Una donna di 35 anni degli Emirati Arabi Uniti è accusata di omicidio di primo grado dopo aver torturato la propria domestica “per mesi” e con brutalità, fino a provocarne la morte.

Come riferito dal quotidiano arabo Gulf News, in una dichiarazione la 35enne si è proclamata innocente, respingendo tutte le accuse e affermando in aula: “Non ho causato la sua morte. Com’è possibile? L’ho picchiata molto tempo prima…”.

L’agenzia Asianews ha poi reso noto che, al momento del ricovero in ospedale, il corpo della domestica originaria delle Isole Comore presentava ferite e bruciature che hanno poi provocato coaguli del sangue ed edema polmonare. Il decesso è avvenuto nel dicembre scorso ed è stato il frutto, secondo l’accusa nel processo che si è aperto lo scorso 28 febbraio, di violenze sistematiche e ripetute nel tempo. Per percuotere la domestica, la 35enne avrebbe usato bastoni di bambù e fili elettrici; inoltre, dopo i maltrattamenti le ha anche negato le cure mediche necessarie a salvarle la vita.

A sostegno dell’accusa c’è anche la testimonianza di un’altra domestica della donna imputata, che ha confermato davanti ai giudici che “la picchiava continuamente”.

Questo episodio non è isolato ed evidenzia una situazione drammatica: negli Emirati Arabi Uniti la manodopera straniera si aggira attorno all’88,5% e, a dispetto di recenti riforme nel mercato del lavoro, i lavoratori stranieri sono sempre soggetti ad abusi, violenze e vessazioni.

Tale forza lavoro, nei Paesi arabi del Golfo Persico, conta circa 18 milioni di persone su una popolazione di 42 milioni. I lavoratori provengono soprattutto da India, Nepal, Sri Lanka, Bangladesh, Indonesia, Filippine ed Etiopia.

La cosiddetta sponsorizzazione “kafala” in vigore in tutti i Paesi del Golfo, lega il dipendente al datore di lavoro e lo riduce in condizioni di semi-schiavitù. Il lavoratore spesso non può cambiare padrone, che vanta anche un potere di deportazione sul lavoratore immigrato.

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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