorno fa la notizia che, la Corte penale internazionale ha condannato per crimini di guerra e contro l’umanità un noto esponente di questo triste fenomeno: Dominic Ongwen, bambino soldato ugandese diventato in seguito comandante dell’esercito di resistenza del Signore (Lra).

La sua storia dimostra come, su ogni palcoscenico della vita, vii abitano tanti volti, tante sfaccettature della nostra personalità e che siamo ben altro rispetto a quel che sembriamo essere: i disagi e le inquietudini, come il compiere azioni malvagie, arrivano proprio per farci scoprire questi altri volti.

Può iniziare da qui la storia di Dominic Ongwen. Una storia davvero drammatica e quasi grottesca, la sua. Iniziata nel remoto nord dell’Uganda degli anni Ottanta: aveva nove anni quando venne rapito nella cittadina di Gulu dal famigerato gruppo ribelle dell’Esercito di resistenza del Signore. Una setta nota per la sua brutalità che fa capo a uno dei criminali più ricercati del Continente, Joseph Kony. E da vittima, da bambino non certo ricco ma felice e spensierato, diventa, suo malgrado, carnefice e portatore di morte.

Costretto a diventare immediatamente adulto, inizia a vivere, con i suoi guerriglieri rapitori, nella “bush”, fitta boscaglia che segna vaste zone dello stato ugandese. E da quel momento in poi, un orrore senza fine. Stupri, devastazioni, saccheggi, assassini, compiuti da solo ed insieme al suo gruppo ribelle, dal nome grottesco: Gruppo Ribelle dell’Esercito Di Resistenza Del Signore (Lra).

Nel 2015, Ongwen si è arreso alle autorità ugandesi per paura di essere ucciso dai suoi compagni.
Il capo delle imputazioni era talmente lungo che i Giudici della Corte Internazionali gli hanno permesso di rimanere seduto durante la lettura del verdetto. Delle 70 accuse per crimini di guerra e contro l’umanità, i giudici ne hanno confermate 61.
Il nostro pensiero torna, con terrore impotente, ai volti dei criminali nazisti, impassibili ed indecifrabili, durante la lettura delle Sentenze del Tribunale di Norimberga.

Chissà cosa sarà passato per la mente a Dominic Ongwen alla lettura della sentenza che lo ha condannato al carcere a vita.
Nessuna emozione è stata in grado di tradire quello che l’imputato pensava in quel momento.

E la giusta sentenza mette la parola fine alle atrocità compiute in nome di una setta che sostiene di combattere in nome dei Comandamenti della Bibbia e che si ritorse brutalmente contro i suoi stessi sostenitori, presumibilmente per “purificare” il popolo degli Acholi e trasformare l’Uganda in una teocrazia fondata sulla personale interpretazione che Kony, suo fondatore, dà della parola di Dio.

E, come spesso è accaduto nella storia, Ongwen si è dichiarato innocente “in nome di Dio” ed i suoi difensori, come ogni buon avvocato che sa benissimo che non vi sono altre carte da giocare, hanno insistito sul fatto che il loro assistito fosse stato rapito, bambino, dal suo villaggio all’età di nove anno mentre andava a scuola.

Dominic Ongwen non può essere considerato colpevole dei crimini: lui stesso è stato vittima della brutalità del gruppo ribelle, sin dalla tenera età ed i suoi difensori hanno chiesto una improbabilissima assoluzione.
“La camera è consapevole che ha sofferto molto”, ha detto il giudice Schmitt, a capo dei magistrati che hanno esaminato il caso. “Tuttavia, questo caso riguarda i crimini commessi da Dominic Ongwen come adulto responsabile e comandante dell’Esercito di resistenza del Signore” e non sono state trovate “prove della dichiarazione fatta dalla difesa che l’imputato soffra di alcun disturbo mentale o che abbia commesso i crimini sotto costrizione”.

Due sono le novità che escono da questo verdetto.
E’ la prima volta che, dopo un processo durato cinque anni, una persona sia vittima che presunto autore di crimini di guerra e crimini contro l’umanità sia apparso davanti alla Corte penale internazionale.

L’essere umano ed i suoi diritti devono essere difesi e garantiti ovunque: la speranza è quella di contribuire a estirpare futuri comportamenti criminali, reprimendo e condannando le atrocità nel presente. Ovunque.
L’arresto e la condanna di Dominic Ongwen ha, di fatto, quasi annullato, o comunque fortemente attenuato, le violenze e le devastazioni del suo gruppo armato. Adesso è rimasto solo, con la sua coscienza. Lapalissiano sottolineare le atrocità e la brutalità che hanno caratterizzato le azioni di un uomo che non poteva non essere condannato.
“Al di là di ogni ragionevole dubbio”, come sostengono i Giudici quando condannano un imputato.

Facile parlare comodamente seduti sulle poltrone dei nostri salotti davanti alla tv e puntare il dito contro il mostro, l’altro da noi. Come se quell’orrore non ci appartenesse. Basterebbe guardare quelle tante immagini che ritraggono quei bambini dell’Uganda che, a stento, abbracciano fucili mitragliatori. Io non sono bravissimo ad intuire l’età di una persona ma penso che possano avere non più di 8 o 10 anni. I loro visi sono più eloquenti di tante parole: gli occhi, grandi, pieni di paura; la labbra leggermente incurvate come a trattenere il pianto.

Le immagini, più di tante parole e di tanti dibattiti, danno l’idea dell’insensatezza dell’odio razziale, della crudeltà della guerra e dell’enorme dolore che provano i bambini rimasti orfani e costretti a combattere conflitti militari voluti soprattutto da governanti malvagi e corrotti, anche con la complicità delle nostre democrazie europee ed occidentali.
Che non possono lavarsene pilatescamente le mani e non assumersi una grande responsabilità.

A cura di Avv. Costantino Larocca – Foto Getty Image

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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