IL TROMBETTISTA PAOLO FRESU, LA SUA VITA ARTISTICA. – Parte Seconda.

Paolo Fresu è uno dei tanti musicisti italiani apprezzati sia in Italia che all’estero.
La sua attività è varia, ha prodotto messo in scena opere teatrali, una delle recenti quella sulla storia di Chet Baker, il trombettista suo alter ego, che ebbe una rilevante carriera musicale nel periodo del Cool Jazz nella California negli anni Cinquanta, spettacolo che fu presentato al Teatro Comunale Alessandro Bonci a Cesena.
Ma anche nella stagione teatrale 2015 / 2016, il trombettista sardo ritornò a Cesena nel teatro della città romagnola, con il suo quintetto il 26 gennaio 2016, con un tributo al trombettista cesenate Marco Tamburini, scomparso in un incidente motociclistico.

Paolo Fresu nasce il 10 febbraio del 1961 a Berchidda città della Sardegna.
Inizia la sua esperienza musicale all’età di undici anni nella Banda Musicale Bernardo De Muro del suo paese natale, suonando la tromba.
Dopo varie esperienze di musica leggera scopre e si appassiona alla Musica Jazz e nel 1980 inizia l’attività professionale nel 1982, frequentando dapprima i Seminari Senesi e registrando quindi per la RAI – Radio Televisione Italiana sotto la direzione di Bruno Tommaso, anch’esso musicista rinomato sia in Italia che all’estero.
Si diploma prima come Perito Elettrotecnico a Sassari, nel 1984 invece è la volta giusta per diplomarsi anche in tromba presso il Conservatorio di Cagliari con il Maestro Enzo Morandini e frequenta successivamente la facoltà universitaria del DAMS sezione musica, presso l’Università di Bologna.
L’idea di proporre nella sua città Berchidda, un Festival Jazz e sempre stata nella sua mente, tant’e’ vero che riuscirà nel progetto, e tutte le estati a Berchidda si accendono le luci e le tante sfumature musicali, con notevoli musicisti provenienti anche dall’estero.

L’importante manifestazione musicale a per titolo Time in Jazz, questo festival partì nella storica Piazzetta Rossa della piccola cittadina montanara, con gli anni l’evento prese piede, passando sa una data riservata agli amanti del jazz nel raggio berchiddese ad oggi. La manifestazione internazionale, che ospita artisti di calibro sia stranieri che italiani, con una diffusione a macchia d’olio che coinvolge sia la locazione dei concerti serali, sia la sempre nuove ambientazioni diurne e pomeridiane e continue innovazioni in campo artistico, come il progetto Arti Visive a cura di Giannella Demuro.
Molti i premi che hanno costellato la sua vita di artista, nel Novanta vince il premio Top Jazz indetto dalla rivista Musica Jazz come miglior musicista italiano, e come miglior gruppo, il Paolo Fresu Quintet e migliore opera discografica dal titolo Live in Montpellier, celebre cittadina francese con il premio, Arrigo Polillo dedicato al giornalista che fu direttore della medesima rivista.

Con un’altro premio nel 1996 se lo aggiudica come miglior musicista europeo attraverso una sua opera della Academie du Jazz di Parigi in Francia, ed il prestigioso Django d’Or come migliore musicista di Musica Jazz europeo all’inizio del nuovo millennio, nel 2000 gli valse la nomination come miglior musicista internazionale.
Sono i primi, di una lunga serie di riconoscimenti che proseguono nel presente artistico del musicista sardo, tra i quali spiccano le cittadinanze onorarie di Nuoro, Junas città della Sardegna, la sua terra.

Paolo Fresu è docente e resposabile di diverse importanti realtà didattiche nazionali e internazionali, è direttore artistico e docente dei seminari Jazz di Nuoro e ha diretto il Festival Internazionale di Bergamo. È stato più volte ospite di grandi organici quali la G.O.N. – Grande Orchestra Italiana l’ O.N.J. – Orchestra Nazionale Jazz Francese, la N.D.R. – Orchestra della Radio Tedesca di Amburgo, l’Italiana Instabile Orchestra, l’orchestra P.J.M.O. dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, l’Orchestra Sinfonica della R.A.I., l’Orchestra Sinfonica dell’Arena di Verona e i Virtuosi Italiani.
Fresu oggi è attivo con una miriade di progetti che lo vedono impegnato per oltre duecento concerti all’anno, ha suonato in ogni continente e con i nomi più importanti della musica afroamericana degli ultimi trent’anni. Ha inoltre lavorato molto alle produzioni discografiche con oltre trecentocinquanta opere di cui oltre ottanta a proprio nome o il leadership e ha avuto collaborazioni internazionali con le label francesi, tedesche, giapponesi, spagnole, olandesi, svizzere, canadesi, greche, spesso lavorando con progetti misti come il Jazz – Musica etnica, World Music, Musica Contemporanea, Musica Leggera, Musica Antica, collaborando tra gli altri con nomi di grande rilievo del panorama della musica internazionale tra i quali, M. Nyman, E. Parker, Farafina, O. Vanoni, Alice, T. Gurtu, G. Shuller, Negroamaro e gli Stadio.
Molte produzioni discografiche di Fresu hanno ottenuto prestigiosi riconoscimenti, premi sia in Italia che all’estero. Nel 2010 poi a fondato la sua etichetta discografica, la Tuk Music.

Nel giugno 2011 la Casa Editrice Feltrinelli pubblica il libro di Paolo Fresu, dal titolo Musica dentro.
È una bella opera, scritta da un’artista che racconta la sua storia, una storia di vita vissuta, tra il suo paese Berchidda, e i viaggi periodicamente che faceva e fa per raggiungere Bologna dove risiede e per spostarsi a Parigi per lavoro dove si può magari riposare nel suo appartamento parigino.
Un libro intenso pieno di sentimenti di ricordi di pensieri di quando si e ragazzi e magari si scoprono le belle cose della natura, come il luogo dove e nato questo paese Berchidda in Sardegna.
Un paese immerso anche nella natura selvaggia dove i profumi si liberano nell’aria, dando il senso della libertà e dei paesaggi che si aprono allo splendore della natura piena di vegetazione e il maestrale che ti brucia la pelle per la sua intensa e violenta sua caratteristica.
Ma in questo libro il musicista sardo ricorda la vita di artista, le prime esperienze nella banda del suo paese, i primi concerti da professionista con altri musicisti, che diverranno anche suoi collaboratori.

Paolo Fresu, dal suo libro ricorda nel capitolo Terra di quando: […]”Di giorno stavamo a Tucconi o nelle altre tanche che avevamo in affitto, la sera ritornavano a dormire in paese. Ci spostavamo con la Guzzina rossa di mio padre e tempo dopo, con la Cinquecento famigliare bianca stipata di sacchi di mangime e balle di fieno.
Se non c’era scuola potevo passare più tempo con lui, e le poche volte che ci fermavano a dormire in campagna ero al settimo cielo. I miei non si sono mai convinti a viverci e, nonostante tuttora passino buona parte della giornata tra la vigna, il giardino e l’oliveto, la sera rientrano a casa a Berchidda. Forse perché il paese rappresenta per loro il luogo sociale, o forse perché la campagna è stata da sempre il luogo della fatica al quale bisogna voltare le spalle.
La vecchia casa di Tucconi era semplice nel suo rigore. Una grande stanza di granito con un gran cammino a destra, una nicchia per tenerle cose a sinistra e un forno in mattoni all’esterno. Nel pastorizzale – il grande spiazzo davanti alla casa – giravano placidi animali di tutti i tipi: cani, gatti, galline e oche che scorrazzano liberamente mentre i maiali venivano rinchiusi per l’ingrasso nelle cherinas, i recinti di pietra.

L’acqua era pochissima e l’unica fontana che ne dava un filo era giù nell’orto, dopo la vigna, di fianco al canneto. Per riempire la brocca inpieghevamo anche un’ora, e in estate era tutto talmente arido e giallo che la terra si apriva in una ferita che sembrava inguaribile. Solo in autunno e in inverno il terreno intorno alla casa si colorata di verde e in primavera lo spettacolo del fiorire delle cose era la festa più grande che un bambino potesse vivere.
La corrente elettrica arrivò solo a metà degli anni Ottanta e fino ad allora abbiamo usato la luce a gas. All’imbrunire si accendeva il telone – la lampada a gas – che mandava un sibilo sordo e con i suoi riverberi accentuava le ombre dei pochi oggetti presenti in casa. Il fuoco acceso nella grande zeminea, il camino che emanava un bagliore rassicurante, per me era magia pura. Era lì che si arrostiva la carne quando si ammazzava il maiale, e anche sa pulpeddaha, una polpetta preparata dalle zie con la carne macinata e le spezie con la quale si facevano le salsicce. Le castagne cotte sotto la cenere calda o il formaggio sopra un pezzo di pane ladu o infilzato su una leppa, il coltello a serramanico, erano vere prelibatezze […]”.

Nel prologo del libro scritto da Paolo Fresu, dal titolo, Musica dentro il musicista parla in prima persona di una tipica giornata di un artista: “[…] La sveglia del mio cellulare suona un motivetto che sa di palme e di noci di cocco. Nonostante il mare non sia il mio ambiente preferito, odio essere svegliato da suoni duri e preferisco i rimandi, seppure immaginari, alle acque cristalline degli oceani e dei Caraibi. Apro gli occhi e sento l’altro suono piacevole delle foglie degli alberi dondolare da un vento leggero. Alle cinque e mezzo del mattino Berchidda dorme ancora in lontananza e solo i pastori escono con le 4×4 a radunare le greggi per la mungitura mentre a Tucconi il mondo animale è già in fermento.

Le valigie sono pronte. Preferisco andare a letto con le cose in ordine piuttosto che prepararle al mattino. L’aereo è per me il luogo naturale del sonno, soprattutto a quell’ora, e a parte lo sforzo di un veloce caffè è necessario che la mente dilati il tempo del riposo fino a quando non sarò seduto nel posto assegnatomi al check in.
In genere quello accanto al finestrino.
La borsa nera del computer e la Reunion Blues con dentro la tromba e il flicorno sono già vicino alla porta d’ingresso al piano terra mentre la valigia grigia è ai piedi del letto in attesa di essere chiusa.

Anche stavolta mia madre a insistito perché mi portassi un po’ di provviste; pane ladu comprato fresco la mattina del giorno prima, qualche dolce fatto in casa e due grandi melograni colti dall’albero del giardino. Mentre sistemo meglio le ultime cose scorgo però, nascosto in mezzo ai vestiti un barattolo di bonbon alla menta che lei a comprato da Germana e che ha camuffato con arte. Sa che sono goloso e che mi fa piacere, anche se faccio finta di arrabbiarmi.
In fondo non capita spesso che io prenda un volo diretto per Bologna e bisogna approfittarne. In genere da Olbia parto per chissà dove, e a volte prima di tornare a casa, nella mia citta emiliana, passano intere settimane durante le quali giro in lungo e in largo l’Europa e il mondo […]”.

“[…] “Bene finalmente posso lasciare la casa,” penso, e con questo pensiero esco trascinandomi appresso i bagagli dopo aver chiuso a chiave la porta a vetri stile inglese che da sulla veranda. È ancora notte fonda, e la campagna respira di ombre fantastiche e rumori familiari. Quelli dei campanacci del gregge di Trotto, il terreno dei nostri confinanti, con le pecore venute a dormire protette chijura naturale di ru’ selvatico, la siepe che suddivide le rispettive tanche. Quello degli zoccoli dei cavalli che già scalpitano in attesa delle prime luci dell’alba e dell’arrivo di mio padre con la sua Panda bianca scalcinata. E quelli di un treno merci solitario che taglia la stretta valle unendo Chilivani a Olbia e al mare passando dietro la casa cantoniera rossa, ormai rudere di Tucconi […]”.

Paolo Fresu, prosegue nel racconto: “[…] “Chissà se durante questi pochi giorni passati a casa ho fatto veramente tutto quello che era necessario, “mi dico.
L’impressione è che non ci sia mai il tempo a sufficienza e quando parto da Berchidda ho spesso la sensazione di non aver vissuta abbastanza. So anche che ritornerò presto, ma che sarà uguale […]”.
“[…] Arrivo al parcheggio dell’aeroporto. Prendo le valigie dal bagagliaio e chiudo la macchina annotando mentalmente il numero del posto. È il 326, lo stesso della combinazione della mia valigia. Spedisco un sms a mia cugina Liana che recupererà l’auto questa mattina stessa, ma prima verifico rapidamente il danno subito.
Non solo lo specchietto di sinistra è stato tranciato di netto ma, prima di arrivare a disintegrarlo, quello dell’altra macchina mi ha lasciato una lunga riga scura sulla fiancata del cofano. È passata parallela alla mia Tipo, a neanche un dito di distanza. Sono vivo per miracolo.
Quando arrivo a Bologna, visibilmente scosso, racconto tutto a Sonia, mia moglie, che mi aspettano aeroporto con la vecchia Mini. Non sono in me e lei se ne accorge subito. Sono ancora lì, con il bonbon alla menta di mia madre, con Lola che scodinzola aggrappata alle mie ginocchia e con quell’immagine dei fari che si fa sempre più definita fino a confondersi con l’orizzonte fotografato e archiviato nella mia mente dall’obiettivo dello specchietto retrovisore […]”

“[…] Scrivo per diletto da sempre. La scrittura mi piace perché sa di suono. In questi anni ho sempre scritto per me stesso, a volte in italiano ma soprattutto in sardo logudorese, la mia prima lingua. Mi piace scrivere pensieri brevi, che abbiano un inizio e una fine, e la scrittura talvolta è il pretesto per andare lontano e per essere al tempo stesso ancora più vicino alle cose.” […] Fresu termina con le ultime parole del prologo del suo libro dal titolo: “Musica dentro, Editore Feltrinelli, 2009 Milano.
“[…] Chi ha letto i miei pensieri o le note di copertina concepite per i cd degli amici mi ha spronato a scrivere questo libro. Se ho deciso di farlo è stato soprattutto per il bisogno di raccontare una storia normale che altrimenti, dopo quella mattina d’autunno, sarebbe rimasta solo nelle note dalla mia tromba […]”.
(Il testo virgolettato è tratto dal libro dal titolo, Musica dentro, autore Paolo Fresu, Casa Editrice Feltrinelli, Universale economica / Saggi 2009, Milano).

Nel 2003 Fresu riceve la Laurea Honoris Causa dell’Università la Bicocca di Milano, in Psicologia dei processi sociali, decisionali e dei comportamenti economici.
Nel 2015 quella della Berklee School di Boston e 2017 il Nettuno d’Oro a Bologna.
Nel periodo 2016 / 2017 il musicista è stato ambasciatore dell’UNESCO Giovani per l’Italia e nel 2017 è Commendatore della Repubblica Italiana.
La sua attività discografica vanta oltre 450 dischi, tra i quali oltre novanta a suo nome e come Co-leader e quella concertistica con oltre duemilacinquecento concerti in tutti e cinque continenti.

Attualmente Paolo Fresu dirige oltre al proprio quintetto con Tino Tracanna, Roberto Cipelli, Attilio Zanchi, Ettore Fioravanti, il quartetto Devil, con Bebo Ferra, Paolino Dalla Porta e Stefano Bagnoli, il quartetto di soli fiati Brass Bang!, il duo con Arild Andersen, il duo con Gianluca Petrella il duo con Uri Caine, spesso con il Quartetto d’archi Alborada ed alcuni altri duo con pianisti vari, da Roberto Cipelli, Danilo Rea, Dado Moroni, Bojan Zulfikarpasic, Rita Marcotulli, Dino Rubino, Ludovico Einaudi, Chano Dominguez e Omar Sosa.

Le collaborazioni di Fresu con questi gruppi sono spesso frutto di progetti musicali e di opere, come il progetto Scores! con il Quartetto Alborada, con le rivisitazioni filologiche da Porgy and Bess e Birth of the Cool, assieme all’Orchestra Jazz della Sardegna / Blue Note Orchestra e i progetti legati alla musica tradizionale della sua regione, la Sardegna Sonos e Memoria con Elena Ledda, Luigi Lai, e il Coro Su Cuncordu e du Rosariu, di Santu Lussurgiu, Antonello Salis, Federico Senesi Ed altri, ed infine Il Rito e Memoria con le tre Confraternite vocali sarde di Castelsardo, Orosei e Santu Lussurgiu e con il Quatetto Alborada.
Naturalmente Fresu porta avanti nella sua attività di musicista tanti progetti oltre a questi che riguardano, la musica per il Teatro, la musica per Poesia e Letteratura, la musica per Danza e Baletto, Sonorizzazioni dal vivo, come La Fanciulla di Amalfi, composta da Paolo Fresu Quintet su commissione del Festival Midnight Movie di Salerno nel 1989.
Altre opere di progetti come la Musica per Video e Documentari, la Musica per il Cinema e tanti altri progetti che il musicista porta avanti assieme alla sua attività concertistica con il suo gruppo jazz, il quintetto.

Inoltre molti sono stati i riconoscimenti che il trombettista a ricevuto nella sua carriera che prosegue ancora senza sosta e arricchendo così la sua arte e la sua cultura musicale, quella cultura musicale che proviene dagli Stati Uniti, e che si chiama Musica Jazz.
La vita di un artista come è quella di Paolo Fresu è fatta di soddisfazioni ma anche di sacrifici.
Metaforicamente parlando si dice che la vita di un artista, qualsiasi artista è una vita di vagabondo.
In giro tutto l’anno 365 giorni, sempre in viaggio, poco tempo per riposare, un giorno sei a Parigi, un giorno sei a Monaco di Baviera, il giorno dopo sei a Roma e così via.
Il musicista che suona Musica Jazz, non è un estrtereste, ma è un artista che esprime l’arte musicale con il suo stile e porta avanti questa cultura che dura da anni, anzi da secoli, la Musica Jazz.

Un modo che possiamo chiamarlo filosofico, di interpretare un genere musicale, come questo.
Chiamare un musicista jazzista e una parola riduttiva, nel senso che questo artista è nella sua integrità, un musicista completo, nel senso che sa suonare altri stili musicali.
Quando invece il trombettista Paolo Fresu improvvisa suonando uno standard che non è altro che un brano di musica leggera e che in europa, il nostro Continente viene chiamato sempre verde, lui, il musicista improvvisa, prima sulla melodia e per poi fare l’improvvisazione del brano sugli accordi armonici.
Il giro armonico è una successione di accordi considerati all’interno di una specifica tonalità.
Tale successione viene costruita seguendo delle regole teoriche ben precise.
Oltre ad avere una finalità didattica, il giro armonico viene sfruttato come base per l’improvvisazione e molto spesso rappresenta la struttura armonica di base di tanti brani, in particolare nella Musica Leggera.

Il giro armonico si ottiene, all’interno di una determinata tonalità, prendendo in considerazione quattro accordi costruiti su quattro gradi della scala maggiore.
Sempre dal libro scritto dal trombettista sardo Paolo Fresu, racconta la prima esperienza in uno studio di registrazione a Bari, nel 1983: “[…] Bari, 1983. Estate tra le bianche e basse case del porto. Lo studio di registrazione era al centro di quella città caotica che non conoscevo. Il sassofonista Roberto Ottaviano mi aveva invitato a registrare con Giancarlo Schiaffini, Carlo Actis Dato, Franco Feruglio e Marcello Magliocchi. Aspect, si intilolo’ il cd poi pubblicato dalla Tactus. Per me era la prima volta in uno studio di registrazione e fu in quella occasione che per la prima mi ascoltai. Lo studio di registrazione può essere una brutta bestia e, soprattutto per i musicisti non troppo esperti, rischia di rovinare il lavoro o inquinare le dinamiche creative, a volte alternandole. In genere bisogna ricreare la situazione acustica che uno si aspetta e in cui di riconosce dal punto di vista sonoro. Sono pochi gli studi che suonano bene, a parte i vecchissimi dove una volta si registravano le grandi orchestre o gli studi televisivi e radiofonici.

Bisogna dunque dare precise indicazioni al tecnico del suono nella speranza che questi comprenda volo in modo da non mandare a monte tutto il lavoro e provocare un cortocircuito nella testa del musicista. In più c’è sempre la tensione creativa e ogni sena richiede un livello di grande concentrazione, soprattutto per leader che deve pensare a tutto e che deve suonare seguendo l’organizzazione della musica e capendo al volo se, oltre all’aspetto interpretativo, il brano a anche quella tensione che può farne un’esecuzione unica e di qualità. Io ci ho messo molto tempo a capire non solo come evitare di cadere in questi tranelli ma approfittare dello studio per farlo diventare quasi un nuovo strumento compositivo. Questo grazie alle sedute di registrazione con il Quintetto e grazie anche alle numerose sedute in qualità di sideman e in progetti molto diversi dal punto di vista sonoro e della direzione musicale. Vedendo il lavoro di tanti colleghi diversi ho potuto apprendere molto e oggi lo studio non mi fa paura.
All’epoca, nonostante le esperienze fatte, ero assolutamente immaturo dal punto di vista della filosofia del suono.

Non avevo ancora sviluppato un vero legame fisico con la tromba e non provavo il piacere necessario di apprezzarla fino in fondo. Del resto nessuno me l’aveva insegnato. Ne in banda ne’ tantomeno al Conservatorio. Ti Bustianu Piga, il maestro di Berchidda, insegnava tutti gli strumenti e non era in grado di approfondire una ricerca sul suono e sul rapporto profondo con la tromba, mentre l’insegnante del conservatorio era troppo ottuso per averne una visione filosofica. Avendo avuto sin dall’inizio, grazie alla banda e poi ai complessi, la possibilità di suonare con altri, concepivano la musica come qualcosa di condiviso e corale. Se da una parte questo era positivo, dall’altra mi aveva però impedito di stabilire un rapporto intimo con lo strumento. Era tale l’abitudine alla musica d’insieme che quando mi ritrovavo a casa a suonare in solitudine mi mancava tutto il resto e non provavo piacere. Né fisico né emozionale. Fino ai primi anni Ottanta non riuscivo nemmeno a immaginare il suono solo della tromba, nudo e crudo. Avevo paura di svelarlo ma non volevo ammetterlo. Durante le serate nelle piazze spesso venivano fatte delle registrazioni su cassetta con una piastra Teac, ma non ero mai contento del risultato e davo la colpa alla scarsa qualità del macchinario.

A Modena, per Palla di fuoco, avevo partecipato all’incisione soltanto suonando il Minimoog e cantando nei coretti. Lo studio di Bari sarebbe stato quindi la prima prova vera e affidabile in grado di decretare la qualità del mio suono. Suono che io trovavo nasale e con poche armoniche. Del resto l’esperienza del Conservatorio non era stata illuminata. Anzi, aveva contribuito a confondermi le idee perché durante la lezione si parlava solo di suono chiaro e schiacciato da trattare unicamente attraverso le dinamiche del piano e del forte. È vero che solo così si potevano interpretare Bach, Handel, Vivaldi, ma per il mio insegnante quello era l’unico modo possibile e tutto il resto era orrendo e proibito. Non parliamo poi del suono scuro del Jazz di quello di Miles Davis, sporco e soffiato…
Bari avrebbe quindi assistito alla somma di tutte le mie esperienze musicali e mi avrebbe permesso di fare finalmente i conti con il mio suono. Non quello che sentivo io all’interno, ma quello che avrei potuto partecipare esetticamente dall’altra parte del vetro, seduto su un comodo divano. In altre parole, quello che in genere sentivano gli altri mentre mi ascoltavano.

La musica di Ottaviano era molto libera e avanzata rispetto a quello che avevo fatto fino ad allora. C’erano nuclei ritmici spesso ripetitivi sui quali s’innestavano i temi contrappuntati della tromba, del sax e del trombone, mentre il basso e la batteria lavoravano incessantemente alla costruzione del tessuto ritmico e dello swing. Io presi un paio di assolo con la tromba sordinata spostandomi in una direzione più jazz rispetto ai brani più liberi o strutturati su basi aleatorie. Anche se quella musica non era esattamente nelle mie corde, cercai di dare il massimo e alla fine scoprii che il mio suono non era poi così male nonostante avesse bisogno di crescere e di maturare. Ascoltando dalla regia mi resi conto con stupore non solo che il timbro era sufficientemente caldo e umano, ma che si amalgamata bene con quello degli altri strumenti suonati da colleghi certamente più esperti di me.

Scoprii dunque non solo il valore dell’originalità espressiva ma anche la magia e il mistero di contribuire alla creazione di un suono nuovo, costituito dalla somma delle diverse personalità timbriche degli interpreti.
Vedevo i miei colleghi e Ottaviano annuire all’ascolto del tema che avevo appena esposto o dell’assolo, come se fossi stato un solista navigato capace di camminare sull’acqua o, peggio, suoi carboni ardenti sopra i quali avevo l’impressione di trovarmi.
Suonavo solo la tromba. Il flicorno l’avrei scoperto a breve comprato di seconda mano a Sassari da un ex collega di conservatorio. Solo a metà degli anni Novanta credo di essere arrivato a una mia visione personale e matura del suono e della musica.
Fino a quel momento avevo l’impressione di muovermi a tentoni cercando di raggiungere una meta che continuamente mi sfuggiva, e solo dopo, guardandomi indietro, ho visto che in realtà avevo percorso una strada dritta chiara, accompagnato sempre dal suono di Miles e Chet che mi riempiva la mente e le giornate.
Durante i concerti con il Quintetto e con le altre formazioni mi rendevo conto che l’unica cosa importante era l’essenza sonora e che solo grazie a quell’essenza sarei riuscito a trascendere dalle note del tempo; questa è il respiro della voce che si nascondeva dietro lo strumento erano i primi e unici elementi che mi colpivano come un pugno allo stomaco quando ascoltavo i dischi dei miei musicisti preferiti. Mi affascinava la loro capacità di racconto attraverso l’utilizzo di pochissimi materiali. Ogni nota era un evento, e io scoprivo sempre più nella tromba un incredibile potenziale comunicativo […]”.
Il testo virgolettato è tratto dal libro dal titolo: “Musica dentro, autore Paolo Fresu, Editore Giangiacomo Feltrinelli, prima edizione ottobre 2009.
Serie Universale Economica / Saggi – giugno 2011.
Seconda edizione settembre 2013, Milano.
Nel racconto che Paolo Fresu fa nel suo libro dal titolo, Musica dentro, parla della fisicità e la psicologia del suono, che scoprì non in Conservatorio ma in un’altro contesto.
Il suono è già di per sé un’entità “vivente”, seguendo una parabola ben delineata e scandita da diverse fasi temporali: generalmente un attacco, una fase di “regime” ed una di decadimento.

Riflettere su questo aspetto è di fondamentale importanza, tanto che negli anni Settanta in Francia è nota addirittura una corrente di pensiero, lo “spettralismo”, che poneva al centro delle sue ricerche proprio il singolo suono e la variazione nel tempo della frequenza e della dinamica delle due parziali.
Tale riflessione nasceva appunto dalla convinzione che la “vita” di un suono, dalla nascita, seguendone l’evoluzione fino al suo spegnersi, potesse costituirsi già di per sé una forma musicale autonoma.
È ovviamente un pensiero strettamente legato all’analisi dello spettro tramite calcolatore, che rende possibile risalire al “patrimonio genetico” di ciascun suono come sottoponendolo ad una gigantesca lente d’ingrandimento; ciò rappresentò una notevole ampliamento campo di indagine ancor oggi al centro di dibattiti e ricerche di natura teorica ed estetica, perché postula una strutturazione formale insita all’interno di ogni singolo suono.
Immaginiamo ad esempio di percuotere un enorme tam – tam, di chiudere gli occhi e di ascoltare come il timbro evolve disegna una “storia” musicale ben delineata: basterebbe già a convincerci di quanto sia affascinante”.

“Il suono è come un mattone di un edificio.
Storicamente, invece, siamo abituati a considerare i vari suoni come singole cellule di un organismo più complesso, cioè come elementi dipendenti dal contesto musicale nel quale sono inserti. L’articolazione dei suoni nel tempo e la loro strutturazione di gesti e figura da vita alla forma musicale, vale a dire una vera e propria strategia degli eventi proprio come avviene nel caso di un lungometraggio cinematografico. La “musica” non è altro che questo: pensiero che si fa suono, costante feedback tra emozione ed estremo rigore che si manifesta attraverso l’organizzazione di cellule musicali di un lasso di tempo.
Prende così vita una sorta di “drammaturgia”degli eventi di cui il compositore è supremo regista, costantemente alla ricerca di un equlibrio tra libertà e rigore, tra logica e invenzione, tea fantasia e coerenza.

E gli elementi “le pietre per costruire” (per dirla come Hermann Hesse (1) ) di cui dispone il compositore per esternare la propria poetica devono appartenere al peculiare linguaggio musicale, vale a dire linee melodiche, aggregati armonici, articolazioni ritmiche e scelte ragionate.
( Il testo virgolettato dal titolo La Filosofia e psicologia del suono, e tratto dal sito online, musica.unimore.it ).
Fine.

Post Scriptum.
Agli appassionati di Musica Jazz, consiglio il libro dal titolo, Musica dentro, autore Paolo Fresu, Editore Giangiacomo Feltrinelli – Prima edizione ottobre 2009 – seconda edizione settembre 2013. Universale Economica Feltrinelli / Saggi, giugno 2011 – Milano.

A cura di Alessandro Poletti – Foto Redazione

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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