Quando un artista si “avvia”, come diciamo noi in Romagna, lascia la luce che illuminava il suo modo di osservare il mondo, e se ad avviarsi, fondendosi con l’infinto, è un fotografo, quella luce ha una un’importanza maggiore perché consente attraverso il suo archivio, ad ognuno di noi, di vedere quel mondo visto attraverso la luce dei suoi occhi. Bruno Evangelisti, è stato uno di quei fotografi che riusciva, ad ogni scatto, ad allineare perfettamente testa, occhio e cuore, e la sensazione che ebbi quando, per la prima volta vidi una sua fotografia, fu proprio l’amore per l’arte fotografica, e riuscì, grazie al suo potere suggestivo, a suscitare in me emozioni molto più forti e profonde di quanto non siano capaci di fare descrizioni verbali o scritte.
Ad una mostra fotografica datata 2007 dal titolo: “Cinque fotografi per un ritratto di Cesena“, allestita nella Biblioteca Malatestiana di Cesena dal 28 settembre all’11 novembre 2007, vidi uno scatto di Bruno Evangelisti dal titolo: “Cesena, panoramica della zona Fornaci dal condominio in via Ugo Bassi, 1976”, e il cuore per un attimo si fermò. Era stata scattata, vado ad intuito, da quel mini grattacielo che si affaccia sui giardini di Serravalle e ritraeva la zona Fornaci così com’era quando tredicenne passavo i miei pomeriggi sul campetto arido, brullo e assolato che, all’epoca, veniva chiamato “Campo dei Siciliani”, per via che gli ultimi abitanti della casa “vecchia” e diroccata collocata nel lato di via Cotignola, erano di origini siciliane. Con il potere della fantasia, mi immaginai di entrare in quella foto quei luoghi oramai perduti da tempo, la Rettifica Spinelli con il buon pastore tedesco Wolf, al quale dispensavo biscotti e carezze, le casette a due piani che, a partire da quella di mia nonna Attilia, al civico 34 di via Cotignola portavano a raggiungere il Bar Riccardo invia Fornaci, tragitto tra i più amati della mia personale geografia del cuore.
La “Cirella”, “La Gigia, la Candina e la Checca”, “L’Ornella”, “Vanetti”, e poi la Guerrina, “Le Sorelle Sine”, su su fino ad arrivare alla bottega della “Gianna”, fornitrice ufficiale dei miei panini alla Cremalba, per finire con il punto di raccolta di svariate generazioni, a partire da quelle più giovani fino agli ottuagenari, che prendeva il nome dal titolare, Riccardo Menghozzi, che in coppia con l’inseparabile signora Gigliola, gestiva con maestria e professionalità un tipico bar anni settanta, di quelli che il bancone, l’arredo, i prodotti, li rendevano carichi di personalità e possessori di un’anima gemella di quella dei gestori. Quando il mio viaggio fantastico all’interno del quella fotografia giunse al termine, mi resi conto di quanto fosse importante congelare l’anima di un luogo o di un volto, rubando un istante di vita al tempo che scorre inesorabile.
Susan Sontag sosteneva che, in qualche modo, fotografare significava appropriarsi di ciò che si fotografa. Da estimatore del popolo dei nativi americani, mi piace pensare che, nell’attimo esatto in cui si scatta una foto, quell’immagine resta imprigionata, per sempre, in una dimensione priva di tempo. Ad ogni foto scattata da Bruno Evangelisti e da pochi altri, Paul Strand per fare un nome, sento un bisogno mentale di smaterializzarmi ed entrare a visitare quei ricordi imprigionati da un “click”. Dimenticavo, Bruno Evangelisti è stato anche un valente ciclista, gregario del Leone delle Fiandre, Fiorenzo Magni.
Ma questa, è un’altra storia…
A cura di Marco Benazzi – Foto Repertorio