L’hard rock, generato dalle primordiali strutture del rock’n’roll, ha rappresentato uno dei più evoluti punti di convergenza fra diversi stili musicali contemporanei. Nel decennio ’50, appena terminato, si era affacciata una cultura giovanile faziosa e piuttosto ingenua, orientata dal disappunto esistenziale maturato fra genitori e figli, castigata in uno sfogo introspettivo senza sviluppi provocatori e “diversi”. Già nella prima metà degli anni ’60 il movimento “beat” in Inghilterra esasperò la tensione potenziale del rock’n’roll, in seno ad un fenomeno che traeva vigoria dagli eventi socioculturali culminati nelle rivolte studentesche del ’68.

Tre dei futuri Deep Purple si riunirono per la prima volta nel febbraio 1968, in un piccolo villaggio inglese, South Mims, vicino St. Albans, per volontà dei manager Chris Curtis, Tony Edwards e John Coletta.

Vi parteciparono il tastierista Jon Lord (Licester 9/6/41), il chitarrista Ritchie Blackmore (Weston Super Mare, 14/4/45) e il bassista Nick Simper (Southall, 3/11/45) con l’intento di fare delle sessions e preparare un repertorio in nome di una band che avrebbe dovuto chiamarsi Roundabout. Un mese dopo, a Deeves Hall, con l’ingaggio del cantante Rod Evans (Slough, 19/1/47), del batterista Ian Paice (Nottingham England 29/6/48) e con la scelta suggestiva, perfettamente in linea con il momento psichedelico in cui il gruppo nacque, di chiamarsi Deep Purple.

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L’album, ignorato dal mercato europeo, scalerà rapidamente le classifiche americane grazie soprattutto al singolo “Hush”. In settembre è registrato il secondo “The book of Taliesyn” che insieme a “Deep Purple”, pubblicato nel marzo ’69, rappresenta la trilogia del Mark 1.

Dal beat aggressivo di Hush al rock psichedelico, poderoso e incalzante di Mandrake Root, dal lieve feeling jazzistico di Lalena al pop sinfonico di April, suonato con l’ausilio di un’orchestra, i Deep Purple si presenteranno tecnicamente “evoluti” (primi ad aver introdotto il feedback e il wah wah nei loro brani) all’appuntamento del 1970: l’anno dell’hard rock!

Con la formazione Mark 1 conquisteranno soprattutto i favori del pubblico americano. Il 16/10/68 durante un tour con i Cream, Clapton “licenzierà” i Purple a causa dell’istrionico comportamento di Blackmore che, sul palco, si era divertito a parodiare la mimica dell’amico chitarrista; quella stessa sera i due furono invitati a cena da Jimi Hendrix che aveva assistito al concerto. In Inghilterra si erano esibiti il 10 agosto, al National Jazz & Blues Festival, insieme con Artur Brown, The Nice, Jeff Beck, Ten Years After, Joe Cocker e Ginger Baker per un compenso pari a 19 sterline.

Allontanato Simper con una liquidazione di 10.000 sterline, ed Evans garantendogli il mantenimento delle royalties per i primi tre album, la formazione Mark 2 si completa, per eccellenza, con il cantante Ian Gillan (Hounslow, 19/8/45) e il bassista Roger Glover (Brecon, 30/11/45). La nuova band è determinata a raggiungere un definitivo successo in Inghilterra e ad imporre una nuova immagine di se stessa. La prima risposta ufficiale al mercato discografico appartiene a Jon Lord. Edwards e Coletta prendono accordi con la BBC, e il tastierista compone una suite per orchestra registrata alla Royal Albert Hall il 24/9 sotto la Direzione di Malcolm Arnold. Accompagnata da stupore, consensi e critiche sentenziose, l’opera è la prima composizione per gruppo e orchestra, cui farà seguito Five Bridges Suite dei Nice di Keith Emerson, lo stesso anno, e Live in Concert dei Procol Harum nel ’72. Lord proseguirà, come solista, i suoi esperimenti sinfonici, mentre Keith Emerson ci riproverà nel ’77 con Works.

Ma è “Deep Purple In Rock” a decretare il trionfo (dando il via a quella che il Melody Maker chiamerà Purple-mania)! L’album che insieme a “II” dei Led Zeppelin ed al primo “Black Sabbath”, costituisce la svolta della musica rock e rappresenta la quintessenza del neonato genere: l’hard rock. Tutti i suoi brani restano delle pietre miliari e definiscono uno stile. Speed King, il primo pezzo, si apriva con il muro di suono di tutti gli strumenti tesi all’unisono; dopo il furore iniziale emergeva l’Hammond di Lord, solenne ed evocativo, il brano si estendeva quindi in un riff violentissimo su cui Gillan urlava la sua esuberanza. In sei minuti Speed King conteneva una miniera inesauribile di suggestioni.

Alle soglie del duemila i mitici porporati “ci sono ancora” e, come ha affermato Glover in un’intervista, “Ci saranno sempre i Deep Purple finche la gente ne avrà bisogno”.

La Redazione giornalistica – Foto Corriere della Musica

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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