Alberto Sansovini, nella lunga estate calda del 1966, quella dove la regina d’Inghilterra era Pelé, aveva solo dieci anni ma era estremamente determinato a diventare il più grande calciatore della sua terra, la Romagna. Era nato e viveva in Corso Fratelli Cervi a Riccione Paese, e il suo sogno di bambino era quello di possedere un paio di scarpini da calcio, di quelli realizzati dalla maestria di Silvano Saponi l’uomo delle Scarpe d’Oro, quelle che secondo i bambini riccionesi dell’epoca, ma anche quelli un po’ più grandicelli, possedevano un’anima e grazie al fluido magico con cui venivano trattate, consentivano a chiunque le indossasse, e fosse in grado di effettuare almeno uno stop a seguire, di giocare come Pelé.

La letterina che Alberto inviò a Babbo Natale quell’anno, aveva una sola richiesta di regalo e quel regalo, il più bello ricevuto in tutta la sua lunga e tormentata esistenza, come per miracolo arrivò. Passò tutto il periodo delle vacanze di Natale a rimirare l’oggetto del desiderio, e si convinse che la lettera “A” stampata sulla linguetta, fosse una sorta di personalizzazione, l’interno invece recava una scritta in biancoceleste, i colori del Riccione calcio. Indossò, per la prima volta, i magici scarpini in occasione di una partita disputata tra due squadre partecipanti all’annuale torneo parrocchiale, Santos-Independiente.

Non c’è bisogno di specificare in quale delle due giocava Alberto e neanche che numero di maglia gli era stato assegnato dal cappellano/allenatore Don Rodrigo Vasari il quale, a dispetto del nome, era persona umile, gran motivatore e dal cuore forte. L’incontro terminò con una netta vittoria da parte dell’Independiente ma il miglior goal, quello della bandiera, fu realizzato da Alberto, che da quel giorno venne soprannominato Albertinho, un dribbling, tre sombreri, di cui uno, l’ultimo, al portiere e gol di testa a porta vuota. Da quel giorno, Albertinho conservò gelosamente i suoi scarpini avendo un’estrema cura nella pulizia e l’ingrassatura, quest’ultima usata per proteggerle mantenendole morbide e quindi più comode.

L’anno seguente, e precisamente martedì, 20 giugno 1967, il Santos, su invito del facoltoso imprenditore tedesco Rolan Endler, amante di Riccione dove possedeva una villa e trascorreva parte dell’anno, nonché presidente onorario del Santos, in occasione di una tournée in Europa, organizzò un’amichevole con il Venezia allo stadio comunale di Riccione. Albertinho si presentò allo stadio subito dopo aver pranzato portando con sé la frutta, mango e maracujà. Purtroppo non riuscì ad incontrare la perla nera né ad avvicinarlo ma il ricordo di quella partita lo portò sempre nel cuore.

I suoi sogni di gloria morirono una mattina di gennaio del 1968, mentre procedeva in sella alla sua bicicletta con l’obiettivo di raggiungere il campo d’allenamento, un pirata della strada lo investì lasciandolo a terra con una triplice frattura alla gamba sinistra che gli impedì di continuare a giocare a pallone. Da grande, divenne un ottimo veterinario e allenatore del settore giovanile di una squadra dell’area riccionese, amato e stimato dai suoi concittadini i quali, alla sua prematura scomparsa avvenuta dopo aver ingerito funghi crudi raccolti da un suo vicino di casa il giorno precedente, chiesero, in assenza di famigliari, che fosse cremato con la casacca del Santos con il numero dieci sulle spalle.

Il motivo non era solo legato alle sue qualità pedatorie ma anche al fatto che la sua morte era avvenuta esattamente nello stesso giorno e ora di Pelé. Sull’urna cineraria, gli amici di sempre fecero incidere una frase presa dal titolo del Sunday Times il giorno dopo la finale dei Mondiali 1970: «How do you spell Pelé? G-O-D». Nel museo del calcio di Rio De Janeiro in una teca, assieme alla foto di O’Rey sono esposte le scarpe che Silvano Saponi gli realizzò in quell’afosa estate del ’66.

A cura di Marco Benazzi – Foto fonte Amazon

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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