Secondo il rapporto Education at a glance, redatto ogni 360 giorni dall’Ocse, solo il 19% degli italiani di età compresa tra i 25 e i 64 anni è riuscito ad ottenere una laurea (cifra che rappresenta la metà della media Ocse, pari al 37% circa). Molti neodiplomati (circa il 30%) optano per un percorso di laurea in ambito umanistico, ignorando che i tassi di occupazione più bassi risultano essere associati proprio a queste discipline, mentre i più alti si riferiscono alle discipline scientifiche, ovvero Scienze, Ingegneria e Matematica.

Nell’ultimo lustro 182 mila laureati hanno lasciato non a caso l’Italia, di cui 29 mila solo negli ultimi dodici mesi.
A migrare fuori dal nostro paese sono stati tantissimi giovani ad alto potenziale. E, proprio loro attraverso l’innovazione potrebbero contribuire ad uscire dalla crisi economica, demografica, educativa e occupazionale con cui da tantissimo tempo conviviamo; con la politica che vuole gli onori, ma non distribuisce gli oneri e non si cala sui problemi reali.

L’Italia, non riesce a valorizzare i propri neolaureati, che sono invece sempre di più apprezzati all’estero. Essi sono specializzati in tutti i settori e provengono da tutto il Paese; circa la metà si stabilisce in Europa, gli altri migrano in Olanda, ma principalmente negli Stati Uniti e in Australia.

Quello che spinge all’emigrazione allargata è la ricerca di un’occupazione in grado di ripagare gli sforzi fatti durante il percorso universitario, che offra un guadagno e delle sicure prospettive di crescita a livello di carriera. Altri partono per curiosità, in cerca di occasioni di sviluppo personale che l’Italia non è in grado di offrire. Chi termina gli studi, non c’è dubbio, è quello di sentire l’esigenza di mettere in pratica ciò che ha imparato e di apprendere qualcosa in più, di lavorare in un ambiente stimolante, con colleghi all’altezza.

Il mondo del lavoro di certo non incentiva a rimanere nelle regioni italiane: l’Ocse stima che i laureati italiani con un’età compresa tra i 25 e i 34 anni guadagnano solo il 10% in più rispetto ai loro coetanei con un diploma. Al contrario, i laureati italiani tra i 55 e i 64 anni beneficiano di guadagni tra i più alti d’Europa (65%).

All’estero è possibile trovare una qualità della vita più alta: secondo Eurostat, l’Italia manca di dinamismo culturale e sociale, guadagnandosi uno degli ultimi posti nella classifica della qualità di vita in Europa. Le società estere risultano essere più eque, con poca corruzione e nepotismo. Ma soprattutto, all’estero la meritocrazia non è solo un’utopia.

Il ministero dell’economia non investe abbastanza nei giovani e questo problema incandescente non è una novità: secondo Eurostat, per ogni euro speso in educazione, l’Italia ne spende 3,5 in pensioni, il secondo numero più alto d’Europa (dopo la Grecia). E per ogni euro in università, ne spende 44 in pensioni, di gran lunga il numero più alto. Nelle società estere, invece, i giovani sono considerati un valore aggiunto, in quanto portatori di idee innovative. Infatti, i giovani italiani all’estero hanno l’opportunità di fare più esperienze lavorative rispetto ai loro coetanei che invece restano in patria. Se essi tornassero a casa, l’economia italiana potrebbe avere una svolta, poiché essi porterebbero con loro esperienza ed innovazione nella ricerca.

Il loro ritorno aiuterebbe a risolvere un altro problema che grava sul nostro paese: il gap demografico. Un rientro in Italia permetterebbe di ridurre il tasso di dipendenza (secondo Eurostat, per ogni persona in età pensionistica ci sono 2,8 persone in età lavorativa). A partire dagli anni Sessanta il tasso di natalità ha avuto un trend negativo: nel 1964 ci sono state 1.016.120 nascite, nel 1980 640.401. L’Istat ha stimato per il 2020 un calo delle nascite (da 432 mila a 426 mila nati) a causa del clima di incertezza associato alla pandemia in corso; nel 2021 potrebbe esserci una ulteriore diminuzione: il numero potrebbe ridursi a 396 mila, dati allarmanti e mai così bassi.

Il contributo demografico alla crescita economica può essere stimato attraverso un indicatore chiamato demographic dividend, pari alla differenza tra il tasso di crescita della popolazione in età da lavoro e la popolazione complessiva; un valore maggiore di zero evidenzia un contributo positivo, una teoria che sposerebbe l’inventore dell’origine zero.

Negli ultimi venticinque anni e nelle simulazioni per il prossimo cinquantennio i dati e le previsioni prospettano un’evoluzione sfavorevole della composizione per età con una riduzione della quota di popolazione in età lavorativa e conseguentemente effetti negativi sulla crescita economica italiana. Se non si limita l’emigrazione di coloro che potrebbero creare ricchezza, il tenore di vita a cui siamo abituati sarà per forza ridimensionato con la conseguenza che la forbice della povertà si allargherà.

È arrivato il momento che questo governo o i prossimi facciano immediatamente qualcosa per incentivare il rimpatrio. In passato si è cercato di trovare una soluzione a questo problema, ma le agevolazioni proposte non sono state comunicate con efficienza (il 21% degli italiani all’estero non sapeva della loro esistenza) e secondo il 75% degli italiani non erano sufficienti per rientrare e per sentirsi protetti dallo Stato.

Il Direttore editoriale Carlo Costantini – Fotolia

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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