Conosciuta e tuttora citata col suo nome coloniale Madras, l’attuale Chennai è una delle più grandi città dell’India. Capitale dello Stato di Tamil Nadu, si affaccia sullo splendido Golfo del Bengala: dei suoi quattromilionitrecentomila abitanti oltre ottocentomila non hanno accesso all’acqua potabile. È questo il primo dato che tratteggia la duplice caratterizzazione di questa città dove coabitano modernità e cultura, ricchezza e povertà, sfarzo e miseria, industriali e pescatori, vivi e morti, anime perse e anime disperse. Persone che vivono, altre che sopravvivono.

Mi fermo per fare un respiro profondo, chiudo gli occhi e immagino di essere lì, nello spazio senza tempo, immersa in quella dualità.
Mi addentro dapprima nella parte commerciale e industriale della città: non mi faccio spaventare dalla sua grandezza e tantomeno dal caos che vi regna; scopro che qui risiede l’80% della produzione automobilistica di tutta l’India, e pure di talco: accanto alle industrie infatti si trovano proprio delle cave di talco. Salgo quindi a bordo di un tuk tuk, e mi faccio scarrozzare tra le strade di Maylapore, quartiere ricco di spiritualità dove si praticano rituali ancestrali; scendo e faccio una passeggiata tra i negozi del centro dove provo dei sari, i tipici abiti indiani, e ne acquisto qualcuno come souvenir. Già che ci sono, mi faccio fare un tatuaggio all’hennè. Per merenda mi concedo un kheer, tipico budino indiano, che mi viene servito accompagnato da un thè chai. Una visita è d’obbligo ai giardini della Theosophical Society dove vive il banano più vecchio del mondo: ha ben 400 anni; infine decido di assistere ad uno spettacolo di bharatanatyam, la tipica danza indiana che ha avuto origine proprio nello stato di Tamil Nadu.

Di templi da vedere a Madras ce ne sono un’infinità, scelgo il tempio di Kapaleshwarar eretto in onore di Shiva nel 1500. Al suo ingresso una torre alta una quarantina di metri con un’infinità di statue e statuette colorate che rappresentano l’immenso pantheon delle divinità indiane. I miei sensi, alla vista di architettura e scultura, sono inebriati dal forte odore di incenso e spezie e dal suono di gong e sitar: fuori anime stanche o vecchie, persone malate e in difficoltà chiedono l’elemosina, o almeno una benedizione. Immersi in questa atmosfera così surreale, uomini e donne nelle loro bancarelle intrecciano collane e composizioni di fiori colorati e profumati: a loro disposizione migliaia di orchidee e rose, quasi a esorcizzare il dramma della miseria, per ricordarci che se riempiamo la vita di colore e profumo, passa meglio.

Dalla città passo al lungomare. Quello di Marina beach è il secondo lungomare più grande del mondo: di fronte, il Golfo del Bengala. I pescatori stanno tornando al porto con le loro imbarcazioni colorate, stanchi per aver trascorso ore sotto al sole ma fieri del loro misero raccolto. Donne vestite coi sari fanno il bagno, e il mare diventa un acquerello in cui tutti i colori del creato trovano spazio, e vita. Alcuni bambini giocano, sulla riva, con un cavallo a dondolo in legno e una giostra meccanica, che assomiglia alle nostre catenelle: entrambe sono rotte, ma i bimbi sono felici. Sorridono. E in quel sorriso c’è tutta la dignità dei loro padri, delle loro madri, dei loro avi e dei figli che verranno: la dignità di una parte di popolo che fa con quello che (non) ha.

Qualche anno fa, camminando su quella battigia, un uomo di grande fede tornò alla Casa del Padre: il suo nome era Mario, ed era soprannominato Mario Banana perché stava sempre coi machachi. Era un frate dell’Ordine dei Francescani; nel suo cuore portò le parole del Cantico dei Cantici che ripeteva sempre: “Lodato sii mio Signore, per sorella acqua, la quale è molto utile e umile, preziosa e pura”.

A cura di Sara Patron – Foto Images

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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