DELITTO DI COGNE: DARK TOURIST E LEGITTIMITA’ DELL’INFORMAZIONE

Da orrore a meta turistica. Da luogo di un atroce delitto a pellegrinaggio turistico. Da luogo che suscita terrore e disagio a meta di vacanze con tanto di risate spensierate e selfie.

Questo ed altro ancora è diventata la villetta di Montroz, frazione di Cogne.

E’ qui che il piccolo Samuele, di tre anni, fu ucciso nel 2002.

Delitto per il quale fu condannata all’ergastolo, nel 2008, la madre, Annamaria Franzoni.

Ed è da questo periodo che inizia un fenomeno, per molti aspetti nuovo, per l’Italia e gli italiani; il cd. “turismo dell’orrore”, o come si dice in termine anglosassone, il fenomeno del cd. “dark tourism”.
Ovvero, masse di turisti che vanno a vedere, di persona, la villetta dove fu ucciso il bambino.
Quello del dark tourism non è, per la verità, un fenomeno tipico dei nostri giorni ed affonda le sue radici nell’antichità. Basti pensare alla partecipazione degli antichi romani ai giochi dei gladiatori massacrati nell’arena o alle esecuzioni di morte nel corso dei secoli bui.
Thomas Cook, Pastore protestante del XXIX secolo, fu quello che, per primo, aprì un’agenzia per le persone che desideravano andare a vedere le esecuzioni capitali nella Cornovaglia.
Nulla di nuovo, quindi.

Ci si dovrebbe domandare, invece, quale sia la motivazione che conduce, oggi, masse di persone a questa macabra forma di turismo.

Oggi come allora, il pensiero della morte è talmente distante dalla capacità di comprensione umana, che determina un vero e proprio sentimento di angoscia misto ad orrore; essa deve essere, allora, ricercata, studiata nei minimi particolari, indagata ed incontrata nei luoghi in cui si è rappresentata. Nel tentativo, illusorio ma che dà temporaneo sollievo, di poterla esorcizzare o, quantomeno, comprendere.
Una sorta di viaggio apotropaico.

A differenza dei tempi passati, però, vi è, oggi, la commercializzazione di tali mete ed una conseguente maggiore esposizione della folla ad un evento o luogo di morte, spesso pilotato da mass media o da organizzazioni senza scrupoli che ottengono visualizzazioni e guadagni considerevoli proprio da tali particolari mete turistiche.
E’ inoltre mutato, con il trascorrere dei tempi, il bisogno da soddisfare nelle persone che cercano tali luoghi di morte: se prima vi era comunque un estremo bisogno di comprendere la morte come momento religioso e spirituale, inteso quindi come ricerca di risposte, oggi l’uomo moderno condivide morte, dolore e disperazione per la necessità di mostrare agli altri che cosa ci ha colpito. In altre parole, abbiamo un disperato bisogno di riconoscimento durante il viaggio della nostra esistenza che diventa possibile solo se suffragata ed accettata dal gruppo. Una sorta di impellente necessità a condividere solo se anche gli altri condividono; in caso contrario, sembra quasi che per taluni si smetta di esistere.

Accade quello che sostiene il filosofo polacco Bauman, passato a miglior vita nel 2017, con la sua teoria sulla “Società liquida”. “Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo – così Umberto Eco spiegava Bauman – ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti i costi, l’apparire come valore ed il consumismo”.

In questo totale disorientamento, mancanza di norme, regole, valori e punti di riferimento, si inserisce la vicenda del turismo macabro che ha come meta la villetta dove si è consumata la morte di un bambino di tre anni che si chiamava Samuele.
Annamaria Franzoni ha pagato il conto con la giustizia ed avrebbe voluto rifarsi una vita, lontana dal clamore che ancora agita le sue notti. E’ stata costretta a tornare in Tribunale ad Aosta, ma questa volta in qualità di parte civile; sul banco degli imputati c’erano una giornalista e un cineoperatore, accusati di violazione di domicilio per essersi introdotti nella villetta che fu scenario dell’omicidio del piccolo Samuele.

Nonostante abbia scontato 11 anni di carcere per l’omicidio del figlio, il macabro pellegrinaggio verso la villa teatro dell’orrore non si è mai arrestato.

Le persone entrano in giardino per sottrarre oggetti come ricordo” ha spiegato la donna, desiderosa di sottolineare i limiti imposti dalla legge in materia di privacy.
Certamente la presenza di troupe televisive non aiuta a dimenticare un luogo, di per sé incantevole e silenzioso, che tale dovrebbe rimanere dopo l’omicidio, riappropriandosi di quello che la cattiveria dell’uomo ha tolto, invece di venire ripetutamente violentato dal click di selfie e da risate spensierate di persone che hanno la pretesa – più le persone sono povere, soprattutto di spirito, più sono autocelebrative – di acculturarsi e di crescere spiritualmente proprio con questi viaggi dell’orrore.

Ci sfugge, francamente, quale possa essere l’arricchimento culturale e sociale di chi posta un selfie per ottenere “visibilità” sui social, postando una foto che lo ritrae nel luogo ove vi era la culla del piccolo Samuele.
Comprendiamo, invece, amaramente, la mente di chi possa far loro credere di tornare a casa più arricchiti spiritualmente, lucrandoci sopra.

Ed anche i giornalisti e cineoperatori non possono sfuggire alla logica naturale del rispetto e della privacy.
Il dovere, nobile e necessario, dell’informazione, deve cedere il passo di fronte al trascorrere del tempo, soprattutto quando tutta la vicenda è stata sviscerata in lungo ed in largo da periti, Giudici, psichiatri, sociologici, avvocati e null’altro v’è da aggiungere, se non una puntata da telenovela americana dove non resta che esaminare gli abiti consunti dell’epoca o qualche foto consunta sfuggita all’assalto dei cronisti dell’epoca.

Si deve cedere il passo anche di fronte al dolore di una madre che ha comunque saldato il proprio conto con la giustizia e pretende, con forza, un dignitoso silenzio su di una vicenda che ha dato, a lei per prima ed a prescindere, tanta sofferenza.
Quando si è in presenza di fatti di cronaca talmente efferati e brutali da suscitare un interesse sociale, occorre avere la coscienza professionale ed umana per abbandonare il clamore degli eventi e dei talk show televisivi, dove tutto è trattato come se non vi fosse mai stata la morte ed in cui ognuno riveste un suo ruolo ed ha i suoi indici di gradimento, proprio come accade nelle soap opera. Dove tutto è patinato, sfumato, coperto dalla nebbia dello spettacolo e della commercializzazione. Dove il peggio che può accadere è insultare ed infangare la memoria di una famiglia che ha già sofferto e che vuole essere lasciata in pace.

Ha fatto bene, la Franzoni, a denunciare l’accaduto ed a chiedere la formale punizione del cineoperatore e del giornalista.
Non solo perché risulta ancora custode, per il diritto, della villetta dove si è consumata la tragedia, ma soprattutto per custodire nel proprio intimo ciò che ha sofferto. I propri sentimenti, la propria dignità, la propria sofferenza.
Senza spettacolarizzazione. Senza selfie. Con lacrime vere ed autentiche.

A cura di Avv. Costantino Larocca editorialista – Foto Imagoeconomica

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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