Da più di due anni il tema delle “baby gang” ha assunto una certa centralità a livello mediatico. Tanto allarme per un fenomeno ancora poco compreso nella sua complessità. I ragazzi che si aggregano in gruppi e praticano comportamenti devianti non sono “diversi” dai loro coetanei rispetto ai bisogni fondamentali: un’identità sociale e culturale, non sentirsi soli, ma riconosciuti e valorizzati, provare sentimenti di appartenenza, sperimentare rapporti basati sulla solidarietà e la fiducia, ma vivere esperienze forti, in cui sia presente anche un elemento di rischio e di opposizione al sistema degli adulti e delle istituzioni.

Mentre la maggioranza trova in altre situazioni e in altre opportunità risposte a questi bisogni, per chi vive in particolari situazioni di marginalità, di povertà culturale, di mancanza di prospettive e realizzazione o, nel caso di ragazzi di origine straniera, d’incertezze profonde sul piano dell’identità e delle possibilità d’integrazione sociale, l’aggregarsi in bande può apparire l’unica risorsa disponibile per soddisfarli. Ancor più sé essa può anche offrire ciò che ai loro occhi – e non solo ai loro – è importante: denaro o, più spesso, beni di consumo che non si possono permettere, carichi di significati simbolici, che sottraggono a chi si ritiene più fortunato di loro.

I gruppi senza struttura definita hanno legami deboli, una natura più fluida e non presentano una gerarchia chiara. Essi sono protagonisti di attività violente o devianti occasionali e identificabili dalle loro attività sui social network. Le “gang” giovanili esistono nella maggior parte delle regioni italiane, con una leggera prevalenza nel Centro-Nord rispetto al Sud e la loro presenza è indicata in aumento in diverse aree del Paese: Torino, Cremona, Verona, Lecco, Bolzano, Trieste, Ravenna, Lucca, Ancona, Ascoli Piceno, Roma e Cosenza.

I membri di questi gruppi organizzano appuntamenti per le risse, per poi documentare e pubblicare le proprie azioni sui social network. Poi ci sono i gruppi più pericolosi che imitano le mafie o sono legate a esse: Napoli, Salerno, Reggio Calabria, Crotone, Vibo Valentia, Caltanissetta, Milano, Modena, Firenze e Vercelli.

L’imputabilità inizia dai 14 anni, perché prima per il minorenne c’è una presunzione assoluta d’incapacità di intendere e di volere, pertanto, se commette un reato, non è punibile. Tra i 14 e i 18 anni il minorenne può essere imputabile, ma la responsabilità è accertata solo, caso per caso. Normalmente dai 18 anni si è imputabili, quindi si risponde del reato, si viene rinviati a giudizio, si può essere arrestati e condannati al carcere. Ciò che colpisce è che questi adolescenti non si rendono conto delle loro azioni perché quando sono in gruppo, tendono a far confluire nello stesso ogni responsabilità. Le famiglie hanno dato esempi e indicazioni sbagliate, evidenziando che c’è un vuoto nell’educazione di questi ragazzi. Sicuramente sono genitori incapaci di cogliere i primi segnali di allarme.

Il vice Direttore Ugo Vandelli – Foto Imagoeconomica

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