Nei popoli germanici, come in tutte le altre popolazioni, erano in uso una serie di tradizioni che potrebbero apparire magiche agli occhi odierni ma all’epoca erano di utilizzo comune.

Si usavano infatti la farmacopea vegetale, le profezie, gli incantesimi e una particolare forma di magia che veniva praticata soprattutto da donne chiamate sibille.

La vegetazione era vista come forma sacra ed aveva come simbolo un albero, il frassino Yggdrasil, situato al centro del mondo, e al quale il Dio Odino secondo la leggenda, decise di appendersi per nove giorni e nove notti.

In seguito a questo sacrificio meditativo scoprì le “Rune”, ovvero uno speciale alfabeto, dai caratteri un po’ particolari, che divenne successivamente uno strumento magico.
Egli narra:

”So che fui appeso all’albero nel vento freddo
nove gelide notti…
mi sono sacrificato a me stesso,
all’albero della potenza che contiene l’uomo nelle sue radici.
Non ho ricevuto né pane né vino,
allora ho cercato intorno a me,
e ho riconosciuto le rune e le ho prese gemendo,
finchè caddi dall’albero.
Ho iniziato a essere e a diventare saggio,
a crescere e a sentirmi bene.
Il verbo si sviluppa parola dopo parola,
e opera dopo opera.
Conosco ora le formule piĂą di una nobile donna,
e nessuno dei figli degli uomini.
Inacessibili per molto tempo figlio d’uomo,
queste formule ti sono celate.
Prendile e le sperimenterai,
Utilizzale e le capirai.
Salute a te, se le proteggi”.

L’insegnamento delle rune veniva trasmesso oralmente e, ad ogni aspetto della vita quotidiana, corrispondevano specifiche formule runiche rituali.
Venivano utilizzate anche rune incise su talismani, attrezzi, armi o intagliate nel legno per essere successivamente adoperate in lanci divinatori.

Lo stesso Tacito, grande storico romano scrisse: “Danno molta importanza alla divinazione, più di ogni altro popolo. Il loro metodo per conoscere la sorte è semplice: tagliano un rametto di albero da frutta e lo dividono in pezzettini; incidono su ciascuno un segno particolare e li spargono a caso su un telo bianco.

Poi, dopo aver invocato gli dei alzando gli occhi verso il cielo, il sacerdote della comunità, se la cerimonia ha luogo in pubblico, il padre di famiglia se è privata, afferra tre pezzetti di legno alla volta e li interpreta in funzione dei segni che vi figurano”.

Le rune erano utilizzate anche per effettuare particolari incantesimi, ad esempio si cantava all’undicesima runa, la “SIG” per accompagnare qualcuno durante un combattimento, affinchè la persona vincesse la battaglia e ne uscisse sana e salva.
Questo tipo di magia si trovava anche nella popolazione finnica, sotto forma di “runotti”, il loro impiego fu abbondantemente descritto nel poema epico “Kalevala” dove l’elemento magico veniva applicato ad ogni attivitĂ  in maniera precisa.

Secondo i finnici quando l’uomo entrava in contatto con la materia, per far riuscire la sua azione magica, doveva conoscere la formula precisa della materia, formula che simboleggiava la conoscenza dell’origine delle cose sulle quali si voleva influire.
Il protagonista, Vainamoinen, figlio della Dea dell’Aria, un giorno si ferì con la propria accetta e ricorse alle cure di un vecchio ma importante guaritore. Quest’ultimo non riuscì a curare l’eroe finchè non gli fu rivelata la sostanza componente la scure, ovvero il ferro.

Per i Finno-Ugrici ogni individuo, ogni oggetto e ogni fenomeno era dotato di anima, anima alla quale bisognava saper parlare o che bisognava far vibrare per poterla penetrare e comunicare con la sua origine piĂą profonda.

La ricerca intensa del grande mistero della Natura persistette in un’epoca in cui essa poteva parlare agli uomini che sapevano ascoltarla, tanto che i re norvegesi del Medioevo vietarono al loro popolo ogni viaggio in Finlandia per consultare i maghi.

Anche i popoli slavi eseguivano appositi rituali per propiziarsi le divinitĂ  dei campi, degli alberi, delle acque e delle stagioni; inoltre per i morti eseguivano dei riti particolari per essere in pace con loro e per poter beneficiare della loro benevolenza.

Il giorno della festa di Kupala (solstizio d’estate), della pioggia e della vegetazione, procedevano alla raccolta delle erbe magiche, ossia all’alba andavano a raccogliere “l’erba delle lacrime” (salcerella), che aveva la proprietĂ  di domare i demoni.

Durante il giorno raccoglievano “l’erba che spacca” (la sassifraga) che aveva la virtĂą di spezzare alcuni metalli entrando semplicemente in contatto con questi. Di notte invece andavano alla ricerca dell’erba sacra di Kupala, ovvero il fiore di felce, che secondo le leggende era custodito da mostri, ma che dava una potenza illimitata a chi sapeva raccoglierlo.

Vi era inoltre il guaritore, chiamato “vratch”, colui che scongiurava il male con le parole, il quale utilizzava il suono e le formule sacre per allontanare il dolore e la negatività.

Queste furono le radici per le quali la Chiesa cristiana condannò fenomeni e persone con l’appellativo di stregoneria.

A cura di Barbara Comelato – Foto Repertorio

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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