Kitsch, leziosi, stucchevoli, fuori tempo massimo, disimpegnati, goffi e malvestiti. Sono solo alcune delle tante critiche che vengono spesso rivolte agli ABBA e alla loro musica.

Giudizi in genere più che leciti e difficilmente confutabili che vanno però a cozzare davanti agli impeccabili intrecci vocali del quartetto svedese, alla minuziosa cesellatura degli arrangiamenti e all’innegabile maestria nel confezionare melodie perfette, semplici da ricordare eppure di complessa scrittura (lezione mutuata tanto da Bacharach quanto dai Beatles).

Lo yin e lo yang del pop insomma, sublimati in una delle massime espressioni della musica per le masse, vera e propria fucina, durante il loro decennio di attività, di memorabili e malinconici ritornelli capaci di rivaleggiare in numero soltanto con quelli dei Bee Gees e di Elton John.

Destinati a inserirsi tra i venti artisti di maggior successo di sempre, i quattro daranno il via a quella tradizione che porterà la fredda Svezia a diventare la terza potenza mondiale della pop-music. Non soltanto grazie a epigoni meno efficaci come i più rockettari Roxette o i danzerecci Ace Of Base, quanto per le decine di produttori e songwriter che ancora oggi tengono letteralmente in mano le redini del mainstream a stelle e strisce.

Il massimo splendore in Europa e nel Mondo
Dopo un tour trionfale che li porterà in giro per l’Europa e l’Australia (dove verranno accolti da folle oceaniche in visibilio) e le cui performance verranno utilizzate come ossatura per il curioso e inutile lungometraggio divistico “ABBA: The Movie”, sarà subito la volta di un nuovo disco, intitolato semplicemente ABBA: The Album, in parte colonna sonora del quasi omonimo film.

Anziché approfondire il discorso disco-music e probabilmente affascinati dall’ottimo riscontro di critica e vendite ottenuto da “Rumours” dei Fleetwood Mac, Ulvaeus e Andersson decidono di spostare nuovamente le coordinate della loro musica e di cimentarsi anche loro con sonorità rock più adulte e robuste. L’isteria collettiva attorno al loro nome e la sicurezza di poter facilmente bissare i fasti dell’album precedente permettono loro libertà di scelta e di provare qualche azzardo, come la pubblicazione della felpata “The Name Of The Game” per trainare il nuovo disco.

Un singolo rischioso perché, pur potendo far leva sull’interpretazione sentita di Agnetha e Frida e la pregevole fattura degli arrangiamenti, con tanto di fiati beatlesiani nel bel ritornello, il pezzo appare subito meno esplosivo e troppo elaborato melodicamente per ripetere il boom di “Dancing Queen”. Eppure, nonostante tutto, il successo li bacerà ancora e diventerà ancora più marcato col singolo seguente, un altro dei loro brani più ricordati, l’irresistibile marcetta propulsiva di “Take A Chance On Me”: melodia immediata e strepitosi intrecci vocali, stavolta dal retrogusto jodel, e subito ennesima prima posizione in Uk e terzo posto negli Usa (dove le vendite complessive supereranno persino quelle di “Dancing Queen”).

I due singoloni fanno schizzare alle stelle le quotazioni di The Album, nonostante la sua tracklist non contenga, come preventivato, un altro brano altrettanto ballabile e divertente. L’incipit è infatti sontuoso e arioso, affidato alla bella “Eagle” dalle tinte psichedeliche e l’atmosfera si fa piuttosto riflessiva nel corpo centrale del disco, con la ballatona Aor “One Man, One Woman” e con quella più acustica e, invero, vagamente da oratorio di “Move On”. Ci si ridesta poi con la tiratissima, per i loro canoni, cavalcata di “Hole In The Soul”, debitrice dei Supertramp ma non sostenuta purtroppo da un’auspicabile aggressività vocale.

https://youtu.be/miSZwiA0rV0

La Redazione giornalistica – Foto Getty Image

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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