Ebbene sì, è successo davvero, ed è quasi un miracolo: Prato, la città protagonista del boom manifatturiero degli Anni Sessanta (che con la sua ingegnosa creatività e laboriosità divenne un faro nel mare del tessile a livello mondiale, ma che dagli Anni Novanta è precipitata nel gorgo nero della crisi peggiorata dall’assalto soffocante della black economy delle imprese cinesi che a migliaia vi si sono stabilite vampirizzando il mercato), Prato è riuscita con un colpo di coda a portare a realizzazione il nuovo corso del suo Museo d’arte contemporanea.

Era il 1988 quando nasceva la prima volta, per volontà dell’imprenditore Enrico Pecci (dedicato alla memoria del figlio) e supportato da enti pubblici, ditte private e una fitta schiera di singoli cittadini, il Centro per l’arte contemporanea “Luigi Pecci”. L’idea dei fondatori era quella di dare a Prato una possibilità di innovazione e di progresso favorendo la conoscenza e la divulgazione delle arti del nostro tempo. Fu l’architetto fiorentino Italo Gamberini che progettò la sede museale ispirata all’architettura industriale pratese, un edificio forse un po’ rigido di più di 4.000 metri quadrati.

Da allora si sono susseguite mostre, attività didattiche e di informazione (preziosa è la biblioteca specializzata sull’arte e l’architettura contemporanea), spettacoli ed eventi multimediali, e nel tempo si è creata una collezione di oltre mille opere di artisti italiani e internazionali.
Ma dalla fine degli Anni Novanta l’attività rallenta fino a fermarsi.
Sarà ancora la famiglia Pecci che, con il sostegno del Comune e della Regione Toscana attraverso i fondi europei, nel 2006 commissiona l’ampliamento degli spazi museali per il rilancio del Museo Pecci all’architetto olandese Maurice Nio.
E così arriviamo ad oggi, ai giorni dell’apertura del rinnovato Centro Pecci, più che raddoppiato negli spazi, concepiti per aumentare la funzionalità alla struttura preesistente e per stabilire nuove relazioni tra il museo e la città.
Un anello d’oro cinge il nucleo originario. Un’astronave bronzea è atterrata ai bordi della città, impossibile non vederla. Un’antenna ondulata svetta flessuosa pronta a raccogliere i segnali culturali dall’etere.

Forse è già qui il biglietto da visita del Centro: cogliere tempestivamente le emergenze creative e segnalarle.
Il Centro Pecci riparte con una grande, complessa e affascinante mostra che ci propone un soggetto molto inquietante: “La fine del mondo”, del nostro mondo, quello che conosciamo. Per inciso, mi chiedo quanti mondi sono nati, evoluti e finiti dall’inizio dei tempi? Ma a noi sta a cuore il mondo in cui stiamo ora.

Dice il direttore e curatore Fabio Cavallucci: “la mostra non vuole essere la rappresentazione di un futuro catastrofico imminente, ma insieme presa di coscienza della condizione di incertezza in cui versa il nostro mondo e riflessione sugli scenari che ci circondano”.
Sappiamo bene quanto oggi è grande la confusione e la paura. Le nostre certezze d’interpretazione del mondo su cui tanto spavaldamente ci poggiavamo si sono infrante e non riusciamo più a comprendere il tempo presente che ci sfugge imprendibile. “Da questo cambiamento strutturale nasce il senso diffuso della fine”, ha aggiunto ancora Cavallucci.
Senza addentrarci troppo, possiamo però dire con certezza che ora noi siamo testimoni di un cambiamento totale del modo di concepire l’arte. La creatività artistica percorre strade multiformi che convivono tutte insieme senza perplessità.

Quello che si è perso per primo è il codice interpretativo che permetteva comodamente di incasellare il mondo e quindi di pensare di possederlo.
Avrete notato che nelle espressioni artistiche dei nostri giorni non distinguiamo così facilmente il campo proprio della pittura, o della scultura, dell’istallazione o del video… Le performances, le arti del comportamento ampliano i propri sentieri. L’arte concettuale si è talmente innovata attraverso una complessità di multiformi invenzioni che per lo spettatore è difficile trovare la chiave di lettura. L’arte riflette la complessità, a volte la confusione del nostro mondo oggi.
“Attraverso le opere esposte qua – dice Fabio Cavallucci – e l’allestimento realizzato, il nostro mondo così come l’abbiamo conosciuto dall’origine dell’umanità ci apparirà già finito, come se fossimo sospesi tra un passato lontanissimo e un futuro ancora molto distante”.

A cura di Silvia Camerini

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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