Ci sono luoghi e persone nel mondo che racchiudono una grande potenzialità energetica e magica, uomini e donne che tramandano oralmente il loro sapere esoterico, spesso fonte di guarigione, fatto di aneddoti che corrono su un filo tra realtà e fantasia.

Terra ricca di questi racconti antichi è la Sardegna: ne ospita e custodisce centinaia. Benché qui non fosse mai stata usata la parola “sciamanesimo” ma si preferisse dire “andare in calazonis”, c’erano persone che conoscevano e utilizzavano piante terapeutiche o psicotrope, compievano voli estasici e incontravano spiriti di persone vive e morte tant’è che il sinodo del 1696 informa chiaramente dell’esistenza nell’isola di una pratica sciamanica diffusa.

In molti di questi racconti si parla di fate o di donne-spirito che alcuni giovani avrebbero voluto catturare e tenere con sé, ma tutti venivano sottoposti ad una prova che raramente riuscivano a superare: una di queste prove riguardava il dominio del fuoco, che l’aspirante sciamano doveva riuscire a padroneggiare. In tutte le leggende le fate vengono descritte come donne di statura normale, mentre le fate sarde appaiono di piccole dimensioni. Queste erano solite mischiarsi agli uomini nelle danze rituali che si svolgevano solo in particolari occasioni, ornate di gioielli: nessuno le poteva toccare perché consacrate alla divinità. Terminata la cerimonia, si ritiravano nelle loro dimore dette “domus de janas”, che in realtà sono tombe rupestri.
Nel paese di Busachi (Or) si racconta che le fate appartenessero a due categorie: c’erano quelle che si sposavano e avevano figli, e c’erano quelle consacrate che possedevano poteri soprannaturali e non potevano sposarsi.

Tra le leggende e i racconti che si narrano ancora in Sardegna ci sono quelle delle fate di Mores, Baronia e Thiesi che sono molto simili tra loro.

Una leggenda racconta che un giorno tre fate accolsero un giovane nella loro dimora (domus de janas); mentre stavano intorno al fuoco una di loro impastò un po’ di farina, preparò una focaccia, poi l’avvolse in un panno e fece il gesto di deporla sulla brace. Il giovane, seguendo i movimenti della fata, pensò istintivamente che il panno si sarebbe bruciato.
Le fate lessero il suo pensiero e lo guardarono con un sorriso di commiserazione, sapendo bene che “chi è di questo mondo non può comprendere le cose sovrannaturali”: l’aspirante sciamano doveva conoscere infatti il dominio del fuoco e non porsi nemmeno per un momento una domanda del genere.

Un’altra prerogativa delle fate sarde, che ha dato origine ad un’altra leggenda, è quella di vedere a distanza. A Pozzomaggiore (Ss) si racconta che in un castello sul Monte Oe vivevano delle fate che, quando il paese era in festa, a mezzanotte scendevano in piazza a ballare. La fata più vecchia restava nel castello a controllare, attraverso uno specchio magico, che gli uomini non toccassero le giovani fate, altrimenti queste sarebbero diventate donne comuni. Se qualcuno tentava di toccarle la vecchia fata diceva: “Chiriga, Chiriga boltadi e giradi, mi chi ti toccan sa buttonera!”(Chiriga, Chiriga, voltati, girati, bada che ti toccano la bottoniera!). La fata si voltava di colpo e fuggiva verso il castello esclamando: “Ancu ti tocchet sa musca maghedda!” (Che tu sia punto dalla mosca maghedda!).

Una volta, durante la Festa di San Giorgio, un uomo riuscì a toccare una fata e questa divenne come le donne comuni: da allora le fate non si fecero più vedere. Ognuno di noi conserva racconti antichi, aneddoti locali e familiari che compongono e tessono la nostra quotidianità, ricordi e usanze ancestrali tutt’ ora in uso, perché infine il tempo è relativo e noi siamo il condensato di esperienze ataviche.

A cura di Barbara Comelato – Foto Redazione

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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