Le scenografie sono parte essenziale di ogni produzione teatrale, e danno una connotazione ben precisa all’azione scenica. La scenografia di cui vi voglio parlare, rappresenta un teatro. Quando il grande drammaturgo Diego Fabbri, forlivese di nascita, scrisse il testo Figli d’Arte, scelse di ambientarlo al teatro Alessandro Bonci di Cesena mescolando le carte al punto tale da trasformarlo a sua volta nella sala adibita a teatro che il 25 gennaio 1851 vide il Passator Cortese, “re della strada e re della foresta”, esibirsi assieme alla sua banda, nel più noto episodio relativo al fenomeno del brigantaggio della Romagna.

Luchino Visconti ne curò l’allestimento portandolo, nel marzo del ’59, in scena al teatro Sarah Bernhardt (Théâtre de la Ville) di Parigi, in occasione del Festival del Teatro della Nazioni. Ed è qui che il Bonci, per la prima volta in vita sua, usci dai confini del Bel Paese per avventurarsi nella Ville Lumière. Da buon romagnolo, il Bonci, restò favorevolmente colpito dall’accoglienza che il teatro parigino intitolato alla Divina gli aveva riservato.

Il personale tecnico allestì la scena con cura e raffinatezza, e l’effetto finale fu strepitoso. Il Bonci era un provinciale a Parigi, come direbbe Georges Simenon, il quale presenziò alla serata di debutto e con lui un intero movimento culturale, la Nuovelle Vague, che in quel periodo stava vivendo il suo période dorée con la contemporanea uscita de “I quattrocento colpi” di François Truffaut, “I cugini” di Claude Chabrol e “Hiroshima mon amour” di Alain Resnais.

Trovò anche il tempo di innamorarsi perdutamente, capitava spesso che, nonostante l’età, restasse senza fiato all’apparire di un angelo in pantofole, e successe anche per la dolce Françoise Spira. C’era solo un uomo in compagnia che aveva una tale sensibilità da fargli intuire l’amore impossibile tra una scenografia e un’attrice: il trovarobe, Gaetano Principetto, un ragazzo di origini campane trapiantato a Parigi con il sogno di poter salire sul cannone della bicicletta di Raymond Poulidor ed insieme percorrere il viale dei Campi Elisi fino a passare sotto all’Arco di Trionfo. Gaetano, come il suo eroe delle due ruote, era di origini contadine, sorrideva anche quando la vita gli mostrava gli artigli, era audace e impulsivo ed incarnava il prototipo dell’uomo della porta accanto. Per esprimere l’amore che il vecchio teatro cesenate provava per la giovane attrice parigina, Gaetano si fiondò da Cesare Bertozzi, un amico coltivatore agricolo nativo di Cesena, chiedendogli aiuto. Lo trovò in casa che, a metà pomeriggio, sorseggiava un Bellini, rigorosamente con la Bella di Cesena, l’unica pesca che, Giuseppe Cipriani barman dell’Harry’s Bar, utilizzava per il noto long drink da lui creato. Decise di inventare, lì per lì, un cocktail utilizzando anche la celebre pesca a pasta bianca coltivata nel cesenate e di chiamarlo La Bella di Parigi.

Terminata la tournée, il Bonci tornò ad essere quel piccolo grande teatro provinciale, amato e frequentato anche per il respiro della sua anima, e con il cuore spezzato decise che all’interno del suo caffè, non doveva mai mancare La Bella di Parigi.

La Bella di Parigi: Shaker, versare in un bicchiere basso con il fondo piatto (come un bicchiere da acqua) riempito di ghiaccio e decorare con twist di limone, (una spruzzatina sulla superficie del cocktail e decorazione con la scorza di limone). Da gustare con mini tartine di piadina farcite con humus di ceci, composta di cipolle e trancetto di arancia

Ingredienti: brandy Vecchia Romagna etichetta blu, purea di pesca La Bella di Cesena, Vino Spumante Nove Bolle, una lacrima di St. Germain.

A cura di Marco Benazzi – Foto Marco Rossi

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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