LA STORIA DELLA CANZONE E DELLA MUSICA BLUES, DEGLI SCHIAVI AFROAMERICANI.
Parte prima.

“Il gioioso grido di libertà per gli schiavi chiuse un periodo che si era aperto tre secoli prima, quando il primo di alcuni milioni di africani, che dovevano poi essere ridotti in schiavitù, fu imbarcato verso il nuovo mondo. I primi schiavi introdotti nelle colonie nordamericane erano in realtà dei servitori legati da un contratto, che potevano riavere la libertà dopo avere lavorato un numero concordato di anni, ma già verso la fine del Diciasettesimo secolo vi era molto diffusa la completa schiavitù.
Le colonie della Nuova Inghilterra, con le loro piccole comunità agricole che si stavano sviluppando e prosperavano, non potevano disporre di una massa di forza lavoro a buon mercato: era nel Sud, dove gli insediamenti erano meno numerosi e il territorio quasi tropicalmente fertile, che l’offerta di lavoro scarseggiava; i lavoratori bianchi erano insufficienti e comunque non abbastanza attivi da dedicarsi su vasta scala, come sarebbe stato necessario, a far produrre queste terre al massimo delle loro possibilità.
Nel 1661 la Virginia, seguita presto dalle altre colonie, legalizzava la schiavitù.

Il raccolto del tabacco era l’attività più congeniale al lavoro degli schiavi, seguito da quello del riso, dello zucchero e del cotone. Gli africani, in numero sempre crescente, venivano ingannati, intrappolati e catturati, attirati con lusinghe sulle navi degli schiavisti e trasportati nelle condizioni più tremende al di là dall’Atlantico. Molti erano stati barattati con la melassa e con il rum estratti dalla canna da zucchero coltivata dagli schiavi che li avevano preceduti.
Incatenati e ammassati nelle stive, moltissimi morirono per i disagi, disidratati o asfissiati, e i loro corpi venivano gettati in mare. Dei trentacinque o quaranta milioni coinvolti nel commercio con le Americhe in un periodo di quasi tre secoli, si stima che solo un milione e mezzo sopravvisse al viaggio.
Al tempo della Guerra di indipendenza (1775-1783) gli stati del Nord dichiararono illegale la schiavitù, ma il Sud non lo fece: da essa dipendeva la ricchezza delle sue piantagioni, come pure la prosperità dei mercanti di schiavi di Bristol e di Liverpool.

L’invenzione della sgranatrice di cotone – una macchina che era in grado di separare il cotone dal seme e dalle altre impurità – a opera di Eli Whitney nel 1793, portò a un boom di questa merce e, tra altri effetti, ebbe quello di contribuire alla crescita dell’industria tessile del Lancashire. In Giorgia e nella Carolina del Sud la produzione fu incrementata, e la zona del cotone si allargò a ovest verso l’Alabama, il Mississippi, la Louisiana e in infine il Texas.
Quando il commercio degli schiavi fu abolito ufficialmente 1807, gli stati del Sud praticamente ignorano ill procedimento e il commercio illecito continuò. Il bando ebbe il solo effetto di aumentare il valore degli schiavi e la procreazione fu incoraggiata fino al punto – in certi casi – di utilizzare gli uomini e le donne più prestanti per produrre prole da vendere.

Gli schiavi non crearono solo la ricchezza del Sud, ma anche il suo paesagggio: il loro lavoro fu usato per costruire case, banchine, ponti, strade, e più tardi ferrovie. Facendo capo alle piantagioni, squadre di schiavi venivano affittate alle società di costruzioni dai loro padroni, causando un notevole risentimento tra i bianchi poveri che erano in concorrenza per ottenere gli stessi lavori. In tutti gli stati del Sud queste squadre di schiavi erano onnipresenti e restavano inquietudine. Fu la guerra civile del 1861 – a dare il colpo di grazia alla schiavitù nel Sud […]”.
“[…] Strappati al loro ambiente, terrorizzati e disorientati, i superstiti delle traversate atlantiche portavano con sé quel poco che potevano del loro modo di vivere. In un volume pubblicato a Londra nel 1816, George Pinkeckard descriveva il carico di una nave appena arrivata: ” Si divertono molto a raccogliersi in gruppi e a cantare le loro canzoni africane preferite; la loro energia motoria è assai superiore all’armonia della loro musica”.
Più avanti lo stesso autore osservava un gruppo su una nave proveniente dalla Guinea e ancorata nel porto di Savannah, in Georgia : “Li vedevamo ballare, li sentivamo cantare. Nella danza muovevano poco i piedi, ma slanciavano le braccia tutto attorno, e contorcevano e dimenavano il corpo in un gran numero di atteggiamenti disgustosi e indecenti. Il loro canto era un urlo selvaggio privo di qualsiasi grazia o armonia, e salmodiato lungo un accordo aspro.
Ma la cultura della maggioranza degli africani fu rapidamente sopressa: le tribù venivano divise intenzionalmente, le loro religioni proibite, e in certi casi anche la loro musica venne a tacere. I Black Codes ( Codici per i neri) del Mississippi, per esempio proibivano di suonare i tamburi, per timore che gli schiavi potessero comunicare così, e organizzare rivolte.

Solo a quegli elementi di vita africana che assecondano i gusti e gli interessi del padrone fu permessa la sopravvivenza, e tra questi, i gruppi di canto ritmico il lavoro che c’erano stati fu un elemento tradizionale dell’agricoltura in Africa.
Ma i canti di lavoro non erano la sola forma musicale permessa dai proprietari bianchi, per i quali era una gustosa distrazione osservare gli schiavi mentre facevano la loro musica strana e ibrida.
Nel suo diario del 1774, Nicholas Cromwell descriveva gli schiavi del Maryland nell’atto di danzare al suono di un banjo ricavato da una zucca vuota, “qualcosa che voleva essere una chitarra, ma con sole quattro corde”. Cantavano “con spirito molto satirico” il modo in cui erano trattati. “La loro poesia e l’equivalente della loro musica: rozza e incolta. ”
L’abilità musicale poteva persino aumentare il valore di uno schiavo sul mercato: ci sono riferimenti frequenti al talento musicale nelle colonne dedicate alla pubblicità degli schiavi sui primi giornali americani. Questi annunci offrivano gli schiavi sia in vendita sia in affitto (per un giorno, una settimana, un mese o anche un anno) o promettevano ricompense per la cattura dei fuggiaschi. Questo o quel fuggiasco “costruisce violini” o “sa suonare il violino” o il flauto; un altro può essere “abile” e saper leggere e scrivere; un altro è “un buon violinista” […]”.
(Il testo virgolettato è tratto dal libro dal titolo: “Blues, la musica del diavolo”, autore Giles Oakley, traduzione di Umberto Fiori. Casa ShaKe Edizioni, Milano. 2009 ShaKe).

“[…] Negli ultimi anni della schiavitù, i bianchi avevano cominciato a interessarsi ad alcuni degli aspetti della cultura nera, ma l’ironia della sorte volle che la moda della musica degli schiavi fosse creata non dai veri “neri” ma da esecutori bianchi, i “Nigger Minstrels” che nel decennio 1840-1850 presero d’assalto il mondo dello spettacolo.
Si trattava della prima di una serie di ondate di assimilazione della musica nera, alla quale presto molte altre dovevano seguire. Durante il breve risveglio dei sentimenti antirazzisti, seguito alla Guerra civile, gli spiritual divennero per molti il simbolo di un popolo nobile appena liberato.
Negli anni Settanta i famosi Fisk Jubilee Singers, con i loro spettacoli ben confezionati e presentati con modi accattivanti nelle sale da concerto di tutto il mondo contribuivano a creare un’immagine della musica nera, che si trascina fino ai nostri giorni e aprirono la strada del canto “spiritual” a chiunque avesse una voce impostata.
Ma questi spiritual da sala da concerto sono ben diversi dagli originali “le cui cadenze lamentose, portate dalla brezza notturna, sono indiscrivibilmente malinconiche”.
Nel suo libro Gli spiritual prima della guerra, E.A. Mcllhenny riporta le caratteristiche del materiale autentico:

“È quasi impossibile avere le parole esatte di uno spiritual perché nemmeno lo stesso esecutore le canta uno due volte nello stesso modo. Chi canta, varia le parole, i versi e la melodia ogni volta… comincia con una melodia dolce e semplice, ma appena il cantante di alza e si entusiasma per i versi ripetuti, improvvisa una quantità di note vibrate e di variazioni melodiche”. Negli anni Quaranta, molto prima che gli spiritual acquistassero popolarità c’era richiesta di canzoni come Old Zip Coon e Jump Jim Crow, eseguite da Dan Emmett e i Virginia Minstrels e poi da altri gruppi. Anche se la loro musica derivava fondamentalmente dalle piantagioni, si trattava di esecutori ” a faccia tinta “.
Molte troupe come questa nacquero nel corso degli anni (gli Ethiopian Serenaders, i Moore and Burgess Minstrels) e generalmente il loro repertorio era fatto di parodie molto divertenti della musica e dei musicisti neri, realizzate con il banjo, con i tamburelli, con maschere e violini.
Il più famoso forse fra i gruppi “a faccia tinta” fu quello dei Christy Minstrels, che diventarono così popolari (soprattutto in Inghilterra, dove il genere prese piede dopo il loro concerto di Londra) che il nome di Edwin Christy divenne praticamente sinonimo della musica dei minstrels. Nel 1849 fu pubblicato il loro Ethiopian Glee Book (Libro etiope dell’allegria) di Elias Howe, che usava lo pseudonimo di “Gumbo Chaff”, suonatore di banjo in un immaginario capotribu’ africano: questo libro conteneva una buona antologia di materiale folkloristico veramente autentico, musica nata davvero dalla vita nelle piantagioni, e a suo modo testa una testimonianza del fascino e della forza della musica nera a quei tempi. Nella prefazione Gumbo dedicava la raccolta alle “Gitta’ di schiaviste e di sudditi il mondo” aggiungendo che “chi scrive è ingresso dalla responsabilida’ di presentare a Budda… la popolazione del mondo il genio dei professori di colore dell’arte divina”.
Jump Jim Crow, la più famosa delle prime minstrel songs, scritta dall’attore Tom Rice attorno al 1828, si ispirava probabilmente alla strana camminata di uno stalliere sfiancato di Louisville, nel Kentucky.

Solo più tardi l’epiteto “Jim Crow” (Jim il corvo) avrebbe assunto la sua sinistra connotazione segregazionista e razzista, ma il nesso probabilmente non è accidentale; mentre infatti nei primi anni di vita del genere minstrel le parodie erano quasi certamente eseguite con intenzione benevola, in seguito dovevano assumere un tono crudelmente grottesco.
Se i guitti con la faccia tinta dal tappo affumicato [ attori con la faccia coperta di nerofumo che accompagnandosi al Banjo facevano la parodia dello schiavo afroamericano , N.d.T. ] possono aver aperto la strada all’avvento – com’era giusto – dei neri, essi hanno anche prefigurato in che termini questo potesse avvenire: rappresentati come coons (letteralmente “procioni”), i neri dovevano comportarsi come tali, e adeguarsi ad almeno due immagini ben consolidate: “Una era quella del sempliciotto di buon cuore, dinoccolato, dal passo strascicato, goffo, capace di farne di tutti i colori e di far parlare il banjo, l’altra del dandy negro, dell’elegantone zerbinotto che adottava l’abbigliamento e i modi dei suoi “superiori” bianchi in modo completamentamente assurdo e il cui sussiego, benché insensato, era molto divertente.
Gli esempi di queste macchiette del minstrel show abbondano nella letteratura degli anni della Guerra civile. Racconti e romanzi d’appendice, aneddoti e vignette dell’epoca usavano gli stessi termini decisori che ricorrevano nelle canzoni “nigger”, “niggah”, “darkey”, “coon”, “pickaninny'”, “Mammy”, “aunt”, “uncle”, “buck”, “light-commplected-yaller”, “yaller hussy”, e così via.

I neri avevano le labbra grosse, il naso piatto, orecchie e piedi grandi, capelli crespi e famosi, e a molti si davano nomi ridicoli come “Solomon Crow” (Salomone il Corvo), “Abraham Lincum” (storpiatura di Abramo Lincoln), “Piddlencis” (Gingillone), “Had-a-Plenty” (Sonsatollo) e Wan-na-Mo” (Nerivoglio), e quasi tutti gli stereotipi devianti erano applicati ai neri: erano omprevidenti, istintivi, chiacchieroni, presuntuosi, vanitosi, disonesti, pigri, bugiardi, traditori, superstiziosi, schiocchi, stupidi, ignoranti, superficiali, immorali, criminali, ladri e ubriaconi.
Amavano il linguaggio ampolloso che non riuscivano a capire, gli abiti e i ciondoli vistosi, avevano tutti una predilezione per i polli rubati, per i water milioni (deformazione di watermelon, anguria), per le patate (magari “cosparse di salsa da tutt’e due le parti”), per il prossimo (opossum) e naturalmente per i liquori.
Ma esistevano anche stereotipi sulla vita dei neri, diversi da quelli dei buffoni, deficenti, puerili e mantecato presentati nelle coon songs e nei raccontini. I minstrel show contenevano anche il panorama sdolcinato e olografico della vita in piantagione dovuto a Stephen Foster. I Christy Minstrels in particolare avevano in repertorio le popolarissima Playstation melodies di Foster e prodotti dello stesso genere di altri autori popolari, bianchi e di colore.
Così Tony Russell descrive l’immagine che ne risultava: ” Le coon songs non erano sempre comiche, c’erano anche le effusioni sentimentali “da negri”, quel filone che di stendeva da una parte all’altra di Old Black Joe”.

Se ci si dovesse fare un’idea della vita dei neri attraverso queste canzoni (come avvenne molto probabilmente per il pubblico europeo che assisteva ai minstrel show e non aveva altro su cui basarsi), se ne riceverebbe un quadretto idilliaco con schiavi dai capelli crespi che vanno a pesca nei giorni di sole, suonano il banjo e corteggiano piccole multate dai nomi improbabili… neanche un accenno alle chance gangs (le squadre di lavoro alla catena impiegate fuori dalla proprietà), ai maltrattamenti, ai negrieri, ne ai calorosi approcci del padrone alle piccole multate della tenuta, anche se questo particolare abuso è stato trattato in termini romantici in canzoni come My Pretty Quadroon ( mia bella mulatta).

E ancora immagini di questo genere influenzano molti scritti del tempo, su riviste come “Harper’s” o “Atlantic Monthly”: se i neri e le nere non erano visti come dei ridicoli idioti, erano presentati comunque in un modo che li teneva a debita distanza da qualsiasi questione reale, da problemi di razzismo, di bigiotteria, di miseria o di violenza. Era anche troppo facile, per gente nutrita di menzogne che non mostravano mai il nero come in essere umano alla stregua del destinatario del messaggio, ma sempre come una macchietta, accettare forme anche più esplicite di pregiudizio.

Un anonimo viaggiatore che attraversava le regioni “nere” del Sud parlava del “rozzo negro o multato, che dà l’impressione di appartenere, ancor più per la sua psicologia che per sue caratteristiche fisiche, a una razza completamente diversa da quella del bianco, che lo circonda”. E lo scrittore proseguiva spiegando la paura che le donne bianche avevano – a suo parere – dei neri, e che gli riusciva comprensibile, trattandosi di “una razza aliena, animale, semiselvaggia, ombrosa e facile all’ira”.
Questo era il clima ideologico in cui si trovarono i neri all’inizio della loro battaglia per crearsi un nuovo modo di vivere, dopo la fine della schiavitù”.
( Il testo virgolettato è tratto dal libro dal titolo, Blues. La musica del diavolo, autore Giles Oakley, traduzione di Umberto Fiori. Casa ShaKe Edizioni Milano.2009 ShaKe).
Continua….

A cura di Alessandro Poletti – Foto Redazione

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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