Parte quinta

LA STORIA DELLA CANZONE E DELLA MUSICA BLUES DEGLI SCHIAVI AFROAMERICANI.

Giles Oakley, autore del libro dal titolo: “Blues, La musica del diavolo, edito da ShaKe Edizioni 2009 Milano, traduzione di Umberto Fiori, scrive questo bel libro, sulla storia di questo antico genere musicale, fondato dagli africani portati come schiavi nei territori degli Stati Uniti, per lavorare nelle tenute dei coloni bianchi, per la raccolta del tabacco, il cotone e altri generi di lavori.

” […] Tra il 1940 e il 1950 la popolazione nera della California era cresciuta da quasi 350.000 a 462.000 unità, e la crescita continuò negli anni seguenti. Gli immigrati venivano dall’Oklahoma dal Kansas, dalla Louisiana e specialmente dal Texas, a cercare lavoro nei campi di S.Joaquin della Imperial Valleys, o all’interno dei piani di difesa di Oakland e di Los Angeles. A Oakland, sulla costiera occidentale della Baia di San Francisco, c’era una grossa comunità nera, e certe strade erano abitate esclusivamente da neri texani. Quando c’erano dei posti, lavoravano nell’industria leggera e in quella pesante, nei cantieri navali e nelle ferrovie. Nei primi anni Cinquanta i cantanti trovarono lavoro nei club di Oakland come il “Rumboogie”, il “Three Sisters”, lo “Slim Jenkin’s o la “Esther’s Orbit Room””, nei dintorni di Richmond nel ” Tommy’s 250 Club” e nel Club Savoy”, o Alan Francisco nello “Shelton’s Blue Mirror” o nel “Clubong Isaland”.

Ancora più importante come centro per il blues era la città Los Angeles, per il ghetto di South East Side che si stava ingrandendo all’interno del quartiere di Watts e nelle traverse di Central Avenuee Broadway. Apparentemente il ghetto di Watts è completamente diverso da quelli di Detroit, di Chicago o di Harlem, scuri e infestati da topi: le strade qui sono fiancheggiata dalle palme e dagli alberi fioriti, e almeno il clima e buono.
Ma le case che dal di fuori possono sembrare a posto, in realtà sono costruite all’insegna della tirchieria, utilizzando materiali a buon mercato che si deteriorano rapidamente e crollano. Per lo più si tratta di villette unifamiliari, ma i padroni di casa le dividono e le affittano a più famiglie insieme.

Poco prima dell’esplosione della rabbia nera del 1965, in quella che e conosciuta come la “rivolta di Watts”, più dell’ottanta percento delle case del ghetto erano affittate mentre nella contea di Los Angeles nell’insieme più di metà della popolazione viveva in case di proprietà. Nei tardi anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta la rabbia e la frustrazione non avevano ancora raggiunto uno stadio esplorativo: anche se il benessere del dopoguerra nella West Coast non era distribuito equamente tra bianchi e neri, le possibilità di lavoro, il reditto e le condizioni di vita erano se non altro migliori di quelle che si trovavano nel Sud. Sulla West Cost c’era uno spirito energetico e fiducioso che trovava espressione nelle orchestre e orchestrine da ballo (jump dance band e swinging boogie) come quelle di Amos Milburn, Toy Milton e i suoi Solid Senders, Joe Leggins e suoi Honey Drippers e Jimmy Liggins e suoi Drops of Joy. Fiorivano le case discografiche e le etichette che dovevano soddisfare i bisogni del nuovo pubblico negro: la Modern, la RPM, la Specialty, la Imperial, la Swigtime, la Hollywood, la Aladdin, assieme alle più piccole come la Big Town e la Art-Tone. Da Watts Johnny Otis, conosciuto anche come “il Padreterno del Rhythm & Blues”, partiva nei primi anni Cinquanta per tournée nazionali con la sua Rhythm & Blues Caravan che comprendeva molti ottimi cantanti come la cantante di ballad-blues Little Esther Phillips, Marie Adams e Willie Mae “Big Mama” Thornton che era qualcosa di più di una cantante dilettante o di vecchia maniera, in un periodo in cui poche erano le donne che cantavano il blues. Era un show che raccoglieva grossi numeri, e Otis ricorda: ‘Ingaggiavo i vari cantanti e strumentisti individualmente, ognuno come numero a sestante, e questo risultava anche dalle locandine e dai manifesti, così sembrava che arrivasse in città un conglomerato di carnevale – e in un certo senso era vero!

Negli anni Settanta Johnny fece rivivere l’idea nella forma del Johnny Otis Show, riportando l’attenzione del pubblico su artisti che erano stati trascurati per almeno vent’anni. Lo show si esibì in America e Europa con diverse formazioni, presentando personaggi come Esther Phillips, Roy Brown, Ivory Joe Hunter, Cleanhead Vinson, Pee Wee Crayton, Joe Turner e Margie Evans.

Lo stesso Otis aveva cominciato con le big band, ma per tenere in piedi grossi gruppi di musicisti” e orchestre “si imponevano costi proibitivi.
“Fummo costretti a utilizzare dei gruppi ridotti, ma nel corso degli anni in cui lavoravo con le big band mi ero reso conto che quello che piaceva veramente al pubblico era anche quello che piaceva a noi, il blues. Non c’era bisogno di spremersi le meningi per fare poi quello che viene fuori con naturalezza e senza sforzo. Era la musica folk con un ritmo più trascinante, e la differenza con la vecchia musica country stava solo nel fatto che dovevamo avere dei fiati… Improvvisamente divisi che non volevo quattro trombe e cinque sassofoni assolutamente. Volevo quattro fiati con il baritono che uscisse con quel suono “bluesy”.
Otis fondò il “Barrelhouse Club” sulla Central Avenue “nel settore del ghetto di Los Angeles che è conosciuto come East Side. La polizia non voleva concedermi una licenza per la sala da ballo o solo spettacoli e così falli. Con alcuni amici allora misi in piedi un altro “Barrelhouse Club” a Watts.
“Mettemmo il biglietto a cento dollari e la sera dell’inaugurazione eravamo ugualmente sotto i venti dollari! Oggi non potrei farcela neanche con il prezzo moltiplicato per dieci. Altro che inflazione, a Los Angeles!

Mentre il “Barrelhouse Club” proponeva il nuovo rhythm&blues, aspro e indiavolato, molti altri locali preferivano qualcosa di più tranquillo e riposato, e molti blues singer cercavano di cavalcare diversi stili per soddisfare tutti i gusti. Questo era il caso di Lowell Fulson, uno dei migliori chitarristi della West Coast: nella sua lunga carriera suonò con arrangiamenti massicci con tanto di sassofoni, o in tranquilli duetti chitarristici country con suo fratello Martin Fulson, o in piccoli gruppi di blues da ballo, e più recente assieme a musicisti rock bianchi, mostrando in ogni occasione il suo stile chitarristico “a sbalzi”, controllato e la sua voce dolce e ricca di espressività.
“Vedi in certi posti dove vai non vogliono il Blues, a meno che non siano delle ballad, vogliono blues morbido, niente hard blues. E allora devi smussare un po’ gli angoli, così mentre loro sono lì seduti con i loro abiti da sera a bere il te’ tu vai sui toni baritonali e gli canti alle canzoncine dolci, no?, e non è tanto simpatico, perché a me a volte piace urlare…

Molti blues singer si staccarono da quello che Fulson chiama “il blues da bordello, pieno di fumo” per una scelta . Nella West Coast in particolare la dolcezza spesso arriva sino alla mielosita; tutto un gruppo di musicisti doveva molto allo stile del canzonettista Nat “King” Cole, che suonava nei locali della California negli anni Quaranta. Cole non si sognava nemmeno di essere un Blues singer, ma la sua calma controllata, il suo modo di accompagnarsi al piano, la batteria suonata con le spazzole, fornivano gli elementi da atmosfera “da cocktail” al “Three Blazers” di Johnny Moore, con Charles Brown al piano e al canto. Il sound era rilassato e sofisticato, e il blues feeling veniva trasformato in malinconia intimistica.

Charles Brown incise anche con il suo nome e divenne uno dei cantanti di maggiore successo nazione. Tra il 1949 e il 1952 sette suoi brani arrivarono nella top ten di rhythm&blues e anche altri artisti dello filone ebbero ottime vendite come il texano Floyd Dixon e Lloyd Glenn. Di fatto, lo stile della bluesy ballad (cioè della canzonetta con elementi blues) doveva avere influenza su molti musicisti, come Ivory Joe Hunter, Percy Mayfield, Johnny Ace o anche il giovane Ray Charles.
Se il suono grezzo delle jump bands era pieno di fiducia e di sicurezza, il piano tintinnante di Charles Brown, sostenuto dal sassofono pastoso e dalla chitarra leggermente amplificata era portatore di un senso di dipendenza e persino di disperazione […]”.

(Il testo virgolettato è tratto dal libro dell’autore Giles Oakley, dal titolo Blues, La musica del diavolo, traduzione di Umberto Fiori, 2009 ShaKe Edizioni, Milano).
Continuando il racconto di questa storia nata nel secolo scorso, il Novecento, l’autore Giles Oakley, ricorda:
“[…] LA FINE DI UN’EPOCA. “Tra gli sviluppi che si sono potuti osservare nel campo del rhythm&blues nel corso dell’anno passato, uno dei più notevoli e la importanza dello stile country o meridionale e del canto blues e country in questo mercato”.

Così “Billboard”, foglio commerciale speciale, parlava nel 1952 di uno sviluppo che annunciò l’ultima fioritura di consensi all’interno della comunità nera per una ricca varietà di Blues. Dalla metà degli anni Cinquanta in poi il blues ha perso rapidamente ogni sostegno ed è stato sempre rifiutato. La cronaca del 1952 continuava: “Un tempo, c’era un abisso tra gli stili sofisticati delle grandi città, tra le novità ballabili confezionate per il mercato settentrionale e il Country Blues e il Delta Blues, che erano popolari nelle regioni meridionali: a poco a poco le due forze si sono mescolate e i motivi del Country Blues, rivestiti di arrangiamenti gradevoli, sia al gusto settentrionale sia a quello meridionale, sono stati pubblicati dalle etichette R&B.

“R&B” o “Rhythm-and-Blues” era un’espressione onnicomprensiva che andava a rimpiazzare il termine sepia (seppia) o ebony (ebano) per riferisci alla musica nera per il pubblico nero, ma dal 1949 il termine più usato era “R&B”, che copriva un’enorme varietà di stili, compresi alcuni che non erano affatto blues: blues shopping, jump blues, blues ballads, country blues, gruppi vocali e musica gospel. Il vecchio mercato delle race musica era dominato dalle grandi compagnie discografiche come la Columbia, la Victor e la Decca, ma con il razionamento in tempo di guerra della lacca necessaria per confezionare i dischi e dopo una rigida presa di posizione da parte del sindacato dei musicisti sulle registrazioni, il loro interesse per la musica nera andò scemando.

Quando le grosse case rientrarono, restarono attaccate ai vecchi artisti di un periodo in cui l’atmosfera stava cambiando. Intanto, prima gradualmente e poi in numero sempre più massiccio, spuntavano qua e là nell’America nera delle piccole case “indipendenti”. In alcune, la proprietà e i tecnici erano bianchi, in altre la proprietà era bianca ma i tecnici neri, altre erano completamente nere. Molte erano piccole aziende modeste, sistemate nel retrobottega, che registravano nei garage o nelle cantine, distribuivano i dischi a mano prendendoli dai cassoni dei camion, e avevano magari delle tecniche di produzione molto poco ortodosse:
“Mi costruii da solo la pressa” ricordava J.R. Fullbright, di Los Angeles. “Mi facevo i miei coloranti e riuscii a rimediare anche un sistema di raffreddamento usando un frigorifero. Ero in grado di produrre Sessanta dischi all’ora e riuscivo a guadagnarci tanto da vivere. Ecco perché certi miei dischi si spaccano: li facevo di plastica da solo e certe volte era di carbone”.

Fullbright preferiva registrare a Los Angeles perché nel Sud aveva avuto dei problemi, per esempio quella volta che voleva far incidere in Louisiana il fisarmonicista Clifton Chenier. “Mentre registravo Clifton, a Lake Charles (eravamo in una stazione radio), il ragazzo bianco non voleva dare una mano, non voleva occuparsi della parte tecnica e non voleva nemmeno fare una prova dei livelli. Se ne stava là, con il sigaro in bocca e con il giornale e metteva piedi sul banco. Allora gli chiesi: “Non fai un po’ di mixaggio?” Lui saltò su come se gli avessi dato un pugno e disse: “Di che cavolo vai cianciando? Ma lo sei dove sei? Sei a Lake Charles!”
Ma anche nel Sud si fecero molte incisioni alcune in studi regolari, specialmente a Memphis, a New Orleans e a Houston, oltre nei locali nelle sale da ballo, negli auditori, dovunque si potessero sistemare dei microfoni e dei registratori.

A Nord e a Sud, a Est e a Ovest furono fondate centinaia di case discografiche, molte delle quali pubblicavano i dischi sotto diverse etichette. Alcune fecero uscire un “singolo” o due e poi sparirono, altre diventarono grandi aziende con fatturati di molti milioni di dollari, specialmente quando il rock’n’roll portò la musica nera e quella bianca a dividersi lo stesso mercato. Alcune compagnie si rivolgevano a un mercato esclusivamente locale o regionale, ma altre lottavano per ottenere una distribuzione a livello nazionale e tutta la promozione da parte dei disc-jockey di centinaia di stazioni radio che i contatti personali, le insistenze e le bustarelle potevano procurare. Non tutte erano specializzate in rhythm&blues: c’è n’erano alcune che si occupavano di musica hillbilly bianca , di country&western e di qualsiasi altro genere di musica leggera o popolare, ma alcune erano, e sono a lungo rimaste, completamente dedicate al Blues, a volte al dì fuori dell’amore per la musica.
Persino quando il blues e diventato solo una piccola parte della cultura nera, in termini di riscontro popolare, ci sono state moltissime etichette blues, tenute in piedi da bianchi o da neri, che hanno inciso nuovi Blues e ne hanno ripubblicato di vecchi.

Nella primavera del 1973, “Living Blues” compilo’ una lista di più cinquanta case solo a Chicago che avevano recentemente pubblicato dei dischi di Blues, a volte servendosi di più etichette. Ci sono stati dei cantanti che hanno fondato le loro case discografiche, come Bobo Jenkins a Detroit, che ha pubblicato un paio di album delle sue incisioni fatte in casa. Per mancanza di fondi, difficoltà di distribuzione e per lo scarso spazio che ha avuto il Blues nelle radio nere, la maggior parte delle piccole case discografiche erano destinate al fallimento, o almeno a un successo commerciale molto ridotto, ma vi sono stati un numero incredibile di Blues singer che si dedicavano alla loro arte, con la speranza di un lavoro regolare, almeno e magari di un hit discografico.

Commercialmente, il periodo del boom per il Blues fu negli anni Cinquanta: quasi tutti i cantanti che sono restati delle star nella comunità di colore hanno cominciato la loro carriera in quel periodo, più o meno. Con un così gran numero di case discografiche a servire tante comunità, riuscì a trovare sbocco una gamma sorprendente di stili, che andavano da quello delle jump band a quello de cantanti profondamente radicali nella tradizione del country blues.
Uno dei più grandi country Blues singer, che riuscì a vendere parecchio, se non enormemente, è Lightnin’ Hopkins, nato a Centreville, una cittadina agricola nei pressi di Houston, Texax. Come cantava in Goin’ Back And Talk To Mama […]”.
( Il testo virgolettato è tratto dal libro dal titolo. Blues, La musica del diavolo, autore Giles Oakley. Traduzione di Umberto Fiori. 2009 ShaKe Edizioni, Milano).

Fino ad ora ho raccontato la storia del genere musicale, il Blues i suoi protagonisti, vorrei concludere, parlando del cantante e chitarrista B.B.King.
Negli anni Cinquanta vi fu una vasta produzione di piccole e grandi label, ma anche tanti cantanti di medio e di grande livello.
Uno di questi era B.B.King, cantante e chitarrista, notevole è stata la sua carriera e le produzioni che ha fatto, collaborando con vari suoi colleghi, uno di questi il cantante e chitarrista che negli anni Sessanta, faceva parte dei Cream, Eric Clapton.
I due artisti produssero insieme un’opera fonografica, dal titolo: “Riding With The King”, disco uscito nell’anno Duemila per la label Reprise Records, etichetta fondata dal cantante attore Frank Sinatra.

“L’autore Giles Oakley, Racconta la storia del cantante e chitarrista B.B.King.
“[…]Ho sentito B.B.King cantare molti motivi in moltissime occasioni, e lui chissà quante volte lì ha cantati: migliaia; eppure ogni che canta e che suona e un’esperienza diversa, unica. Ho visto delle donne svenire durante i suoi assoli o quando attaccava il suo falsetto lamentoso. Una volta per esempio, in Louisiana, una donna stava ballando in delirio, e quando lui attaccò il falsetto e lo tenne – mi pare che fosse in Worry, Worry – lei si affloscio’, e cadde in una sedia. Arrivò il proprietario del locale e, dandole degli schiaffetti sulle guance, le chiese se si sentiva bene. Lei rispose semplicemente: ‘Sto benissimo, cocco, è solo che capisco quello che canta, ecco tutto’. E fece un gran sorriso”.

Chiamato, com’era inevitabile, “King of the Blues”, B.B.King è stato in tempi recenti forse il Blues singer di maggior successo commerciale con un pubblico nero. Con la grazia e la precisione del suo stile sulla chitarra elettrica, le note lunghe che cadano e poi si liberano in volo sembrano una comunità religiosa che risponde alla voce di un predicatore. Lo stesso King si è commosso fino alle lacrime per la sua musica: “È un po’ come la nota che spacca il bicchiere”. Il suo stile chitarristico ha attraversato ormai molte barriere e ha influenzato musicisti di rock e di blues, bianchi e neri.
Ma con la diminuzione dell’interesse dei neri per il blues, è stata dura. Negli anni Cinquanta e Sessanta, prima di raggiungere un pubblico più vasto, era costretto a esibirsi in forse più di trecento posti differenti ogni anno, attraversando l’America in lungo e in largo nella rete infinita dei club, delle sale da ballo e dei teatri, e ogni volta ci si aspettava che desse il meglio, che fosse gentile, controllato e divertente.

“Comincia veramente a lottare per il blues” disse B.B.King a Stanley Dance.
“Quello che diceva la gente sui personaggi che io consideravo i grandi, i blues singer, mi faceva male. Ne parlavano come di gente ignorante e sudicia… A dire il vero, credo le loro intenzioni elevare il tenore di vita dei neri, e così non essere associati al Blues, perché il blues era ancora laggiù.
King è stato fiero di identificarsi completamente con il Blues, e ha lavorato coscientemente da ambasciatore, sa portavoce di questa musica. La lista di tutti quelli che hanno influenzato, va dai Blues singer come Blind Lemon Jefferson, Lonnie Johnson e T-Bone Walker, ai chitarristi jazz come Django Reinhardt e Charlie Christian, senza tralasciare suo cugino Booker White.

Come Blues singer è la completa antitesi dell’ubriacone analfabeta e dinoccolato che forma l’immagine popolare e inoltre, dal momento che considerava la musica come un impegno personale, è stato ferito mortalmente, come altri della sua generazione, dal rifiuto del blues da parte dei neri.
Per certa gente il blues è quasi una cosa “sacra”, diceva, “ma certa altra gente non capisce, e quando io non riesco a farglielo capire, questo mi fa star male, perché per me il Blues vuol dire talmente tante cose… Ricordo la mia infanzia, razziali, il brutto periodo degli anni Trenta.
Ricordo come eravamo ridotti… Ma forse certa gente non vuole che si ricordi che c’era anche lei.

Finché un Blues singer non riesce a sfondare nel più vasto mercato della musica leggera, ad avere concerti nelle università bianche e tournée all’estero come B.B.King e come Albert e Freddie King (nessuna parentela), il blues è relegato ai margini della musica popolare nera, schiacciato dalla sempre più grande varietà della musica soul.
Il declino per il blues e l’affermazione del soul come voce dell’America nera coincide con enormi mutamenti di mentalità all’interno della stessa comunità nera.
Pur restando grave la miseria, la discriminazione e l’instabilità sociale, era cresciuto un sentimento di resistenza, di forza e di orgoglio. La stoica rassegnazione era stata sostituita dalla convinzione che si dovesse rendere possibile un cambiamento, e che le cose un tempo accettare come inevitabili fossero inaccettabili oggi […]”.
“[…] Mentre il Blues più popolare è stato quello vicino alla soul music, i vecchi stili hanno fatto fatica a tenere il passo: Bland non si è fatto più chiamare Bobby “Blue” Bland dopo gli anni Cinquanta. In generale i Blues singer che hanno mantenuto il loro successo dopo questo periodo sono quelli più lontani dalle connotazioni “meridionali” (down home) e “da strada”.

Hanno incontrato maggior favore i suoni “puliti” di quelli “sporchi”; la limpidezza cristallina della chitarra di B.B. King o di Little Milton, la dolcezza da ballad di Bobby Bland o di Junior Parker (fino alla sua morte nel 1971) sono stati preferiti all durezza lamentosa di Muddy Waters. Il mercato dei teenager praticamente ignora il Blues, ma per i più anziani che amano “tornare indietro” e rammentare la loro giovinezza, i suoni levigati, raffinati, incantati, contribuiscono a rimuovere le implicazioni più sgradevoli della musica e del proprio passato. Negli anni Settanta il disc-jockey Pervin Spann parlando dell’importanza del “blues” disse: “Per i vecchi è molto importante. ” E basandosi sulla sua esperienza di operatore in una radio di Chicago aggiunse: ” In questa zona quando i ragazzi cominciano a crescere si abituano al Blues, assumono un un’altro atteggiamento verso questa musica. Quando uno ti dice che è duro tirare avanti, che si invecchia è che è difficile campare, tu stai a sentire. Quello è il Blues. Quando uno ti dice: ‘La mia ragazza mi ha lasciato, si è portata via tutto quello che avevo’, quello e il Blues. Quando cercano speranza e non riescono a trovarla, quello è il blues. Cose del genere ti abituano ad ascoltare, ad ascoltare il blues. Ma stelle come B.B. King, come Bland e Little Johnny Taylor sono progressivamente diventate una piccolissima minoranza nel mondo del soul in continuo cambiamento. Lo spazio radiofonico del blues si è sempre più ristretto nelle stazioni soul, la gente lo considerava musica “dei tempi della schiavitù”, e così il blues si è già via esaurito come musica popolare nera. Alcuni artisti hanno fatto del Blues solo per il pubblico bianco, e sono rimasti legati al soul nei loro bar; alcuni hanno lavorato alla catena di montaggio o nelle acciaierie usando le loro vacanze per fare delle tournée in Europa con quella musica dal mercato tanto ristretto in patria.

Comunque, in tutti gli Stati Uniti sono rimasti sei circoli di quartiere che si dedicavano al vecchio Blues, e questa musica non è ancora morta. Studiosi di folklore, appassionati di jazz ricercatori di giornali come “Blues Unlimited”, inglese, o “Living Blues”, americano, hanno contribuito a ricordare al pubblico la ricchezza di questa musica che ha dato contributi notevoli al Jazz, al rock e al soul e moltissimi musicisti sconosciuti riescono a esibirsi nelle università e nei festival specializzati […]”.
“[…] Le radici del blues restano nell’America nera, e se molti cantanti sono sdegnati per il rifiuto del blues da parte dei neri come negazione della loro tradizione. Il soul non è stato semplice un rifiuto del passato che il blues sembra raprpresentare: come il blues, è musica di feeling, di sentimento, e il sentimento è quello della collettività. Come diceva il disc-jockey di Chicago Butterball di Radio Avon a Michael Haralambos: “Il vecchio blues singer dice: ‘Non importa che cosa ti fa il mondo e tu lasci strizzare il cervello e abbattere il morale; continuerò a mettercela tutta, e in qualche modo me la caverò ‘. Un blues singer il più delle volte parla di sé. La nuova generazione, o la gente “soulful” invece della gente “blues”, che poi è pure “soulful”, ma voglio dire la nuova generazione, parla di questo senso della collettività perché oggi c’è molta più unità. Anni fa erano individui isolati e avevano atteggiamenti idividualustici, oggi dicono: si va avanti, c’è la metteremo tutta e c’è la faremo. È il senso della collettività, dell’essere insieme. Penso che sia un movimento”.

E con queste ultime parole l’autore Giles OaKley, termina il suo libro dal titolo, Blues, La musica del diavolo, 2009 ShaKe Edizioni Milano.
“Nato come struggente grido di libertà, mezzo di fuga per gli africani deportati negli Stati Uniti nel periodo della schiavitù, il canto ed il significato del Blues continuano a rimanere invariati negli ideali, sebbene abbia subito profonde innovazioni e grandi processi di ampliamento socioculturale.
Il Blues riesce ad essere una valvola di sfogo per le emozioni più oscure e recondite, per i sentimenti più concentrati e nascosti dell’animo umano.
In questa classifica, quindi”, i giornalisti della Redazione R3M, hanno stilato questo classifica: “abbiamo deciso di raccogliere alcune delle canzoni più tristi di sempre.

“La prima è di “Blind Willie Johnson – Dark Was The Night, Cold Was The Ground.
“Dark Was The Night è un brano dalla semplicità e dal carico emozionale disarmante.
Il brano venne lanciato nello spazio, registrato su un disco placcato in oro a bordo della sonda Voyager1, nel 1977.
La traccia, venne registrata dal predicatore texano Blind Willie johnson nel 1927, ispirato da una composizione del XIX secolo.
Il brano rispecchia una condizione umana struggente, trovarsi nel buio della notte senza un posto dove trovare ristoro.

Reverendo Gary Davis –
Death Don’t Have No Mercy

Un testo intriso di significato si scaglia in soliloquio contro un giro di chitarra semplice e ripetuto, intervallato da alcune sviste, per poi culminare in un assolo meraviglioso per la sua melodia. Death Don’t Have no Mercy è una pietra miliare del Blues sull’inesorabilità della morte, una delle canzoni più tristi nella storia del genere.

Lead Belly –
Where Did you Sleep Last Night?

Resa celebre dall’interpretazione di Kurt Cobain al famoso Live Unplugged, Where Did You Sleep Last Night?
Anche conosciuta come In The Pines e Black Girl è un brano composto negli anni ’70 dell’800, reinterpretato in chiave Bluesgrass nella sua versione storica più solenne da Lead Belly. Il brano parla di passione, tradimenti e tragedia, venendo interpretato con profonda rassegnazione nei confronti di ciò che è stato.

T – Bone Walker –

Stormy Monday Call it Stormy Monday (But Tuesday is Just as Bad), meglio conosciuto col titolo sopracitato, fu scritto da T – Bone Walker nel 1947, per poi essere riproposto da Atlantic Records nel ’59.
Si tratta di un classico 12 barre che, nella versione rivisitata, viene riportato a nuova vita da un tripudio di chitarre elettriche tipico del Blues di quegli anni.
Melodie decise tessono un tappeto particolarmente efficace per la declamazione incisiva del testo tipico di Bluesmen iconici come T – Bone Walker.

Robert Johnson –
Me and the Devil Blues.
Scritta dal leggendario Bluesman per eccellenza, Robert Johnson, Me And the Davil Blues è uno dei brani più famosi ed evocativi nella sua opera .
La traccia, celebrata ed ammirata dai più grandi chitarristi Rock di tutti i tempi, parla di un’incontro immaginario tra l’autore e demonio.
Ovviamente denominata dalla chitarra acustica che consacrò Johnson alla leggenda, Me And the Devil Blues è una delle canzoni Blues più tristi di sempre”
( Il testo virgolettato è stato scritto dalla Redazione di R3M, in data venerdì 25 dicembre 2020).

Post Scriptum.

Agli appassionati del genere Blues, consiglio il libro dell’autore Giles Oakley dal titolo: “Blues La musica del diavolo, traduzione di Umberto Fiori, 2009 ShaKe Edizioni, Milano.
Fine.

A cura di Alessandro Poletti – Foto Redazione

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui