La sera del 12 marzo 1909 un uomo di bassa statura dall’Hotel de France di Palermo si reca a cena al Caffè Oreto. Finito il pasto esce quando mancano pochi minuti alle ventuno. Dopo alcune centinaia di metri si sentono quattro colpi di pistola: tre simultanei e uno isolato. La figura robusta dell’uomo crolla al suolo mentre due persone si allontanano nell’ombra.

Giuseppe, detto Joe, Petrosino, nato a Padula (Sa) il 30 agosto 1860, viene ucciso.

Dopo oltre cento anni si è scoperto, da un’intercettazione telefonica, che l’esecutore materiale dell’omicidio fu un mafioso, in un primo tempo imputato, poi prosciolto. Una notizia che afferma la teoria sulla mafia siciliana. Cosa Nostra, una struttura a lungo termine e a dimensione internazionale, che non ha paura di alzare il tiro su obiettivi di grosso calibro (poliziotti, magistrati, politici, imprenditori) e che non teme la repressione grazie ad una consolidata impunità derivante da una collusione trasversale anche con le istituzioni.

A parte le dinamiche del crimine è importante, nell’anniversario della morte, ricordare Petrosino. Un uomo del Sud che, partito dall’entroterra salernitano per sfuggire alla miseria, non ha esitato, appena giunto a New York, a ribellarsi ai soprusi della mafia schierandosi dalla parte della legge. Per comprendere quanto sia centrale il mito di questo “poliziotto italiano” nell’Olimpo degli eroi americani, basta un dato.

Il corpo di polizia di New York durante il Colombus Day ha sfilato seguendo una sua gigantografia. Joe è stato il primo italiano a diventare sia ispettore capo sia detective. La svolta in carriera avvenne nel 1905. Per contrastare l’intensificarsi della delinquenza italiana, il consiglio comunale di New York diede il via libera al suo progetto di costituire una squadra di agenti composta di soli italiani che trasformò l’attitudine investigativa di Petrosino in un metodo di lavoro. Siamo al sorgere della polizia metropolitana moderna, capace di contrastare le organizzazioni criminali all’interno di un ambiente urbano adottando la tattica della mimetizzazione.

La squadra funziona come una centrale di spionaggio con decine d’informatori nei punti cruciali di Little Italy. Con il sistema delle infiltrazioni riuscirà a redigere il primo schedario dei malviventi italiani in circolazione a New York con nutriti dossier in cui sono catalogate, le svariate attività criminali. Grazie all’azione d’intelligence, si scoprirà la struttura della “Mano Nera”. Un’organizzazione che unisce i criminali migrati illegalmente dal paese di origine. Il sistema giuridico statunitense è però impreparato a contrastare un organismo che usa la violenza come una risorsa autonoma per controllare il territorio.

L’unico modo per stroncare la nascente formazione è espellere il capo dei capi e tutti quelli che hanno occultato precedenti penali, sfruttando la legge sull’immigrazione clandestina. Petrosino rimpatriò molti siciliani non regolari. Ora toccava a lui andare in Trinacria a chiudere la partita. Abituato all’uso degli informatori, distribuì dollari per ottenere notizie e rifiutò la collaborazione della polizia italiana per timore di collusioni. Purtroppo a Palermo non c’era la sua squadra a difenderlo. Era solo. E la mafia, come al solito, ne approfittò.

La morte di Petrosino tutt’oggi simboleggia il riscatto di tanti migranti meridionali onesti che, di fronte all’accusa razzista di essere delinquenti omertosi, possono difendersi ricordando il coraggio del connazionale Joe.

Il vice Direttore Ugo Vandelli – Foto Imagoeconomica

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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