Sono passati ventinove anni da quel 10 aprile 1991, quando alle 22,03 il traghetto Moby Prince lasciava un molo del porto di Livorno; poco più di venti minuti dopo il marconista lanciava il mayday dopo che il traghetto aveva urtato la petroliera Agip Abruzzo, causando la fuoruscita di alcune tonnellate di petrolio che, a causa delle scintille provocate dalle lamiere delle due navi, prendeva fuoco, dopo essersi riversato non solo in mare ma anche ed in buona parte sulla Moby.

Alla capitaneria di porto, nei primi concitati minuti, tutte le preoccupazioni si rivolsero verso la petroliera, senza rendersi conto che era il traghetto e le centoquaranta persone a bordo, tra personale e passeggeri, ad essere nei guai; tutto ciò anche a causa di quanto segnalato dal capitano della Agip Abruzzo, che ritenne l’impatto fosse avvenuto con una bettolina.

Ci volle oltre un’ora perché ci si accorgesse del traghetto, che nel frattempo aveva i motori in funzione ed aveva percorso alcune miglia; a bordo, vista la chiusura delle porte taglia fuoco, gran parte degli ospiti era stata portata nel salone centrale, ritenendo fosse il posto più sicuro ed al riparo dal fuoco, mentre proprio l’estendersi delle fiamme impedì l’evacuazione del salone medesimo.

I primi soccorritori, due ormeggiatori a bordo di una piccola imbarcazione, trassero in salvo un mozzo del traghetto, aggrappatosi al parapetto di poppa e gettatosi poi in mare all’arrivo dei soccorritori; proprio il mozzo sarà l’unico superstite della tragedia.

Più tardi raggiunsero il traghetto in fiamme alcuni rimorchiatori e mezzi dei vigili del fuoco, che tentarono di raffreddare le lamiere con potenti getti d’acqua, permettendo così ad un marinaio imbarcato su di un rimorchiatore di salire brevemente a bordo, gusto per il tempo necessario di agganciare un cavo per il traino del traghetto fumante.

Solo il mattino seguente, quando il calore delle lamiere lo permise, fu possibile ai soccorritori salire a bordo, trovandosi davanti ad uno spettacolo agghiacciante di morte; non c’erano superstiti a bordo, anche se successivamente fu possibile accertare come fu il monossido di carbonio, diffusosi anche attraverso il condizionamento d’aria (ancora in funzione quando la nave fu ispezionata), a causare la morte di molti di coloro rifugiatisi nel salone, mentre altri cadaveri furono rinvenuti in punti diversi del traghetto.

Come capita spesso in questi casi, in Italia, iniziò la lunga trafila degli accertamenti, con periti che avevano ciascuno la propria teoria, oltre a dichiarazioni spesso fuorvianti, quando non completamente errate; come le immagini girate di prima mattina, che mostravano un corpo sul ponte ma non carbonizzato, cosa che invece accertarono coloro che salirono successivamente sul traghetto.

La cosa fece molto scalpore, anche perché pareva dimostrare che qualcuno fosse ancora vivo ben dopo lo spegnimento delle fiamme; c’era perciò chi riuscì ad uscire, anche se il notevole calore ancora sprigionato gli fu fatale e portò poi alla carbonizzazione del cadavere. La tesi fu smentita da alcune perizie, mentre secondo altre la tesi era ben più che probabile.

Anche le condizioni atmosferiche di quella serata furono causa di tesi assai diverse, dato che secondo alcuni la visibilità era scarsa a causa della nebbia, mentre per altri la nebbia non c’era mai stata e non poteva essere quella la causa dello scontro tra le due navi; si parlò inoltre della distrazione dell’equipaggio del traghetto a causa della partita che si giocava quella sera, Juventus-Barcellona, che in troppi seguivano anziché essere al loro posto di manovra, così come fu accertato che l’impianto antincendio era inspiegabilmente spento e che neppure quello manuale fu messo in funzione.

Tante tesi, troppe, per lo più tendenti ad addossare le colpe al capitano Chessa, della Moby Prince, e del proprio equipaggio, probabilmente per non dover pagare i premi assicurativi ai parenti delle vittime; proprio i familiari delle vittime si riunirono in due associazioni, la “140” e la “10 aprile”, costituitesi parte civile nel primo processo, iniziato nel 1995.

Da allora in realtà, i processi sono stati tre, senza giungere (come quasi sempre capita in Italia in questi casi) ad una conclusione che accertasse incontrovertibilmente la verità; nel 2013 proprio le associazioni dei parenti avviarono una campagna tesa proprio all’accertare come si svolsero i fatti di quella tragica notte, consegnando anche all’allora Ministro della Giustizia un dossier tecnico che smentiva le conclusioni della Procura di Livorno del 2010 e la relativa archiviazione del processo, cosa che nel 2014 portò alla costituzione di una Commissione Parlamentare per fare finalmente luce sull’accaduto.

Il 22 gennaio 2018 la Commissione pubblica la propria relazione finale di ben 492 pagine circa l’accaduto, che possiamo brevemente sintetizzare. La tragedia non è riconducibile alla presenza di nebbia e alla negligenza del comando del traghetto
La nebbia è stata immotivatamente utilizzata come giustificazione del caos dei soccorsi coordinati dalla Capitaneria di porto.

L’indagine della Procura di Livorno nel processo di primo grado si è rivelata carente e condizionata da fattori esterni
L’accordo assicurativo siglato due mesi dopo l’incidente tra gli armatori delle due navi coinvolte ha condizionato l’operato dell’Autorità giudiziaria, a dimostrazione di ciò, a seguito di tale accordo, l’Agip Abruzzo è stata dissequestrata prima della definizione della fase processuale di primo grado, impedendo ogni ulteriore approfondimento.

L’accordo prevedeva che la società ENI si assumesse i costi relativi ai danni alla petroliera e di inquinamento e la società NAVARMA i costi di risarcimento delle vittime del traghetto, chiudendo, di fatto, ogni possibile ipotesi di responsabilità.

Pur essendo la Moby Prince sotto sequestro, era comodamente accessibile a chiunque. L’indagine medico-legale è stata eseguita in maniera lacunosa, concentrandosi sul riconoscimento delle vittime, senza appurare le cause della morte di ciascuna vittima.

L’Agip Abruzzo, al contrario di quanto riportato in fase di indagine processuale, si trovava in zona di divieto di ancoraggio. L’errore di posizionamento durante le indagini ha portato ad escludere ogni responsabilità al comando della petroliera.

La Moby Prince ha subìto, per cause non chiare, un’alterazione nella rotta di navigazione che potrebbe aver influito sulle cause dell’impatto. La morte dei passeggeri e dell’equipaggio non è avvenuta per tutti entro trenta minuti, come invece riportato negli atti processuali.

La Capitaneria di porto non aveva gli strumenti necessari per individuare la seconda nave, la Moby Prince, sebbene la responsabilità dei soccorsi fosse a suo carico, rivelandosi carente nella gestione della gravità della situazione e del tutto incapace di coordinare un’azione di soccorso .Il procedimento penale a carico di Ciro Di Lauro per la tentata manomissione del timone, non ha chiarito le motivazioni del gesto.

Il comportamento di ENI si è rivelato non chiaro a partire dalla comunicazione sulla provenienza della petroliera. L’Agip Abruzzo proveniva infatti da Genova e non da Sidi El Kedir (Egitto), come dichiarato, di conseguenza anche le dimensioni e la tipologia del carico potevano essere differenti da quanto dichiarato. La cisterna trovata aperta dopo l’incidente poteva quindi ipoteticamente contenere materiale in trasferimento su una bettolina.

Giustizia non è ancora fatta, anche se sono passati ben ventinove anni, ma molte, troppe cose tra le cose accadute quella sera non sono andate come avrebbero dovuto o come sono state indicate dalla prima inchiesta, e quei centoquaranta morti meriterebbero la verità.

Il Direttore responsabile Maurizio Vigliani – Foto Redazione

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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