VIAGGIO TRA LE FAVELAS SICILIANE

Viaggio virtuale in una delle zone più povere di Messina, una città sullo Stretto, dove circa 2500 famiglie vivono da decenni in tuguri di amianto tra rivoli di fogna, umidità, e cumuli di immondizia.
Prendere un virus qui, e non solo il coronavirus, significa che e’ finita per tutti, a dirlo sono gli abitanti che sanno bene che il rischio epidemia e’ solo l’ultimo dei problemi in quella che e’ una vera e propria favela.
Fondo Fucile e’ solo una delle 72 zone in cui vivono ammassate nelle storiche baracche di Messina piu’ di 2500 famiglie.
Una potenziale bomba pandemiologica.

Viste dall’alto, formano un tappeto d’amianto, interrotto da strade comunali, perfino da quella centrale che porta all’autostrada.
Da un lato e dall’altro della strada: proprio il muro che costeggia la grande arteria per autostrada e’ un domino di baracche che termina solo quando iniziano le mura del Policlinico, la più grande struttura ospedaliera di tutta la provincia, sorta come una cattedrale nel deserto, immersa com’e’ tra favelas e edifici popolari.

Li’, a ridosso di uno dei pochissimi baluardi dello Stato, parte il rivolo di fogna che dall’alto dell’ammasso di baracche si fa strada verso un tortuoso e stretto percorso utile a passare tra una baracca e l’altra.
E’ li’ che gli uomini della Protezione Civile, con tute bianche e pompa pronta a spruzzare disinfettante hanno, durante la quarantena, cercato di “proteggere”, si fa per dire, le povere famiglie ammassate nelle umide stanze.
Una vergogna!

Questa e’ stata la quarantena nelle baracche di Messina, tra rivoli di fogna, amianto, umidita’, cumuli di immondizia, e una distanza sociale impossibile da praticare, anche volendo.
Uno sviluppo urbanistico, quello della terza citta’ della Sicilia che non teme confronti con le favelas brasiliane.
Eppur le baracche non dovevano esserci piu’, cosi’ aveva promesso il sindaco nell’estate del 2019, annunciando le sue dimissioni nel caso non fosse riuscito a risolvere l’annosa questione.
Si tratta di un fenomeno urbanistico di estrema poverta’, che a Messina ha origini molto antiche, che risale addirittura al periodo post terremoto del 1908.

Di baracche sorte a causa della distruzione del grande evento tellurico non ce ne sono piu’, ma in quel periodo ha avuto origine quella che in citta’ viene definita una vera e propria “ cultura della baracca”.
Le famiglie che vi abitano e, non dimentichiamolo, sono persone, da quarantanni sono qui ad aspettare un alloggio popolare, ma la cosa piu’ incredibile e’ che alcuni di loro che lo ricevono, lo rifiutano.
Non e’ semplice: in passato, in molti casi i nuclei trasferiti nelle abitazioni hanno venduto la baracca ad altri nuclei familiari, oppure l’hanno banalmente ceduta ai parenti.

Un “terremoto infinito”, che ancora oggi rimane di incredibile attualità.
E terremotati sono gli abitanti delle baraccopoli.
Operazione complessa quella dello sgombero, e del trasferimento dei baraccati di Messina in appartamento, che passa, ovviamente, dal riconoscimento dello stato di emergenza.
La soluzione è la demolizione, vale a dire assegnare la casa popolare, poi demolire la baracca, prima che venga rioccupata da un estraneo o anche dai figli di chi ha avuto un alloggio comunale, così che ricominci la trafila per l’assegnazione: è questa” la cultura della baracca”, il fenomeno inarrestabile, che al netto dell’inerzia dei tanti politici che si sono susseguiti in un secolo, blocca il risanamento.

La cosa piu’ incredibile è che il 95% degli abitanti sono persone perbene, che vivono in una struttura fatiscente, ma che spesso, dentro, hanno un arredamento molto confortevole con tanto di televisori al plasma.
Una “cultura”, appunto, lì dove lo Stato manca, che ha trovato senza dubbio un suo equilibrio: sul tappeto di amianto, spiccano le antenne satellitari e i condizionatori, negli spazi scarsi tra una porta e l’altra si intravedono, qui e la’ tanti mezzi a due ruote, e se ci avviciniamo di piu’, c’e’ pure un cane che scodinzola felice.

Queste sono le contraddizioni della vera povertà, in cui coesistono lampi di modernità e di sfruttamento, dove anche la dignità della gente che vi abita si abitua a venire a patti con la “malagestione”, pur di sopravvivere.
Già, si abitua, una parola che non dovrebbe neppure esistere, quando si tratta di “assenza di Stato”!

A cura di Sandra Vezzani editorialista – Foto Gazzettino del Sud

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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