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Esiste uno stato d’animo speciale, che accumuna le persone che hanno avuto la fortuna di visitare l’Africa, una “sindrome”, non riconducibile a nessun altro posto al mondo, mi verrebbe da dire, poichè equivale a scoprire in un attimo, senza una ragione precisa, un forte senso di appartenenza, di ritorno alle origini, un richiamo forte alla terra, alle sue genti, ai suoi colori.
Uno stato d’animo tale, per cui in quelle terre, anche se così remote, e diverse da quelle a cui siamo abituati, ci sentiamo a casa, nel posto giusto, in pace con noi stessi.

Io, che quella fortuna l’ho avuta, e che il mio primo viaggio, di ben 12 ore, è stato nel 1979, in Mozambico, in piena guerra civile, posso dire che, appena scesa dall’aereo, ad accogliermi fu l’aria calda, così pulita, che potevo distinguere distintamente ogni odore, e immergermi nei colori del paesaggio, e l’umanità, nei cui sorrisi, nei gesti, nel portamento, scoprii la dignità, e insieme la fierezza delle povertà.
A 6.000 kilometri da casa, letteralmente dall’altra parte del mondo, mi sopraggiunse una tranquillità e una serenità mai provata in vita mia.

La sensazione di un deja vu, come se in fondo io lì fossi nata e vissuta.

Avrei dovuto sentirmi spaesata, diversa, e “altra”, in una realtà così agli antipodi rispetto al nostro occidente moderno e civilizzato, invece era tutto il contrario. Guardando fuori dal finestrino del taxi che mi portava a Maputo, la capitale, avevo la sensazione di aver vissuto già questo momento, di conoscere già quel mondo.

Ricordo, che nei giorni a venire, con gli amici mozambicani, ne parlammo a lungo, e riuscii persino, dall’incontro con un antropologo del luogo, a spiegarne le ragioni.
Esiste una spiegazione antropologica!
L’amico Manuel, sosteneva infatti, che il processo che ci ha portato ad evolverci da semplici primati e ominidi, è avvenuto a partire da una popolazione stanziata nella zona della Rift Valley (grosso modo tra l’Etiopia e la Tanzania).

Proprio da lì, circa due milioni di anni fa, avvenne l’emigrazione, fenomeno chiamato anche “Out of Africa, verso le altre zone del mondo.

E’ come se il nostro DNA fosse impresso in questo nostro lontano passato, e il fatto di “ritornare” in Africa risvegliasse i nostri ricordi ancestrali, la profonda nostalgia per una civiltà perduta, un passato primitivo, legato alle tradizioni, e allo scambio simbiotico con la natura selvaggia, in antitesi alla civiltà, per la natura vergine, per i colori, i paesaggi, i suoni, i profumi.

L’Africa è un oceano, un pianeta a sè stante, un cosmo vario e ricchissimo.
E’ solo per semplificare, e per pura comodità che la chiamiamo Africa.
L’Africa in realtà non esiste: è uno stato d’animo!

E’ la nostra culla ancestrale, e in questo difficile momento di vita generato dalla pandemia da Covid, spesso il mio pensiero torna lì, poichè per i Paesi africani le incognite sono davvero più innumerevoli, tanto che la comunità scientifica ha contemplato scenari talmente diversi, che si passa da ipotesi ottimistiche ad altre essenzialmente drammatiche.
Seguire e sostenere, per quanto possibile, le strategie dei paesi africani contro l’epidemia, è comunque, paradossalmente di estremo interesse per le nazioni europee, compresa l’Italia, poichè significa dar valore e prospettive di consolidamento futuro a tutte quelle iniziative congiunte nei settori della ricerca.

Chi lo può sapere con certezza: così come per le malattie tropicali, di cui la medicina europea conosce così poco e male, al contrario della medicina africana che è in grado di riconoscerle e curarle, forse l’Africa potrebbe aiutarci a capire cosa serve a contrastare l’impatto dell’epidemia: grazie a un’ipotetica immunità genetica al SARS-CoV-2, o grazie alle temperature più calde, che potrebbero rendere il virus meno attivo, oppure grazie alla prevalente giovane eta’ della popolazione africana.

I problemi e le fragilità delle popolazione africana sono enormi, ma il loro allenamento alla” Resilienza del vivere” è molto più alto del nostro. E dunque, non posso che terminare, citando la grande Karen Blixen, danese di nascita, ma africana nel cuore, che nelle sue opere, cantò il meraviglioso spettacolo naturalistico del continente nero.

Del libro La mia Africa, pubblicato nel 1937, nel 1985 Sydney Pollack realizzo’ il film vincitore di ben 7 Premi Oscar-

Il mio racconto dell’Africa finisce qui, e più di ciò che ho scritto, vorrei lasciarvi la potenza immaginifica dei versi dell’ultimo monologo prima della partenza, interpretato da un immensa attrice, Meryl Streep:

“…Io conosco il canto dell’Africa, della giraffa e della luna nuova africana distesa sul suo dorso, degli aratri nei campi, e delle facce sudate delle raccoglitrici di caffè.

Ma l’Africa conosce il mio canto?

L’aria sulla pianura fermerà un colore che io ho avuto su di me?

E i bambini inventeranno un gioco nel quale ci sia il mio nome?

La luna piena farà un ombra sulla ghiaia del viale che mi assomigli?

E le aquile sulle colline Ngong guarderanno se ci sono?…”

Ecco, questa è lo struggente dell’Africa: IMMORTALE!

A cura di Sandra Vezzani editorialista – Foto

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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