E’ banale, lo so, ma per me, donna, e per di piu’ nata nei primi anni ’50, Felice Gimondi e’ un altro pezzo della mia vita.
L’ho conosciuto prima attraverso i racconti del mio papa’, che amava la bicicletta e uno sport che, a quei tempi, rappresentava prima di tutto la LIBERTA’, liberta’ di respirare, e di immaginare il volo della vita sulle due ruote.
E’ quasi imbarazzante e ridicolo parlare così ai giorni nostri, quando con un semplice click possiamo vedere il mondo.
Ma non possiamo sentire le emozioni!
Gimondi era l’emozione e anche la sua morte lo è stata, inaspettata e casuale, col sapore di un ultima fuga, quella senza ritorno, di un campione che ha saputo farsi icona culturale, simbolo di resilienza e di resistenza al cospetto del cannibale EDDY MERCKS.
Non per niente al figlio della postina bergamasca sono state dedicate canzoni e opere letterarie; nella sua sopravvivenza agonistica ci siamo riconosciuti tutti.
Sconfitto ma non perdente, ha rappresentato e rappresenta ancora nella mia memoria il senso autentico del vivere.
Per me, bimbetta negli anni ’60, lui era la biglia di colore giallo con impresso dentro il suo viso con cui giocavo in spiaggia, con il papa’ e gli amichetti, in quegli anni felici, era la biglia che dominava il tour e noi, sulla sabbia, idealmente lo mandavamo avanti con le nostre dita.
Lui pedalava e soffriva e la voce di Adriano De Zan usciva dai televisori grandi e antichi in bianco e nero, eppure noi Gimondi lo vedevamo a colori, il colore della maglia rosa, il colore della maglia gialla, il colore del sogno.
Quando divento’ campione del mondo avevo gia’ vent’anni, una domenica di settembre del 1973, ero in casa con mio padre.
Stavo acciambellata sul divano, con lo sguardo furbetto rivolto a mio padre, come spesso accadeva quando in tv si consumava un evento sportivo importante e tutta la famiglia si riuniva per partecipare , si’, perche’ a quei tempi condividere era importante!
Papa’ era cresciuto col mito di Coppi e di Bartali e stravedeva per la vittima di Mercks.
Mi ricordo la volata, ancora mi e’ rimasta la tensione dei secondi nel cuore, mi ricordo la paura, c’era Mercks, c’era il belga Martens, c’era lo spagnolo Ocana.
Zero speranze, mi dissi!
Invece, come se fosse spinto da milioni di piccole dita, le dita dei bambini in spiaggia, si aggiudico’ quello sprint incredibile e mio padre tiro’ su col naso, perche’ a quei tempi un padre non poteva far vedere a un figlio che era commosso.
Gli abbiamo voluto bene a Felice Gimondi come se fosse stato uno di famiglia; questa è la differenza tra i tempi di allora e quelli di oggi, i campioni restavano uomini normali e non diventavano fenomeni.
In questo forse sta la differenza tra essere giovani oggi e essere stati giovani allora.
Erano gli anni del boom economico su quell’Italia, che nel sogno vedeva un’ipotesi di realta’ e si sacrificava andando avanti perche’ quell’ipotesi diventasse certezza quotidiana.

E tutti, piccoli e grandi, con tenacia, continuavamo a spingerla avanti quella “biglia”. che e’ la vita!

A cura di Sandra Vezzani

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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